09 Marzo 2002
 
 
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DIRITTI FONDAMENTALI
La legge del più debole
ERMANNO VITALE


Quali sono i criteri che identificano un diritto come fondamentale, e dunque che cosa un tale diritto contiene e protegge? Detto nel modo più generale possibile, per Luigi Ferrajoli i diritti fondamentali sono leggi del più debole contro la legge del più forte: ed è proprio la forma universale - sono diritti di tutti, non di uno o di alcuni, e a rigore neppure solo di molti individui o persone - insieme al loro rango costituzionale (che assicura loro il ruolo di suprema fonte del diritto) a costituire la tecnica, il mezzo idoneo al fine della tutela dei più deboli. Stabilendo infatti che i diritti fondamentali sono diritti di tutti, indisponibili, non negoziabili, non transigibili, vale a dire non oggetto di scambio economico e/o politico - e neppure oggetto di appropriazioni o deformazioni ideologiche o partitiche - questi diritti vengono sottratti ai rapporti di forza tipici del mercato, della politica e della stessa comunicazione di massa, là dove è fisiologico che ci siano vincitori e vinti. Ma dove è patologico che i temporaneamente vinti non siano messi in condizione di sopravvivere e di riprendere il gioco, essendo invece annichiliti o emarginati politicamente, economicamente o socialmente.
I diritti fondamentali sono, potremmo dire con un'espressione metaforica anche se forse analiticamente impropria, diritti sia contro il fondamentalismo del mercato (per cui il profitto regolato dalla legge della domanda e dell'offerta è l'unica vera religione), e in particolare del mercato della comunicazione, sia contro il fondamentalismo della politica (pseudo)democratica - secondo cui la volontà della maggioranza è onnipotente e definisce legittimamente giorno per giorno, de iure, non solo de facto, la costituzione materiale dello stato.

Prendendo spunto da questo tipo di "fondamentalismo politico possiamo passare ad affrontare più direttamente la relazione fra diritti e fondamentalismi in senso più specifico. In prima battuta, utilizziamo pure la nozione corrente di "fondamentalismo", per cui si intende una dottrina - per lo più religiosa, ma non necessariamente - che, presumendo di possedere la "cattedra dell'infallibilità" (J. Milton), il monopolio della verità, non solo condanna senza appello qualsiasi altra dottrina o opinione difforme ma prescrive anche una pratica di intolleranza e fanatismo il cui obiettivo più ambizioso (non importa quanto velleitariamente perseguito) non può essere diverso dalla conquista e dalla sottomissione, con ogni mezzo, di tutti gli individui del pianeta. Che l'universalismo dei diritti sia in rotta di collisione con tutto ciò - con ogni e qualsiasi fondamentalismo, non soltanto con quello islamico - non credo valga neppure la pena di argomentarlo. Già, perché oggi i media ci inducono a far coincidere, quasi per una sorta di riflesso condizionato, islam, fondamentalismo e terrorismo internazionale. Tuttavia, accanto a questo tipo di fondamentalismo di matrice religiosa, palesemente aggressivo ma in fondo, ripeto, velleitario c'è ben altro. C'è una questione di ben più ampie proporzioni proprio in quanto fenomeno complementare delle (e speculare alle) "globalizzazioni" selvagge. Vale a dire, il pullulare di fondamentalismi o integralismi a matrice localistica, nazionalistica o patriottica, apparentemente "perbene" perché dissimulati da una sorta di malinteso relativismo culturale: così, a partire da un falso universalismo che assume come titolari di diritti soggetti collettivi organicamente intesi - tutte le forme di vita tradizionali hanno valore perché rappresentano il contesto di significati entro cui si sono formati e si formano milioni di individui, e dunque vanno conservate e tutelate - viene rivendicata la priorità dei cosiddetti "diritti culturali", o collettivi, o di gruppi e comunità.

