Come se Dio ci fosse
Lo
sfondamento delle Twin Towers è stato anche uno sfondamento
culturale: crollano le categorie politiche della modernità. La
prima guerra globale non è la terza guerra mondiale e non farà
ordine, la coppia amico/nemico non funziona più e non si può
ricostruire come scontro di identità fra Occidente e Islam.
Parla Carlo Galli: "In un mondo che mette al bando la
politica, la politica ritorna in forme selvagge"
IDA
DOMINIJANNI
" Non è per caso che di fronte a quei due
aerei che trapassavano le Twin Towers siamo rimasti tutti
"senza parole". Non c'era solo l'enormità dell'evento e
l'incredulità che ti prende quando la realtà supera
l'immaginazione. Il fatto è che non si sa bene che cosa
pensare di quella strage e della situazione in cui ci ha
catapultati. Lo sfondamento delle torri gemelle è stato anche
uno sfondamento dei nostri orizzonti concettuali, e quindi
delle nostre parole". Due settimane dopo l'epoché
dell'11 settembre Carlo Galli non abbassa il tono apocalittico
(anzi: "solo la teologia ci può aiutare a vedere e a capire,
prova a rileggere i capitoli 17 e 18 del Libro
dell'Apocalisse"), né sull'evento né sulle conseguenze che
porterà in un mondo globale già contrassegnato dalla crisi di
tutte le forme politiche, e relative categorie, della
modernità. In questa chiave Galli aveva trattato la
globalizzazione nel suo ultimo libro (Spazi politici. L'età
moderna e l'età globale, il Mulino 2001): come un insieme
di processi contraddittori, in cui tutte le tensioni della
modernità esplodono in configurazioni ormai post-moderne, ma
ancora incapaci di produrre nuove forme e un nuovo ordine
politico; come un gigantesco sconfinamento delle geometrie
spaziali e temporali che ordinavano la mappa politica della
modernità. Per dirla con un'immagine: il Guggenheim di Frank
Gehry a Bilbao, primo monumento dell'era globale, costruito su
una geometria che ignora gli assi cartesiani. Per dirla in
termini più consueti nel linguaggio politico: fine del
perimetro della fabbrica e trionfo del circuito virtuale della
rete; fine del rapporto fra centro e periferia e
stratificazione di nuove gerarchie fra locale e globale; fine
delle lotte di classe tradizionali ed esplosione di conflitti
etnici e culturali; fine del comando della politica
sull'economia; fine dello Stato nazionale, ma anche fine
dell'ordine internazionale, sia nella versione dello jus
publicum europaeum sia in quella bipolare della Guerra
fredda. E, aggiunge adesso la cronaca, fine del Nemico -
quello visibile, individuabile, a sua volta statuale a cui
eravamo abituati -, e di conseguenza fine della logica
d'interpretazione della politica moderna basata sulla coppia
amico/nemico. Con lo studioso, prima che della
globalizzazione, di Carl Schmitt (sua l'imponente monografia
Genealogia della politica, Il Mulino), proviamo a
collocare i caratteri della "prima guerra globale" nello
spazio privo di rassicuranti geometrie del mondo
globale.
Senza parole davanti alle torri gemelle in fiamme. Siamo
senza parole anche di fronte alla prima guerra globale? O
possiamo cercare di definirla?
