05 Dicembre 2001
 
 
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Con le spalle rivolte al futuro
FEDERICO RAHOLA

La singolarità di Auschwitz è un dato che non può essere acquisito come dogma incommensurabile. Occorre invece definirla, questa unicità, e interrogarla. Perché la Shoah appare il luogo di una partita aperta e decisiva sull'uso pubblico della storia, sul qui e ora del discorso storico: costruirle un altare, allontanandola dal percorso della modernità, può essere rischioso quasi quanto è nefasto e volutamente colpevole l'atto ideologico di relativizzarla. La prospettiva suggerita da Enzo Traverso assume l'evento che ha lacerato per sempre l'umanità come un "laboratorio privilegiato per studiare l'immenso potenziale di violenza della modernità occidentale", paradigma della barbarie del XX secolo. Ed è proprio l'immediata dimensione pubblica della storia, il suo definirsi come un campo aperto di tensioni attuali, a imporre di affermare la singolarità di Auschwitz come "ipotesi", nella misura in cui ci aiuta a instaurare "una dialettica feconda tra la memoria del passato e la critica del presente." All'esigenza di far dialogare la memoria con una critica del presente si può allora ricondurre la decostruzione del mito di una "simbiosi ebraico-tedesca", elaborazione che si è proiettata su tutto l'800 e sino a Weimar, ma che trovò ben pochi sostenitori quando gli ebrei erano ancora vivi. Da qui prende le mosse Gli ebrei e la Germania. Auschwitz e la "simbiosi ebraico-tedesca" (Il Mulino, 1994), in cui Traverso - che insegna scienze politiche all'università di Amiens - ricostruisce la trama dell'assimilazione come un "monologo ebraico" segnato dalla solitudine, guardando però al presente, al "lungo lavoro di assimilazione a posteriori della cultura ebraico-tedesca nella Germania di oggi", un lavoro che appare come "il travaglio di un lutto senza fine, perché la perdita che lo ha generato è definitiva e irrimediabile". Il suo ultimo libro è Le totalitarisme. Le XXe siècle en débat (2001, in italiano a febbraio per Bruno Mondadori). Traverso è stato a Genova in occasione del convegno Totalitarismo, lager e modernità - tre giornate organizzate dall'Ilsrec, inaugurate da Hans Mommsen, Wolfgang Benz, Henry Friedlander e Aldo Natoli e alle quali hanno partecipato, tra gli altri, Enzo Collotti, Liliana Picciotto Fargion, Bruno Mantelli.

Lei suggerisce un uso critico del concetto di totalitarismo, categoria che dà spazio a paragoni assoluti, lasciando "interagire" disinvoltamente nazismo e comunismo (operazione su cui si alimenta il revisionismo di Nolte e Furet). Dobbiamo uscire dalla "scatola" del totalitarismo per recuperare le differenze e il significato dei regimi che hanno percorso il '900?

Il problema esiste soprattutto per gli storici, per chi cioè non lavora solo con "idealtipi", ma indaga le singolarità, la genesi e gli sbocchi degli eventi. Credo che il concetto di totalitarismo sia tuttora di grande utilità per le scienze politiche e per la filosofia politica, per definire le forme del potere ed elaborare una tipologia dei regimi politici. Con la sua miscela inedita di ideologia e terrore, rappresenta un fenomeno storicamente nuovo, che non rientra nelle categorie del dispotismo e della tirannide così come sono state formulate dal pensiero politico classico, da Aristotele fino a Weber. Agli storici invece pone un problema epistemologico: è possibile riassumere eventi e fatti, con traiettorie che disegnano una loro specifica trama di continuità, in una categoria generalizzante che elimina ogni differenza? Alcuni presupposti del discorso storico escono liquidati frettolosamente dall'ambiguità di un concetto che vuole riassumere un secolo, suggerendo identità più che comparazioni tra nazismo e comunismo sovietico: il presupposto di coerenza, quello di durata, la stessa dimensione ideologica. Non credo si possano schiacciare, nella formula "totalitarismo", due esperienze così diverse, sacrificando differenze che appaiono irriducibili, a partire innanzi tutto dalle forme di violenza: da un lato una violenza interna, di terrore/dominio sulla popolazione; dall'altro una violenza proiettata verso l'esterno, su chi non appartiene al "popolo", a una "comunità nazionale" definita in termini biologici. Come suggerisce Kershaw, il regime nazista e quello sovietico esprimono un rapporto alla razionalità radicalmente differente: alla razionalità del piano di modernizzazione sovietico, perseguito attraverso mezzi autoritari e criminali che appaiono del tutto irrazionali, si contrappone l'assoluta "irrazionalità" del disegno nazista di un rimodellamento biologico dell'umanità, che ricorre invece a mezzi tipici della razionalità strumentale moderna (Auschwitz come fabbrica produttrice di cadaveri). Del resto, persino un liberale lucido come Aron aveva riconosciuto questa differenza: se l'esito dei gulag sovietici è il lavoro forzato, quello dei lager nazisti è la camera a gas.

