DIRITTI FONDAMENTALI
La legge del più debole
ERMANNO VITALE
Quali sono i criteri che identificano un diritto come
fondamentale, e dunque che cosa un tale diritto contiene
e protegge? Detto nel modo più generale possibile, per Luigi
Ferrajoli i diritti fondamentali sono leggi del più
debole contro la legge del più forte: ed è proprio la forma
universale - sono diritti di tutti, non di uno o di
alcuni, e a rigore neppure solo di molti individui o persone -
insieme al loro rango costituzionale (che assicura loro il ruolo
di suprema fonte del diritto) a costituire la tecnica, il mezzo
idoneo al fine della tutela dei più deboli. Stabilendo infatti
che i diritti fondamentali sono diritti di tutti, indisponibili,
non negoziabili, non transigibili, vale a dire non oggetto di
scambio economico e/o politico - e neppure oggetto di
appropriazioni o deformazioni ideologiche o partitiche - questi
diritti vengono sottratti ai rapporti di forza tipici del
mercato, della politica e della stessa comunicazione di massa, là
dove è fisiologico che ci siano vincitori e vinti. Ma dove è
patologico che i temporaneamente vinti non siano messi in
condizione di sopravvivere e di riprendere il gioco, essendo
invece annichiliti o emarginati politicamente, economicamente o
socialmente.
I diritti fondamentali sono, potremmo dire con un'espressione
metaforica anche se forse analiticamente impropria, diritti sia
contro il fondamentalismo del mercato (per cui il profitto
regolato dalla legge della domanda e dell'offerta è l'unica vera
religione), e in particolare del mercato della comunicazione, sia
contro il fondamentalismo della politica (pseudo)democratica -
secondo cui la volontà della maggioranza è onnipotente e
definisce legittimamente giorno per giorno, de iure, non
solo de facto, la costituzione materiale dello stato.
Prendendo spunto da questo tipo di "fondamentalismo politico
possiamo passare ad affrontare più direttamente la relazione fra
diritti e fondamentalismi in senso più specifico. In prima
battuta, utilizziamo pure la nozione corrente di
"fondamentalismo", per cui si intende una dottrina - per lo più
religiosa, ma non necessariamente - che, presumendo di possedere
la "cattedra dell'infallibilità" (J. Milton), il monopolio della
verità, non solo condanna senza appello qualsiasi altra dottrina
o opinione difforme ma prescrive anche una pratica di
intolleranza e fanatismo il cui obiettivo più ambizioso (non
importa quanto velleitariamente perseguito) non può essere
diverso dalla conquista e dalla sottomissione, con ogni mezzo, di
tutti gli individui del pianeta. Che l'universalismo dei diritti
sia in rotta di collisione con tutto ciò - con ogni e qualsiasi
fondamentalismo, non soltanto con quello islamico - non credo
valga neppure la pena di argomentarlo. Già, perché oggi i media
ci inducono a far coincidere, quasi per una sorta di riflesso
condizionato, islam, fondamentalismo e terrorismo internazionale.
Tuttavia, accanto a questo tipo di fondamentalismo di matrice
religiosa, palesemente aggressivo ma in fondo, ripeto,
velleitario c'è ben altro. C'è una questione di ben più ampie
proporzioni proprio in quanto fenomeno complementare delle (e
speculare alle) "globalizzazioni" selvagge. Vale a dire, il
pullulare di fondamentalismi o integralismi a matrice
localistica, nazionalistica o patriottica, apparentemente
"perbene" perché dissimulati da una sorta di malinteso
relativismo culturale: così, a partire da un falso universalismo
che assume come titolari di diritti soggetti collettivi
organicamente intesi - tutte le forme di vita tradizionali hanno
valore perché rappresentano il contesto di significati entro cui
si sono formati e si formano milioni di individui, e dunque vanno
conservate e tutelate - viene rivendicata la priorità dei
cosiddetti "diritti culturali", o collettivi, o di gruppi e
comunità.
Dobbiamo chiederci: questi diritti culturali possono essere
difesi, in varie maniere e livelli, in coerenza con la concezione
dei diritti fondamentali, e segnatamente con quella proposta da
Ferrajoli? Io credo che il linguaggio dei diritti si sia fatto
oggi più ambiguo, anzi particolarmente ambiguo, là dove tende ad
includere diritti collettivi o delle comunità. Ambiguità
c'erano senza dubbio già nella Dichiarazione del 1948 e
nei Patti internazionali del 1966: entrambe facevano
riferimento a diritti culturali intesi anche come diritti
di comunità, gruppi o popoli a larghe autonomie fino ad arrivare
all'autodeterminazione politica (diritto di autodeterminazione
dei popoli). Oggi di questo linguaggio che plausibilmente
accompagnava il processo di decolonizzazione si servono
minoranze, gruppi etnici, confessionali, linguistici, o tutte tre
le cose assieme, asseverando il principio "un popolo, uno Stato".