Sta accadendo qualcosa di mai visto prima, e
dunque difficile da decifrare e persino da nominare: la
querelle politica e giuridica su come chiamare sia
l'attacco dei terroristi sia la reazione americana - "atto di
terrorismo" o "atto di guerra" da una parte, "guerra" o
"operazione di polizia" dall'altra - è spia di questa
difficoltà. Cominciamo col dire che questa non è una guerra
mondiale, ma una guerra globale. La distinzione
è tutt'altro che accademica. Di guerre mondiali nel Novecento
ne abbiamo avute tre - due "calde" e una "fredda" - e ne
conosciamo le logiche di funzionamento; di questa no. Le
guerre mondiali sono state scontri armati fra entità pubbliche
- Stati o superpotenze -, con un forte investimento ideologico
e un coinvolgimento potenzialmente illimitato dei civili; ma
nonostante i loro orrori, mantenevano una riconoscibilità dei
contendenti, dei loro confini, delle loro identità, dei loro
scopi. La guerra globale invece è scatenata da un nemico
"privato" (come tale formalmente non titolare del diritto di
guerra), senza volto e senza nome (nessuno ha rivendicato gli
attentati dell'11 settembre, e nessuno è stato dimostrato
esserne l'autore); non è indirizzata contro uno Stato ma
contro l'umanità o contro una sua parte; è caratterizzata
dall'assenza delle frontiere e dei fronti; dalla mancanza di
distinzione fra militari e civili; da una intensità
incontrollata che sconfina nella dimensione teologica;
dall'evanescenza dell'identità dei contendenti. Non dispone,
al momento, di armi adeguate: gli arsenali sono pieni di bombe
inutilizzabili contro il terrorismo, "l'atomica per l'ordine
pubblico" è un paradosso insensato che la dice lunga su quanto
la situazione ci trovi impreparati. Infine, la guerra globale
è tendenzialmente interminabile, essendo giustificata in
termini etici più che politici, cioè col desiderio di fare
giustizia più che di costruire un assetto di pace.
"Giustizia infinita" è stata chiamata infatti all'inizio la
risposta americana, poi ribattezzata come "libertà
duratura"...
Già, "giustizia infinita", un vero e proprio
lapsus che vuol dire "farai il crociato per l'eternità, non
avrai pace, non darai pace": una dannazione eterna. Del resto,
se la guerra diventa un atto di giustizia, diventa
automaticamente interminabile: l'estirpazione del Male, com'è
noto, non ha mai fine. Le guerre moderne tradizionali non
dovevano fare giustizia bensì ordine: ha funzionato così fino
a Yalta. Questa, invece, non produrrà alcun ordine. E non solo
per insipienza dei potenti della terra - oltretutto,
l'amministrazione americana si sta dimostrando persino meno
insipiente di quanto si potesse temere -, ma per una
difficoltà storica. Ci manca un pensiero all'altezza della
crisi di sistema che è esplosa, e ci manca perché le
condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono ancora: non
c'è un nuovo Hobbes all'orizzonte, e non per caso. Abbiamo
solo domande, non abbiamo risposte. La tragicità della
situazione sta qui.
Ma anche prima di Hobbes il disordine sotto il cielo era
grande e terribile... Non c'è anche qualche somiglianza, fra
quell'inizio della modernità e questo informe inizio di una
post-modernità politica?
Tutto è simile e tutto è diverso dall'inizio
della modernità - leggermente diverso, ma quanto basta
perché sia completamente diverso. Quelli erano tempi di
teologia politica: bisognava creare un ordine a partire da un
bisogno di secolarizzazione, facendo "come se Dio non ci
fosse": Dio non c'era, la sovranità politica lo riproduceva in
terra. Oggi è il contrario, tutti sembrano agire "come se Dio
ci fosse", mentre la sovranità politica decade
irreversibilmente.
Una sorta di regressione dal simbolico al reale, anzi
all'iper-reale?
Sì, come se il mondo fosse precipitato in un
mostruoso videogame, in uno stadio infantile, pre-simbolico,
pre-linguistico. Che come sai è lo stato paranoide per
definizione. Perciò dobbiamo parlare, oggi più che mai, a
tutti i costi. Per non restare affascinati e paralizzati
dall'icona totale, dell'immagine spettacolare delle Torri
incendiate e della Guerra globale. O succubi di un potere che
non si prende più cura di argomentare nei parlamenti e nelle
altre sedi deputate, si limita a mostrarsi e esibirsi, in tv
come sul proscenio dei vertici internazionali.
Continuiamo a parlare: cos'altro c'è di leggermente e
completamente diverso dall'inizio della modernità?
