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il manifesto - 25 Luglio 2003 SOCIETÀ pagina 08
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pag.08

Da Porta Palazzo a S. Salvario. Viaggio nelle moschee torinesi
La mezzaluna all'ombra della Mole
TIZIANA BARRUCCI
STEFANO LIBERTI

TORINO
 
TORINO
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TORINO
 
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Da Porta Palazzo a S. Salvario. Viaggio nelle moschee torinesi
La mezzaluna all'ombra della Mole
Strutturatp e organizzato l'islam del capoluogo piemontese si declina al plurale. Nelle moschee che punteggiano i quartieri di immigrazione dominano anime diverse, che spesso non coincidono con l'immagine bellicosa fornita dai media
TIZIANA BARRUCCI
STEFANO LIBERTI

TORINO
«Aria, aria. Spostatevi da qui». Gesticola con tono autoritario il poliziotto della pattuglia mandata per la retata di turno di fronte alla moschea della Pace di Torino. È l'una e mezza di pomeriggio e nel giro di pochi minuti inizierà la khutba (il sermone del venerdì). In tanti, immigrati per lo più arabi, si apprestano ad ascoltare la preghiera ammassandosi all'entrata. Il poliziotto si rivolge minaccioso a un paio di italiani seduti al fresco del portone: «Per motivi di sicurezza non potete stare qui. Quando ce ne andiamo nessuno risponderà più della vostra incolumità». Ma non si accorge che è solo lui con quel paio di volanti piantate all'angolo della strada a rinfocolare l'aria di una giornata d'estate già di per sé afosa. I minuti scorrono tranquilli, mentre i passanti attraversano distratti il marciapiede e i fedeli entrano in moschea. Chi voleva evitare un'insolazione e ascoltare l'imam da vicino è già arrivato da un pezzo: i primi fedeli hanno cominciato ad affluire fin da mezzogiorno; agli altri toccherà restare fuori e pregare su tappeti srotolati a terra per l'occasione.

I centocinquanta metri quadri della moschea non riescono a contenere tutti; così il cortile antistante l'edificio, sovrastato dai fili del bucato dei vicini e attrezzato con altoparlanti posizionati sulle pareti, diventa ogni settimana un'appendice utilissima. Poiché a quest'ora ci batte il sole, in molti rinunciano anche alla postazione di riserva e si accasciano all'ombra dell'atrio, all'entrata del palazzo. Seduti, a volte distratti dagli squilli di qualche cellulare o dall'ingresso dei condomini che rincasano carichi di buste della spesa settimanale, ascolteranno l'intera preghiera come se stessero riposando, per poi inginocchiarsi con gli altri nel cortile solo al momento delle esortazioni conclusive.

La moschea della Pace, nel quartiere di Porta Palazzo, è una delle più aperte e integrate di tutta Torino. Era stato proprio il marocchino Kader, assiduo frequentatore del posto, a spalancarci le porte il giorno prima, invitandoci a tornare per la preghiera del venerdì. «La casa di Allah è aperta a tutti, come potete altrimenti conoscere veramente l'islam?» Due grandi sale accolgono i fedeli, mentre in una stanzetta raccolta sono custoditi decine di libri e cassette sull'islam. Anche le donne hanno - cosa non comune nelle piccole moschee italiane - una camera ampia con ingresso autonomo per incontrarsi, pregare e studiare l'arabo.



Carenza di spazi



Tutti questi spazi il venerdì diventano troppo stretti per una comunità che a Torino continua a crescere ogni anno. Il sovraffollamento della moschea della Pace in occasione della khutba settimanale è ormai una costante - con punte più o meno alte a seconda delle condizioni climatiche - tanto che a un certo momento qualcuno ha pensato fosse cosa utile affittare una ex falegnameria nel cortile dello stesso stabile e convogliarvi i fedeli costretti a pregare all'aperto. Quel qualcuno era Bouriqui Bouchta, l'ultra-mediatizzato imam marocchino noto per le sue esternazioni su Osama bin Laden («un buon musulmano, che non avrebbe mai ucciso innocenti»), che i titolari della più moderata moschea della Pace hanno sempre visto come il fumo negli occhi. Eravamo nel 1999.

Segno parossistico della frammentazione dell'islam sabaudo e dell'acceso scontro per la sua leadership (che oggi nessuno può rivendicare), l'esperimento delle due sale di culto adiacenti con orientamenti diversi durerà appena un anno. Nel 2000 Bouchta si sposterà in una nuova moschea nella vicina via Cottolengo. Da allora, i due principali protagonisti dello scontro - il pacato Abdelaziz Khounati, presidente della moschea della Pace, e l'infuocato Bouchta - continuano a rimbeccarsi a mezzo stampa.



