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intervista
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Il mio cinema, piccole storie contro la
guerra Incontro con Fariborz
Kamkari, sguardo lucido della nuova generazione di cinema in
Iran. Il suo film d'esordio, «Blank Tape», storia di una
rifugiata kurda a Teheran, sarà alla prossima Mostra di
Venezia. Intanto il regista è arrivato in Italia alla
Cittadella del Corto con «Born to be soldiers», la guerra
civile in Kurdistan CRISTINA
PICCINO ROMA Fariborz Kamkari ha trent'anni, è nato a Teheran
dove vive e insieme ad altri registi, come Samira Makhmalbaf o
Bahman Ghobadi è tra gli sguardi di una possibile nuova onda
iraniana, quella cresciuta con le immagini di Abbas Kiarostami
o Mohsen Makhmalbaf e soprattutto con un'idea di un cinema che
sia vitale, arma di presente e memoria ma anche luogo di
libertà, di ricerca, di invenzione. Non a caso se gli chiedi
quali sono i suoi film preferiti ti parla di Rossellini o del
neorealismo italiano, di un racconto della realtà in cui
documento e fiction si mescolano, producono poesia e insieme
consapevolezza. Anche se poi Kamkari ha come primo amore il
teatro, studi all'università di Teheran, numerose regie,
scrittura. E poi i cortometraggi, le sceneggiature per la tv o
per altri registi - tra gli altri proprio Ghobadi nel
sorprendente Il tempo dei cavalli ubriachi - un
pungente frammento di quella realtà che nella visione
occidentale è sempre più soffocata dagli stereotipi
giustificazione a senso unico di aggressioni o indifferenza.
Del resto è anche questa una caratteristica del cinema di quei
giovani che provano a costruire una doppia consapevolezza, un
racconto al resto del mondo che vuole esprimere la singolarità
e una diversa coscienza nel proprio paese rispetto a censure o
rimozioni. Kamkari nei giorni della rivoluzione khomenista era
poco più che un ragazzino. «Non ricordo molto di allora, mi è
rimasta la sensazione di una situazione molto, molto difficile
specie nei mesi dopo la rivoluzione. C'era la guerra con
l'Iraq, ogni notte cadevano le bombe» dice oggi. E anche da
lì, da un passato mai formalizzato e sempre in stretto
cortocircuito con l'attualità arrivano le loro storie. Un
esempio? La guerra in Kurdistan. Nel parlava Lavagne di
Samira, ne parlava Il tempo dei cavalli ubriachi ,
ne parla anche il lungometraggio d'esordio di Kamkari,
Blank Tape, che sarà alla prossima mostra di Venezia
nella sezione dei Nuovi Territori, la storia di una rifugiata
curda a Teheran e degli uomini chiave nella sua vita. «Anche
se non è un film d'amore ma è soprattutto un film politico
perché esplora le relazioni tra i curdi e la nostra società».
Intanto però Kamkari è già arrivato in Italia, ospite a
Trevignano della Cittadella del Corto, il festival che da otto
anni lavora sulle tendenze del formato breve (si chiude
domani) con Born to be soldier, di nuovo il Kurdistan
in piena guerra civile. Protagonisti sono due ragazzini, due
cuginetti di undici e quattordici anni, nemici per forza
perché mercenari in fazioni diverse. Uno imprigiona l'altro
che gli chiede la libertà. Per un giorno dimenticano la guerra
e tornano ragazzini, poi però la realtà ne cancella ongi
ricordo di infanzia... Documento e fiction (i ragazzini erano
veri piccoli soldati), in Iran non ha avuto il permesso
di essere proiettato in sala cosa che rende Kamkari molto
triste. Dice: «non si può parlare di quella guerra in cui sono
coinvolti Turchia, Iraq e Siria. Non si deve mostrarla, meglio
fare finta di niente. E in più il mio corto è contro la
guerra...».
Come sei arrivato a «Born to be
soldier»?
