Razza, una bugia lunga tre secoli
La
confutazione definita del paradigma della "razza" giunge
insieme alla conferma molecolare, attraverso lo studio del Dna
mitocondriale, dell'origine unica, recente e africana
dell'Homo sapiens GIANFRANCO BIONDI - OLGA RICKARDS
Al concetto di "razza" è stato
riservato il destino piuttosto singolare di essere
formalizzato addirittura prima che l'antropologia fisica
nascesse come scienza autonoma verso la fine del XVIII secolo.
Nell'atto di fondazione della moderna biologia, il Systema
naturae pubblicato da Linneo nel 1735, l'umanità risultava
già divisa in quattro varietà: europei, americani, asiatici e
africani. Si può davvero ritenere quindi che quello della
"razza" sia stato un paradigma che ci ha accompagnati, e
ossessionati, per tre secoli e che non poteva rimanere
estraneo all'attuale dibattito sull'origine della nostra
specie. Anzi, uno dei modelli che hanno cercato di spiegare la
formazione dell'uomo moderno gli ha fornito una nuova
vitalità. Si tratta dell'ipotesi della continuità regionale
che ha ipotizzato l'evoluzione parallela dei gruppi umani, nei
diversi continenti del Vecchio Mondo, a partire da forme
arcaiche di Homo fino ai sapiens attuali:
ergaster in Africa, heidelbergensis e
neanderthalensis in Europa, erectus in Asia. In
un quadro siffatto, gli uomini antichi non si sarebbero
evoluti in tante specie diverse solo grazie all'elevato flusso
genico, o mescolamento, che avrebbe interessato le popolazioni
locali che vivevano in regioni adiacenti. E così, il concetto
di "razza" non solo è stato mantenuto come realtà concettuale
dalla lunghezza della fase evolutiva che avrebbe portato alla
nostra formazione, ma è diventato essenziale per garantire la
coerenza logica interna dell'ipotesi stessa. Sul versante
opposto si sono collocati gli studi molecolari. All'inizio
degli anni '70 del XX secolo Richard Lewontin, dell'università
di Harvard, ha fornito una critica empirica molto solida al
concetto di "razza", dimostrando l'impossibilità di
suddividere l'umanità in categorie sistematiche
sottospecifiche, perché la variabilità genetica all'interno
delle singole popolazioni è molto più alta, circa l'85%
dell'intera variazione che caratterizza l'uomo come specie, di
quella che si riscontra tra popolazioni diverse, il rimanente
15%. (...) Ma la definitiva confutazione della "razza" è
giunta assieme alla conferma molecolare dell'origine unica,
recente e africana dell'Homo sapiens. I circa 200.000
anni della divergenza genetica, e le poche decine di migliaia
di anni di quella morfologica, non possono essere stati
sufficienti per differenziare l'umanità in categorie separate,
come gli antropologi hanno creduto per quasi tre secoli.
Questo non vuol dire che le popolazioni non siano tra loro
anche molto diverse biologicamente, ma semplicemente che i
gruppi "razziali" classici non consentono di ricostruire la
loro struttura filogenetica. Il punto centrale della questione
sta qui: la suddivisione degli organismi viventi in diverse
classi tassonomiche serve per evidenziare i loro rapporti di
parentela, cioè quale sia il gruppo progenitore e quale
l'erede, e proprio a questo fine la "razza" si è dimostrata
inadeguata. Il concetto di "razza" biologica umana può al
massimo consentirci di ricostruire la storia ecologica della
nostra specie, mai la nostra evoluzione. Ecco perché possiamo
affermare che le "razze" umane non esistono. L'unità degli
uomini moderni, come ci hanno insegnato gli antropologi
molecolari della California, è una realtà biologica (compatta,
con le radici assai vicine nel tempo e collocate in terra
africana) e non più il semplice desiderio politico di
"visionari" sognatori egualitari. (...) Le Americhe.
Il passaggio di gruppi di sapiens asiatici dal Vecchio
al Nuovo Mondo avvenne attraverso la via circumartica della
Siberia e dell'Alaska. Durante l'ultima glaciazione
(12.000-70.000 anni fa), un ponte naturale di terre emerse ha
congiunto le due aree, divenendo un facile varco per l'accesso
alle Americhe. Quella lingua di terra, lunga 1.500 km e
chiamata Beringia, l'attuale stretto di Bering. (...) Tra i
modelli recenti sul popolamento delle Americhe, quelli più
accreditati sono due. Il primo, basato su dati biologici e
linguistici, ha proposto tre ondate migratorie successive. La
più antica, tra 15.000 e 30.000 anni fa, avrebbe dato origine
a un gruppo di popolazioni molto diversificate, gli amerindi,
e distribuite sulla gran parte del vastissimo territorio; la
seconda, tra 10.000 e 15.000 anni fa, sarebbe stata alla base
della formazione dei na-denè, i popoli dell'area nord
occidentale degli Usa; l'ultima, tra 6.000 e 9.000 anni fa,
avrebbe assicurato l'occupazione della parte più inospitale
del continente, dove si è sviluppata la cultura
aleutino-inuit. Per molti studiosi, la tripartizione mostrava
il difetto di compattare (...) un fenomeno assai più
complesso, il quale prevedeva che al posto della prima
migrazione ci fossero stati addirittura tutta una serie di
arrivi. (...) Altri scienziati hanno opposto il modello
denominato "fuori dalla Beringia". In esso, la Beringia non è
stata considerata solo una terra di ingresso, ma ha assunto un
ruolo ben maggiore, perché proprio lì le popolazioni che
avrebbero dato origine ai nativi americani si sarebbero
stanziate a seguito di una singola migrazione, per poi andare
incontro a un processo piuttosto spinto di diversificazione e
infine partire per colonizzare l'intero paese.
