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il manifesto - 06 Aprile 2003 SOCIETĄ pagina 10
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pag.10

La vita fuori moschea
FRANCESCA PILLA
NAPOLI
 
LA BILANCIA
La legge dei forti
DARIA LUCCA
 
Via la cittadinanza all'imam «cattivo»
 
Minoranze discriminate nella Federazione russa
VITTORIO LONGHI
 
TERRA TERRA
Scienziati al servizio del farmaco
FRANCO CARLINI
 

pag.11

Polmonite, la Cina è vicina
A. D.
 
IN BREVE
Sme, salta udienza Previti
 
 

apertura

La vita fuori moschea
A Napoli gli immigrati non parlano in pubblico della guerra, «la gente non ci capisce»
FRANCESCA PILLA
NAPOLI
Nel quartiere Pendino, nel cuore di Napoli, le bandiere della pace non sventolano dai balconi. Al loro posto, nei vicoli e vicoletti intrecciati si apre una distesa di panni che penzolano dalle corde tirate da un palazzo all'altro. Al massimo i drappi arcobaleno si vedono spuntare dalla miriade di negozietti che vendono bigiotteria e cianfrusaglie varie: ma rigorosamente fiancheggiati da bandiere statunitensi, così come le magliette della pace esposte insieme a quelle con la statua della libertà. Qui, sommerso dalla confusione di piazza Mercato c'è un grosso cancello blu con una scritta in arabo che dice di non sedere davanti all'entrata. E' la moschea fondata nel 1994 da un gruppo di musulmani italiani e gestita dall'associazione islamica Zayd ibn Thabit. Il venerdì, giorno di preghiera, è un andirivieni di fedeli arrivati dall'Africa, dall'Asia, dal Medio Oriente; ma anche durante la settimana questo è luogo di ritrovo. L'associazione gestisce una mensa, un ambulatorio, un job center e un servizio doccia per i tanti senza fissa dimora. Non c'è l'area riservata alle donne perché, come spiega Michelangelo Guida, presidente dell'associazione, le comunità sono al 90% composte da uomini, sono pochissime le famiglie e per le musulmane c'è l'altra moschea di corso Lucci.

Nessuno ha voglia di esprimersi apertamente, parlare in pubblico della guerra in Iraq. Un tunisino da cinque anni in Italia lo spiega: «Da quando sono iniziati i bombardamenti, anche se in città non ci sono grossi problemi d'intolleranza, si sono raffreddati i rapporti con i napoletani e si ha più difficoltà a trovare casa o lavoro. La gente è diventata ostile e anche noi siamo diffidenti, abbiamo paura di non essere capiti». In moschea però, durante il sermone, il riferimento a quel che sta succedendo ai fratelli iracheni è d'obbligo. L'imam è pacato, invoca l'immediato cessate il fuoco e il ritiro delle truppe angloamericane, anche se per Saddam i musulmani non nutrono particolari simpatie: «E' un ateo che sventola la bandiera dell'islam per suo comodo», dicono quasi tutti.

Ripercorriamo la strada verso la stazione centrale per arrivare all'altra moschea. E' un fiume di bancarelle: gli ambulanti, quasi tutti immigrati, sono ovunque con le loro borse, sciarpe e cappelli. Un senegalese vende cd pirata e ne ha uno a cui tiene in particolar modo: Al Mukawama, il progetto musicale portato avanti da una parte della band napoletana dei 99 posse. «In arabo Al Mukawama significa resistenza - spiega convinto. Io faccio `al mukawama' tutti i giorni. Ora forse dovremmo andare tutti in Iraq e combattere al fianco dei fratelli musulmani». Poi dà un'altra versione del clima in città, raccontando la solidarietà della gente che il giorno dopo il primo raid aereo su Baghdad, parlando con lui, ha condannato duramente la guerra.

Dietro piazza Garibaldi l'odore di carne e spezie è molto forte. Sono i venditori di kebab, egiziani e tunisini, spuntati uno dopo l'altro da qualche anno, non solo per la forte presenza di migranti nella zona, ma anche perché i napoletani gradiscono la loro cucina e attendono il turno per comprare un abbondante «panino con carne» a non più di due euro. Qui c'è il negozio di Kafil, arrivato dal Bangladesh per vendere all'ingrosso articoli indiani: «Questa è una guerra sporca - dice. La gente ha paura, da quando è iniziata i miei affari vanno male. Non chiedetemi perché». «Io sono contro questa guerra», gli risponde una somala, mentre insieme a un gruppo di donne con veli e gonne batik sceglie sciarpe in seta. «Tutti non fanno che chiedermi da che parte sto - continua - mi guardano male per come sono vestita. Io so solo che voglio la pace e non questa strage d'innocenti». Racconta che dopo l'11 settembre era anche peggio, tanto che una volta in pullman una donna ha iniziato a urlare chiedendo di non farle del male.

«Questa è una guerra contro tutti i musulmani e per la conquista del petrolio, non c'è altro motivo». La pensa così un marocchino che all'uscita dalla moschea di corso Lucci commenta il sermone con Mushim, pakistano. «Hanno sbagliato a andare in Iraq - gli risponde Mushim - questa guerra non l'ha iniziata Saddam, è tutta colpa degli americani». L'imam Abdul Bash viene dal Marocco, ha uno sguardo che ispira tranquillità, pacato nei gesti e molto cordiale; saluta tutti i fedeli dicendo: «Speriamo che dio li fermi. Ho un dolore nel cuore, troppi morti, troppi bambini vittime innocenti». Ed è Mario Abdullah Cavallaro, segretario della moschea, a spiegare la posizione della comunità: «Noi vorremmo partecipare a tutte le manifestazione per la pace, ma abbiamo tanti problemi organizzativi e soprattutto siamo pieni di lavoro per aiutare i fedeli nelle difficoltà quotidiane. Comunque condanniamo l`intervento angloamericano».

Per capire che la vita adesso è ancor meno facile per gli immigrati musulmani, basta andare a via Medina di notte o all'alba dove puntualmente sosta un'interminabile fila multietnica. Più di 200 persone che aspettano davanti alla questura per paura di non riuscire a arrivare allo sportello, magari solo per chiedere informazioni sul permesso di soggiorno. E' Khalid, un pakistano che da cinque anni non torna a casa, a chiarire definitivamente come si campa in questa città. «Ho paura di andare in strada - spiega Khalid - spesso mi capita che i ragazzi in motorino mi sputano addosso, mi urlano terrorista, mi dicono che sono venuto a rubare il lavoro agli italiani, mi trattano come un cane. Non è bello, io sono un uomo, non faccio male a nessuno, non è colpa mia se ho trovato un lavoro qui e non nel mio paese». Poi Khalid si sfoga, raccontando che per ottenere il permesso di soggiorno deve pagare i contributi di tasca propria, visto che i padroni non vogliono regolarizzare nessuno. «La guerra in Iraq? Contro di noi è guerra tutti i giorni».


 
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