La coppia amico/nemico, che è stata la
categoria ordinatrice della politica moderna, nel nuovo
scenario non funziona più. Implica una dimensione pubblica, e
oggi, come dicevo prima, il nemico terrorista è nascosto;
implica un riconoscimento reciproco, un "dialogo", sia pure
conflittuale o perfino bellico, fra i contendenti, e oggi uno
dei due contendenti attacca ma non parla; implica un principio
politico di neutralizzazione del conflitto al servizio
dell'autorità del Sovrano e dell'ordine che segue al
conflitto, e oggi quale sarebbe questo principio? "Il
terrorismo è barbarie" può diventare un principio politico? In
mano a chi, e per fare che cosa?
D'accordo, la coppia amico/nemico è palesemente obsoleta
nella situazione attuale - e ci sarebbe da discutere se fosse
così esaustiva anche prima. Però è anche vero che tutto, e
tutti, tentano di ricostruirla, su una base identitaria.
Occidente/Islam non rischia di diventare la nuova versione
della coppia amico/nemico? Dico di più, la nuova versione di
un bipolarismo geopolitico, di cui tutti, in campo
filoamericano e in campo antiamericano, sembrano
improvvisamente avere nostalgia?
Certo che c'è questo tentativo. Ma è
esattamente la trappola a cui bisogna sottrarsi. In primo
luogo perché la coazione identitaria, il principio secondo il
quale per esistere bisogna per forza essere qualche cosa,
dotarsi di un certificato d'appartenenza, accettare di dire
"right or wrong, it's my country", è una coazione violenta. In
secondo luogo, perché politicamente non funziona: in un mondo
già globalizzato e multiculturale, può produrre, come tu hai
già osservato sul manifesto, solo guerra civile.
La sintassi politica moderna non funziona più, ma non
abbiamo ancora un pensiero all'altezza dei tempi. Però
intanto, nella partita che si sta giocando fra il dominio
imperial-liberista della globalizzazione e la regressione
verso una frattura identitaria del mondo, rischia di restare
stritolata l'idea di un'altra globalizzazione possibile, la
globalizzazione dal basso di cui parla il "movimento dei
movimenti", o un nuovo ordine globale più equo di quello
attuale. Non possiamo proprio figurarci alcuna via d'uscita?
L'attentato sulle Twin Towers ha ucciso la
"buona" globalizzazione, stroncando, con la vita di migliaia
di persone di sessantatre etnie diverse, quel precario ma
fantastico laboratorio di cosmopolitismo che è Manhattan e che
a Manhattan dà il suo particolare timbro di libertà. Adesso
il cosmopolitismo è sotto attacco su due fronti, quello del
terrorismo e quello della guerra infinita. Malgrado la crisi
in cui siamo immersi, la speranza e la forza per non
archiviare quel modernissimo sogno kantiano dobbiamo cercarle
e possiamo trovarle, ancora una volta, solo nella politica.
C'è un'altra cosa che l'11 settembre ha distrutto per sempre,
ed è l'illusione, su cui si è retta fin qui la "cattiva"
globalizzazione, che bastino gli interessi del capitale e del
mercato a dare forma e ordine al mondo. Non è vero: in un
mondo che mette la politica al bando, la politica ritorna in
forme selvagge. La mancanza di politica si paga, e adesso
paghiamo tutto in una volta il conto salato di dieci anni
senza politica. Se vogliono fare qualcosa di sensato su un
arco territoriale immenso che va dall'Egitto all'Afghanistan,
gli Stati uniti devono rimettere mano alla politica, cercare
di colmare l'incredibile deficit di egemonia che ha
caratterizzato per troppo tempo la loro immane potenza. E
sottostare, essi per primi, a un ordine globale basato sul
risarcimento e sulla responsabilità. In cui chi deve pagare
paga - i teroristi, ma anche il grande capitale -, e la storia
ridiventa un campo di azione responsabile, non un regno
naturale che ci agisce e ci sovrasta.
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