(...) Douglas Wallace e i suoi colleghi di Atlanta, hanno
studiato il Dna mitocondriale degli amerindi evidenziando
quattro gruppi di linee fondatrici, detti aplotipi, tre dei
quali (l'A, il C e il D) giunti in America tra 26.000 e 34.000
anni fa, mentre l'ultimo (il B) solo 12.000-15.000 anni fa. In
seguito, gli stessi aplotipi sono stati trovati negli altri
nativi americani, ma la loro età è risultata decisamente più
giovane. Le linee A, C e D sono presenti anche nei Siberiani e
ciò proverebbe che sono stati proprio i loro antenati a dare
origine alla diffusione verso le nuove terre. L'aplotipo B
invece deve essere stato portato necessariamente da popoli
provenienti da una diversa area del continente asiatico. I
dati relativi all'mtDna sembravano convalidare il modello dei
popolamenti successivi, sebbene altri ricercatori abbiano
interpretato le stesse evidenze a supporto di una singola
migrazione. A favore di quest'ultima ipotesi sono giunti gli
studi sul Dna del cromosoma Y, che hanno dimostrato la
presenza di un aplotipo fondatore principale, forse unico, in
tutte le popolazioni native americane. Esattamente quello che
richiedeva il modello "fuori dalla Beringia". (...) Il
Pacifico. La prima colonizzazione di quelle che oggi si
presentano come due isole continentali separate, l'Australia e
la Nuova Guinea, avvenne 35.000 anni fa da parte di uomini
moderni provenienti dal sud est asiatico. Da allora, e fino a
7.000-9.000 anni fa, l'espansione dei ghiacci nella parte
boreale della terra causò l'abbassamento del livello del mare
fino a scoprire un istmo capace di congiungere le due masse in
un'unica area, alla quale fu dato il nome di Sahul. Tuttavia,
la contrazione delle acque non fu mai tanto spinta da
permettere il collegamento verso ovest con il supercontinente
della Sonda, per raggiungere la piattaforma di Sahul, i
sapiens dovettero attraversare circa 70 km di mare.
(...) Le datazioni con il radiocarbonio hanno fatto
risalire il primo stanziamento umano nella Polinesia
occidentale attorno a 3.500 anni fa e decretato esaurito il
processo solo 2.500 anni più tardi, con il popolamento della
Nuova Zelanda. In tal modo, la domanda relativa al "quando?"
ha ottenuto una risposta certa e così il dibattito si è
concentrato sulla provenienza degli antichi colonizzatori.
L'attuale diffusione delle lingue austronesiane, dalle isole
del sud est asiatico fino alla Melanesia e alla Polinesia,
depone a favore dell'ipotesi secondo la quale i migranti
dovevano servirsi di un simile idioma, la cui struttura è
completamente diversa dal papua utilizzato dagli abitanti
della Nuova Guinea, e pertanto il punto di origine
dell'espansione dovrebbe essere ricercato proprio
nell'arcipelago indonesiano. (...) Dal 1.000 al 1.600 a.C. la
ceramica Lapita si diffuse per oltre 4.000 km, dalle isole
dell'Ammiragliato fino a Samoa, senza lasciare altro che
scarsissime testimonianze della sua presenza tra i papua. La
tesi più accreditata è che i produttori lapita fossero degli
agricoltori austronesiani originari delle isole dell'Asia sud
orientale, i quali si sarebbero spinti verso la Melanesia
occidentale, stabilendo dei contatti con le popolazioni papua
che incontrarono lungo il cammino. Poi, in possesso di
tecniche di navigazione abbastanza avanzate, avrebbero
raggiunto le Figi intorno al 1.500 a.C. e, dopo una pausa, le
isole polinesiane più orientali. La grande velocità con la
quale questa cultura e le sue genti si sarebbero spostate
dalla congestionata Melanesia agli spazi disabitati della
Polinesia ha fatto sì che il modello fosse denominato "treno
espresso per la Polinesia". Quel "treno" però, secondo altri,
avrebbe trasportato non già gli agricoltori provenienti
dall'Asia meridionale, bensì dalla Cina attraverso Taiwan. Un
altro gruppo di studiosi ritiene che non sia affatto
necessario ricorrere all'origine extra-Pacifico. Per essi la
lingua austronesiana e la ceramica Lapita potrebbero essere
null'altro che il prodotto di un'evoluzione culturale locale,
della Nuova Guinea-Melanesia. (...) Le conclusioni tratte
dagli antropologi molecolari non hanno dato adito a dubbi: la
maggior parte dell'mtDna polinesiano sarebbe giunta dal sud
est asiatico, mentre assai modesto risulta il contributo dei
popoli del Pacifico occidentale, forse solo "rimorchiato" dai
fabbricatori della ceramica Lapita durante il viaggio ad est.
