Premiato lo scorso anno a Venezia (lo aveva scelto la Settimana
della critica), Tutta colpa di Voltaire è uscito da poco,
e in sordina, nelle sale italiane. Peccato perchè questo piccolo
(a livello di budget) film ci racconta una realtà ferocemente
contemporanea, quella di chi vive ai margini, i "clandestini"
invisibili di cui canta anche Manu Chao, venditori di rose, di
ananas o di avocado, di Réverbère (in Francia, in Italia
Terre di mezzo), il giornale dei senza-fissa-dimora,
un'umanità globalizzata che si ritrova in tutte le metropoli. E
che vive appunto ai margini, sotto stretto controllo poliziesco,
senza garanzie per quello che può contare e che in un paese come
l'Italia di questi giorni se era già soggetto debolissimo rischia
di essere cancellato. E' insomma Tutta colpa di Voltaire
un "documento" su quanto si è combattuto e si combatte, sui
contenuti di chi è sceso in piazza contro il G8 per un mondo che
provi almeno a essere più equilibrato e meno ingiusto. Ma è anche
una mappa dei nuovi metissage che ridisegnano lo spazio
urbano come un insieme di universi paralleli e senza contatto. Il
regista Abdel Kechiche è un esordiente dietro la macchina da
presa, anche se ha una lunga esperienza di attore, e tra gli
altri ha lavorato André Téchiné e Nouri Bouzid, (protagonista in
Bezness), dal quale ha imparato l'approccio in
sensibilità che esclude sia i sentimentalismi facili che ogni
luogo comune. Tutta colpa di Voltaire segue la vita di
Jallil (Sami Bouajila, nel cast ci sono anche Aure Autika e
Elodie Bouchez, splendida nel ruolo di Lucie, la ragazzina
psicotica che diventerà la compagna di vita e di avventura di
Jallil) che si fa passare per algerino chiedendo l'asilo
politico. La cosa non riesce, Jallil vive sans papier, e
entra in questa comunità "a parte" in cui esiste comunque una
certa solidarietà. Ne parliamo con il regista, incontrato qualche
mese fa a Parigi poco prima dell'uscita francese.Come hai avvicinato questa storia che al cinema rischiava anche
un tono retorico o da luogo comune?
Per prima cosa non volevo che i personaggi venissero percepiti
come vittime. E soprattutto Jallil, che è un po' la guida, ci
tenevo a costruire un'immagine del maghrebino diversa da quella
che si vede in tanto cinema francese, dove o è un emarginato o un
furbetto poco di buono. Anche se poi la sua condizione è legata
alla sua nazionalità ho cercato di non limitare la sua figura a
questo.
Quindi come hai lavorato?
Ho scritto la sceneggiatura già qualche anno fa, era il 95, e
molto velocemente. Poi l'ho presentata al Centro nazionale di
cinema e ho avuto alcunu finanziamenti. Non era una grande cifra,
bastava appena per un pezzo di film, perchè gli esordi sono
sempre difficili, ci vogliono anni per arrivare alle condizioni
produttive necessarie. Invece il film l'ho girato abbastanza
rapidamente.
Il fatto di avere pochi soldi ha influito molto nelle riprese?
Ho dovuto ridurre i tempi di lavorazione, le nove settimane
iniziali sono divenute sei. Poi ho lavorato con una macchina da
presa invece delle tre a cui pensavo, e ho rinunciato alla parte
tunisina così come alla scena con una partita di calcio, non
avevo abbastanza comparse. Ma succede da sempre, e credo che
l'atteggiamento ideale sia di non fermarsi allo scarto tra quello
che si ha e quello che si sarebbe voluto avere.
"Tutta colpa di Voltaire" è un film di fiction che però vira
anche al documentario.
Mentre scrivevo pensavo soprattutto agli attori. Sono il cuore
del film e per questo volevo che la messinscena fosse molto
semplice e mai visibile. E soprattutto volevo evitare ogni forma
di virtuosismo stilistico. Spesso anche nei primi piani ho usato
la macchina a spalla per avvicinarmi agli attori il più
possibile. Lo stesso è stato nel montaggio.
Hai fatto molte ricerche per dare questo senso di immediatezza in
tutta la storia?
Ho girato la città, le periferie, incontrato persone diverse
confrontandomi con quel senso di esclusione e di razzismo che
impediscono ogni contatto. E' come se tutte queste persone
fossero invisibili o chiuse soltanto nei ruoli in cui si
manifestano, gli ambulanti ad esempio, senza però nessuna voglia
di avvicinarle. Cosa che per forza diventa reciproca dall'"altra
parte".