L'imam televisivo



Quando andiamo a incontrarlo in una delle due macellerie halal che gestisce a Piazza della Repubblica, Bouchta si mostra disponibile e cordiale. Sguardo penetrante, portamento elegante, si definisce un «imam autodidatta», che su base volontaria guida la preghiera del venerdì. Ideologicamente vicino all'altrettanto mediatizzato Adel Smith, presidente della fantomatica Unione dei musulmani italiani, Bouchta sposa le sue tesi più provocatorie, che vanno da una difesa stravagante del regime saudita («è giusto che alle donne sia proibito guidare, perché le piste del deserto sono piene di predoni che potrebbero violentarle») al riferimento ossessivo a presunti complotti sionisti, agitato sia in occasione dell'11 settembre che dei recenti attentati a Casablanca. Accusato da alcuni di essere responsabile del reclutamento di mujaheddin da mandare in Afghanistan o in Cecenia, l'imam marocchino è tranquillo e sicuro di sé: «Ci occupiamo di cose ben diverse. Per un mese e mezzo, ad esempio, abbiamo parlato della condizione dell'immigrato in Italia. E d'altronde le nostre moschee sono supercontrollate, se facessi qualcosa di illegale verrei arrestato subito». A chi lo critica per le sue controverse uscite in politica estera, Bouchta risponde che non può essere ipocrita e che «quando accade qualcosa che riguarda i musulmani, bisogna parlarne».

Volto televisivo della comunità musulmana torinese, spesso invitato alle trasmissioni sull'islam perché le sue posizioni fanno audience, nel tessuto cittadino Bouchta appare tuttavia piuttosto isolato. La sua sovraesposizione mediatica viene criticata da molti, anche da coloro che una volta gli erano vicini. «Lui ha le sue idee, noi le nostre. Vogliamo solo vivere tranquilli, lavorare e pregare in pace», si affretta a precisare Mahmud, responsabile della moschea di Via Baretti, a poca distanza dalla stazione di Porta Nuova. Questo ex garage trasformato in luogo di preghiera è stato per molto tempo gestito direttamente dal macellaio di piazza della Repubblica, che alla fine ha però dovuto cedere, lasciando spazio all'ala moderata. Il cambio di gestione, che verrà ufficializzato a settembre, avviene formalmente per i troppi impegni dell'ex presidente. Ma l'ostilità nei confronti di Bouchta è palpabile. «Un pesce marcio fa puzzare tutta la partita», chiosa con un proverbio arabo assai significativo il marocchino Mohammed, anche lui membro del comitato di gestione di via Baretti.



Una comunità divisa



Nel cuore del quartiere San Salvario, questo garage riconvertito al verbo di Allah è nato poco meno di dieci anni fa, a poche centinaia di metri da via Berthollet, dove sorgeva la moschea-madre di tutta Torino. Messa in piedi nel 1986 e abbandonata qualche anno fa dopo uno sfratto esecutivo, via Berthollet può essere considerata la culla dell'islam sabaudo: gli esponenti più in vista della comunità musulmana torinese vengono da lì e hanno poi messo in piedi i luoghi di culto che punteggiano la città, e in particolare i due quartieri a maggiore densità immigratoria: Porta Palazzo (teatro dello scontro tra Khounati e Bouchta) e lo stesso San Salvario. Basta percorrere pochi metri da Via Baretti per trovare, nascosto dietro ad un cortile condominiale che affaccia su via Saluzzo, l'ennesimo appartamento riconvertito. Una rampa di scale separa la zona riservata alla preghiera maschile da quella adibita alle donne, più piccola ma ampia rispetto agli standard ai quali siamo stati abituati. La moschea, unica in cui il comitato di gestione non è monopolizzato dalla corposa e maggioritaria comunità marocchina, diventa difatti il sabato luogo privilegiato di ritrovo per decine di donne somale.

Diversi aspetti mostrano che quella dell'islam a Torino è una presenza stabile e ben consolidata: in quasi tutte le moschee c'è una sala per la preghiera delle donne; in molte di esse il comitato direttivo viene eletto democraticamente dall'assemblea dei soci e in alcuni casi i fedeli hanno deciso di comprare gli spazi, segno di una maturazione imprenditoriale e di una presa di coscienza di tipo stanziale. Specchio di un'immigrazione anch'essa ben strutturata e visibile nel tessuto cittadino - con negozi di utensili marocchini, venditori di shawarma e persino due hammam -, la condizione del capoluogo piemontese sembra molto più avanzata rispetto a tutte le altre grandi città italiane. Eppure, l'islam torinese appare frammentato, diviso, riottoso. Solo in occasione delle grandi festività musulmane la comunità riesce a ritrovare un afflato di unità e affitta il palazzetto dello sport o altri luoghi consoni alle sue esigenze. Al di là di queste rare occasioni sembra però incapace di organizzarsi in modo più organico. Una situazione che Nijab, un tunisino che incontriamo all'ingresso della moschea di via Saluzzo, cerca di spiegare con poche parole. «Metti tre arabi in una stanza e avrai sempre quattro opinioni diverse».


 
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