Coerenti con questa interpretazione sono arrivate anche le
analisi relative al Dna del cromosoma Y, secondo le quali ci
sarebbero state due migrazioni indipendenti dal sud est
dell'Asia, una verso Taiwan e l'altra verso la Polinesia
attraverso le isole indonesiane.(...) Il Vecchio
Mondo. Per il continente africano, i dati mitocondriali
hanno suggerito che quasi il 90% dell'attuale genoma si sia
formato tra 60.000 e 80.000 anni fa e quindi che esso sarebbe
lo stesso di quello posseduto dai colonizzatori dell'Eurasia.
Solo la piccola frazione rimanente è risultata più antica, di
un'epoca nella quale il genoma degli uomini era verosimilmente
più variabile dell'attuale. Gli studi sulle popolazioni
asiatiche sono ancora agli inizi e hanno permesso solo di
osservare che le sequenze più comuni sono uguali a quelle
trovate in America. (...) Il lavoro fondamentale è quello
del gruppo di Luigi Luca Cavalli-Sforza, il quale, costruendo
una mappa sintetica della distribuzione delle frequenze
geniche, ha messo in evidenza la presenza di variazioni
geografiche clinali. La similarità di questa carta con quella
della diffusione dell'agricoltura dal Vicino Oriente ha
portato alla formulazione del modello del popolamento
dell'Europa per espansione demica, che prevede la lenta
migrazione di una popolazione "madre" neolitica, originaria
della parte occidentale dell'Asia, verso il continente
europeo. A determinare la necessità di occupare nuove terre
sarebbe stato l'aumento demografico avviato dalla maggiore
disponibilità di cibo, che avrebbe portato alla sostituzione
completa, o almeno all'assimilazione, dei preesistenti gruppi
di cacciatori-raccoglitori paleo/mesolitici. L'effetto sul
pool genico degli europei sarebbe stato drammatico (...) Un
modello alternativo ha previsto invece una minima intrusione
di genti moderne dal Vicino Oriente. Per esso, i
cacciatori-raccoglitori europei raggiunsero la fase della
cultura neolitica indipendentemente, o a seguito di contatti
commerciali con gli altri popoli, e pertanto il patrimonio
genetico degli abitanti del continente non andò incontro a
drastiche variazioni. Alcuni recentissimi studi sul Dna
mitocondriale hanno convalidato questa seconda ipotesi. I
tempi di divergenza di certe sequenze specifiche, che
corrispondono a circa il 10% di tutte quelle identificate,
hanno suggerito che il loro arrivo nel nostro continente sia
da collocare durante il Paleolitico, tra 40.000 e 50.000 anni
fa, e quindi a seguito della prima migrazione della nostra
specie fuori dall'Africa: in definitiva lo "zoccolo antico"
del nostro genoma. Altri aplotipi invece, circa il 70%, sono
risultati decisamente più giovani, non andando oltre i 25.000
anni fa, un'epoca nella quale in Europa i ghiacci cominciarono
a regredire. Solo l'ultimo 20% delle sequenze mitocondriali
giunse nelle nostre contrade tra 6.000 e 10.000 anni fa, forse
con gli agricoltori levantini. Nel complesso, i dati
mitocondriali si sono dimostrati conformi all'ipotesi che la
maggior parte degli europei moderni discenda dai
sapiens migrati a nord, a seguito di numerose ondate,
durante il Paleolitico superiore. C'è però anche l'indicazione
di una successiva colonizzazione dal Medio Oriente, che
potrebbe coincidere con la diffusione dell'agricoltura, il cui
impatto sul pool genico europeo attuale sarebbe stato comunque
scarso. E lo stesso scenario è stato disegnato dagli studi
sull'Y-Dna. La rianalisi dei marcatori classici ha evidenziato
che solo pochi geni sostenevano inequivocabilmente il modello
della diffusione demica, tanto da convincere Cavalli-Sforza
che solo una piccola proporzione di agricoltori neolitici
contribuì all'evoluzione della popolazione europea. E'
evidente quindi che la trasformazione dell'economia di caccia
e raccolta in quella basata sull'agricoltura deve essere
avvenuta per diffusione tecnologica piuttosto che per
sostituzione di popoli. Una volta in più le molecole ci hanno
raccontato la "vera" storia.
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