Dobbiamo chiederci: questi diritti culturali possono essere difesi, in varie maniere e livelli, in coerenza con la concezione dei diritti fondamentali, e segnatamente con quella proposta da Ferrajoli? Io credo che il linguaggio dei diritti si sia fatto oggi più ambiguo, anzi particolarmente ambiguo, là dove tende ad includere diritti collettivi o delle comunità. Ambiguità c'erano senza dubbio già nella Dichiarazione del 1948 e nei Patti internazionali del 1966: entrambe facevano riferimento a diritti culturali intesi anche come diritti di comunità, gruppi o popoli a larghe autonomie fino ad arrivare all'autodeterminazione politica (diritto di autodeterminazione dei popoli). Oggi di questo linguaggio che plausibilmente accompagnava il processo di decolonizzazione si servono minoranze, gruppi etnici, confessionali, linguistici, o tutte tre le cose assieme, asseverando il principio "un popolo, uno Stato". Qui le questioni sono veramente molte e tutte complicate, e in poche battute non si possono neppure sensatamente elencare. Ma, in generale, bisogna stare attenti alle confusioni e ai filtri ideologici. Quando si sente parlare di minoranze, il riferimento alla legge del più debole può essere quasi irriflesso. E allora, si potrebbe concludere, se i diritti fondamentali sono leggi dei più deboli, i diritti rivendicati dalle minoranze etniche, culturali linguistiche ecc. sono necessariamente diritti fondamentali. Ma qui occorrono almeno un'osservazione e una distinzione. L'osservazione riguarda l'idea di minoranza: vi possono essere minoranze deprivate socialmente ed economicamente (diseredati) e minoranze di avvantaggiati (privilegiati). Dunque, lo stesso linguaggio dei diritti collettivi può essere utilizzato da minoranze di natura molto diversa: non tutte le minoranze sono di svantaggiati, e dunque ogni minoranza necessita di un'attenzione morale e politica di segno altrettanto diverso. La distinzione riguarda appunto i diritti individuali e collettivi (intesi come diritti di cui è titolare un gruppo o comunità nel suo insieme, e di fatto i capi politici e/o spirituali di tali comunità). In breve, se i diritti culturali sono intesi come rigorosamente individuali (personali), come aspetti della libertà di espressione e di culto, siamo pienamente nel solco dei diritti fondamentali tracciato da Ferrajoli: ma se il linguaggio diventa quello dei diritti delle comunità (a questo punto, povere o ricche che siano) il terreno si fa scivoloso ed esorbita dalla definizione di Ferrajoli di diritti fondamentali. Per molte ragioni, ma soprattutto per questa: se si ammette, faccio il caso più semplice, che una minoranza abbia il diritto di costituirsi come Stato, allora bisogna anche ammettere che un'eventuale minoranza interna alla prima (diventata maggioranza con la secessione) abbia lo stesso diritto, e così via tendenzialmente all'infinito. Il diritto degli uni si scontra con il diritto degli altri. Quindi, la forma universale dei diritti fondamentali non si dà più: i diritti delle comunità o dei popoli sono per loro natura diritti particolari, o meglio particolaristici, vale a dire immunità o privilegi che non possono essere per definizione universali, universalizzati.

Infine, sul piano storico e fattuale, questa frammentazione politica e ancora prima sociale per piccole unità chiuse e omogenee al loro interno rimanda ai secoli bui della nostra (così come di qualsiasi) civiltà. Di nuovo, vediamo mille piccoli ma feroci signori della guerra a contendersi senza sosta, sotto il mantello di una vera o presunta egemonia planetaria che si esercita in forme arbitrarie, brandelli di sovranità e dominio territoriale, nella più totale assenza di quella progettualità politica e giuridica che fu invece all'origine dei tentativi di costituzionalismo sovranazionale, ma che vede oggi l'Onu avviarsi mestamente, sebbene un po' più lentamente, a ripercorrere la triste parabola già percorsa dalla Società delle Nazioni fra le due guerre mondiali del `900.
Emerge qui un'altra forma di fondamentalismo, che più volte ha in verità già fatto capolino. Lo potremmo chiamare sinteticamente il fondamentalismo dei diritti umani, che cela la realtà l'assoluto disprezzo per i medesimi. E' un fondamentalismo tutto "occidentale", che ha preso via via forma nelle guerre condotte dalla Nato, prima in Kosovo, poi in Afghanistan (forse si potrebbe risalire anche alla guerra del Kuwait, ma la questione appare più controversa). E' il fondamentalismo della guerra etica, della guerra umanitaria, e ancora della "giustizia infinita" poi divenuta della "libertà duratura" - bastano questi appellativi per svelarne il carattere di crociata e di semplificazione tanto manichea quanto criminale - guerra che pretende assurdamente di giustificare se stessa affermando di essere combattuta al fine di ristabilire i diritti fondamentali.

A ulteriore giustificazione di questa affermazione sta l'interpretazione della storia umana come clash of civilizations, per cui la civiltà occidentale dovrebbe vincere o morire nell'ineluttabile scontro con la barbarie, che oggi riassume i contorni del feroce Saladino. Di nuovo, agli individui e ai loro universali diritti violati - in qualunque parte del mondo essi si trovino a vivere, come ci ricorda A. Sen - vengono sostituiti surrettiziamente macrosoggetti collettivi intesi come grandi organismi, anziché disarticolati nella pluralità delle loro espressioni intellettuali, morali religiose economiche ecc. Ferrajoli oppone a questa visione un antidoto semplice quanto efficace, che, concludendo, riassumerei come segue: se i diritti fondamentali sono, in ultima analisi, la legge del più debole, è difficile essere così ingenui, o ipocriti, da credere che il più forte, o i più forti, imponendo la loro legge, ne facciano uno strumento di tutela e garanzia dei più deboli. A questa ipocrisia preferisco l'utopia di pensare che i diritti fondamentali rappresentino la stella polare del tentativo, certamente arduo ma senza alternative, di opporsi alla tragica e perdurante "banalità del male" mediante una sorta di incoativa e sempre incerta "banalità del bene", tale da condurre le relazioni civili e politiche oltre la prospettiva culturale della vendetta, della "legge del taglione", di una stupida e nefasta coazione a ripetere in cui si materializzano quelle che con un ossimoro si potrebbero definire le magnifiche sorti e progressive della concezione terroristica della storia.


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