Qui le questioni sono veramente molte e tutte complicate, e in
poche battute non si possono neppure sensatamente elencare. Ma,
in generale, bisogna stare attenti alle confusioni e ai filtri
ideologici. Quando si sente parlare di minoranze, il riferimento
alla legge del più debole può essere quasi irriflesso. E allora,
si potrebbe concludere, se i diritti fondamentali sono leggi dei
più deboli, i diritti rivendicati dalle minoranze etniche,
culturali linguistiche ecc. sono necessariamente diritti
fondamentali. Ma qui occorrono almeno un'osservazione e una
distinzione. L'osservazione riguarda l'idea di minoranza: vi
possono essere minoranze deprivate socialmente ed economicamente
(diseredati) e minoranze di avvantaggiati (privilegiati). Dunque,
lo stesso linguaggio dei diritti collettivi può essere utilizzato
da minoranze di natura molto diversa: non tutte le minoranze sono
di svantaggiati, e dunque ogni minoranza necessita di
un'attenzione morale e politica di segno altrettanto diverso. La
distinzione riguarda appunto i diritti individuali e collettivi
(intesi come diritti di cui è titolare un gruppo o comunità nel
suo insieme, e di fatto i capi politici e/o spirituali di tali
comunità). In breve, se i diritti culturali sono intesi come
rigorosamente individuali (personali), come aspetti della libertà
di espressione e di culto, siamo pienamente nel solco dei diritti
fondamentali tracciato da Ferrajoli: ma se il linguaggio diventa
quello dei diritti delle comunità (a questo punto, povere o
ricche che siano) il terreno si fa scivoloso ed esorbita dalla
definizione di Ferrajoli di diritti fondamentali. Per molte
ragioni, ma soprattutto per questa: se si ammette, faccio il caso
più semplice, che una minoranza abbia il diritto di costituirsi
come Stato, allora bisogna anche ammettere che un'eventuale
minoranza interna alla prima (diventata maggioranza con la
secessione) abbia lo stesso diritto, e così via tendenzialmente
all'infinito. Il diritto degli uni si scontra con il diritto
degli altri. Quindi, la forma universale dei diritti
fondamentali non si dà più: i diritti delle comunità o dei popoli
sono per loro natura diritti particolari, o meglio
particolaristici, vale a dire immunità o privilegi che non
possono essere per definizione universali, universalizzati.
Infine, sul piano storico e fattuale, questa frammentazione
politica e ancora prima sociale per piccole unità chiuse e
omogenee al loro interno rimanda ai secoli bui della nostra (così
come di qualsiasi) civiltà. Di nuovo, vediamo mille piccoli ma
feroci signori della guerra a contendersi senza sosta, sotto il
mantello di una vera o presunta egemonia planetaria che si
esercita in forme arbitrarie, brandelli di sovranità e dominio
territoriale, nella più totale assenza di quella progettualità
politica e giuridica che fu invece all'origine dei tentativi di
costituzionalismo sovranazionale, ma che vede oggi l'Onu avviarsi
mestamente, sebbene un po' più lentamente, a ripercorrere la
triste parabola già percorsa dalla Società delle Nazioni fra le
due guerre mondiali del `900.
Emerge qui un'altra forma di fondamentalismo, che più volte ha in
verità già fatto capolino. Lo potremmo chiamare sinteticamente il
fondamentalismo dei diritti umani, che cela la realtà l'assoluto
disprezzo per i medesimi. E' un fondamentalismo tutto
"occidentale", che ha preso via via forma nelle guerre condotte
dalla Nato, prima in Kosovo, poi in Afghanistan (forse si
potrebbe risalire anche alla guerra del Kuwait, ma la questione
appare più controversa). E' il fondamentalismo della guerra
etica, della guerra umanitaria, e ancora della "giustizia
infinita" poi divenuta della "libertà duratura" - bastano questi
appellativi per svelarne il carattere di crociata e di
semplificazione tanto manichea quanto criminale - guerra che
pretende assurdamente di giustificare se stessa affermando di
essere combattuta al fine di ristabilire i diritti fondamentali.
A ulteriore giustificazione di questa affermazione sta
l'interpretazione della storia umana come clash of
civilizations, per cui la civiltà occidentale dovrebbe
vincere o morire nell'ineluttabile scontro con la barbarie, che
oggi riassume i contorni del feroce Saladino. Di nuovo, agli
individui e ai loro universali diritti violati - in qualunque
parte del mondo essi si trovino a vivere, come ci ricorda A. Sen
- vengono sostituiti surrettiziamente macrosoggetti collettivi
intesi come grandi organismi, anziché disarticolati nella
pluralità delle loro espressioni intellettuali, morali religiose
economiche ecc. Ferrajoli oppone a questa visione un antidoto
semplice quanto efficace, che, concludendo, riassumerei come
segue: se i diritti fondamentali sono, in ultima analisi, la
legge del più debole, è difficile essere così ingenui, o
ipocriti, da credere che il più forte, o i più forti, imponendo
la loro legge, ne facciano uno strumento di tutela e garanzia dei
più deboli. A questa ipocrisia preferisco l'utopia di pensare che
i diritti fondamentali rappresentino la stella polare del
tentativo, certamente arduo ma senza alternative, di opporsi alla
tragica e perdurante "banalità del male" mediante una sorta di
incoativa e sempre incerta "banalità del bene", tale da condurre
le relazioni civili e politiche oltre la prospettiva culturale
della vendetta, della "legge del taglione", di una stupida e
nefasta coazione a ripetere in cui si materializzano quelle che
con un ossimoro si potrebbero definire le magnifiche sorti e
progressive della concezione terroristica della storia.
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