All'epoca lavoravo per un'associazione
umanitaria in Kurdistan durante la guerra civile. Un giorno ho
incontrato i due cugini del film, erano mercenari e uno dei
due aveva arrestato l'altro. Accade spesso lì, la guerra è la
sola possibilità di guadagnare un po' di soldi per vivere, la
gente non ha nulla, non sa come mangiare, per questo anche i
fratelli posso diventare nemici. Così gli ho dato venti
dollari per lasciare i loro gruppi dove erano pagati,
rischiando la vita, cinque dollari al giorno. Sono venuti con
me e abbiamo girato il film. In guerra erano nemici, nella
vita di tutti i giorni erano due ragazzini con ancora la
voglia di esserlo anche se sono stati costretti a vivere cose
terribili. In Kurdistan ho visto la disperazione, la miseria,
la violenza è inevitabile, arriva da tutte le parti. La gente,
come dicevo, non ha nulla, non possono neanche coltivare la
terra perché è tutto pieno di mine. E' un terribile paradosso
ma gli resta solo la guerra per vivere.
E' per
questo che il Kuridstan è così presente nei tuoi
film?
Il cinema può raccontare le vittime e
aiutarle. L'occidente non ha fatto molto in questa situazione,
anzi sembra piuttosto indifferente. Il cinema può mostrare
questa realtà all'occidente, non ai politici ma alle persone
che non ne sanno nulla e che magari pian piano possono forzare
i loro governi a trovare una soluzione. Non credo molto alla
politica, penso piuttosto che se si riesce a creare una
consapevolezza collettiva rispetto a quanto accade nel mondo
si possa arrivare più lontano che con le promesse dei
politici. Perchè questi problemi riguardano tutti. E' come
l'11 setttembre: non è stata una tragedia solo per New York,
ha colpito il mondo intero.
A proposito, l'11
settembre è stato usato anche per rafforzare reciproci
pregiudizi...
Penso che l'occidente non abbia
capito i principali problemi di coloro che definisce i «suoi
nemici». Ha dato loro bombe quando hanno bisogno di aiuti,
cibo, medicine. Tanti che dicono di combattere per Bin Laden
neanche ci credono nel terrorismo, sono come quei ragazzini
curdi, hanno fame, devono nutrire le famiglie, è la tragedia
di questa gente che muore in guerra. Penso però che ci sia
anche un'enorme ignoranza. Noi sappiamo tutto degli Stati
uniti, loro molto poco di noi. Il cinema in questo senso può
cambiare le cose, aiutare una conoscenza che sia reciproca
rendendo questa parte del mondo, la gente che ci vive più
familiare, raccontando il quotidiano, le storie personali e
non solo le cronache piene di luoghi comuni.
Cosa
significa fare cinema oggi in Iran? Ci sono ancora molte
difficoltà?
Soprattutto è un problema economico.
Non abbiamo grossi aiuti, la televisione non sostiene il
cinema. E' vero che girare un film in Iran costa pochissimo e
per noi è stato fondamentale il digitale, aiuta i registi come
me a mettere insieme i loro film senza aspettare troppo tempo.
Dal punto di vista del controllo «politico», della censura le
cose vanno molto meglio. Il presidente Kathami stra cercando
di cambiare la situazione, non è facile ma ci sono stati molti
miglioramenti.
E qual è la condizione dei rifugiati
curdi in Iran?
Vivono molto male, sono poveri,
emarginati anche se rispetto alla Turchia stanno già meglio,
almeno possono parlare la loro lingua cosa che invece là gli è
proibita. E' un problema culturale che si presenta in tutte le
relazioni fra una società e le minoranze. Ed è difficile da
superare. Per me parlarne, come ho fatto nel mio film,
Blank Tape, è sempre un modo per capire meglio la
realtà in cui vivo. Il cinema è un po' lo specchio di un paese
, in Iran ci aiuta a scoprire o a conoscere in modo profondo
la nostra cultura e le nostre contraddizioni. Ed è importante
mantenere una specificità perché i problemi sono diversi
ovunque, le culture sono diverse una dall'altra. E un po' il
contrario di quanto fa un certo cinema americano che vuole
essere uguale per
tutti.
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