I teorici del totalitarismo propongono un'interpretazione di nazismo e comunismo fondata sull'interazione: l'uno come reazione all'altro in una spirale di radicalizzazione inarrestabile.

Questa interpretazione non è falsa, ma mi sembra unilaterale, al limite fuorviante. Certo, il fascismo presenta una dimensione antibolscevica e controrivoluzionaria, ma si tratta solo di una delle sue componenti. Se inscriviamo questo movimento interattivo e sincronico in una prospettiva di lunga durata, si scoprono continuità molto più significative. Nel suo sforzo di industrializzazione autoritaria, il comunismo sovietico rielabora tratti dispotici che appartengono alla tradizione dell'assolutismo zarista. E il nazismo, a sua volta, si inscrive in una trama europea fatta di nazionalismo, antisemitismo, razzismo e imperialismo che ha radici profondissime. La sua idea di "spazio vitale" (Lebensraum), ad esempio, si colloca nel solco di un'espansione imperialista che ha la sua matrice nella visione ottocentesca del mondo extraeropeo come spazio colonizzabile: l'idea dell'"estinzione delle razze inferiori", della sottomissione/sterminio di una "sotto-umanità" come "legge" della Storia, sono luoghi comuni già dell'imperialismo britannico e francese, appartengono a una cultura satura di socialdarwinismo, di scientismo, di eugenismo. Lo stesso colonialismo tedesco aveva portato nel 1904 allo sterminio degli herero nell'attuale Namibia, un episodio spesso dimenticato da chi attribuisce la violenza sterminatrice del nazismo ad un presunto modello "asiatico", al comunismo russo. L'appiattimento sincronico sull'interazione tra bolscevismo e nazismo elude poi un'altra influenza, generalmente rimossa dalle teorie classiche del totalitarismo: quella del fascismo italiano, assunto fino al 1933 come modello da Hitler.

Come andrebbe, dunque, utilizzato, il concetto di totalitarismo?

Il concetto di totalitarismo può e deve essere conservato per indicare la cifra di un secolo in cui si è consumato un naufragio del politico, inteso come un campo aperto al conflitto, alla divisione del corpo sociale, all'alterità, ciò che Hannah Arendt definisce come l'"infra": la pluralità degli esseri umani. I regimi totalitari hanno cercato di spezzare questo rapporto, annullando la società nello Stato. Non a caso i totalitarismi sono figli della Grande Guerra, che fu il primo gigantesco tentativo di statizzazione della società. Da questo punto di vista, le letture del totalitarismo come fenomeno di matrice ideologica (Popper e Talmon nel dopoguerra; Courtois, Furet, Pipes e Malia oggi) sono davvero aberranti. L'idea comunista definita da Marx prefigura l'estinzione dello Stato nel corso dell'autoemancipazione della società. Il totalitarismo, così come lo definivano Mussolini, Gentile e Schmitt era esattamente il contrario: l'assorbimento della società civile dentro lo Stato. Questo spiega perché negli anni Trenta dei marxisti libertari come Serge e Marcuse fossero tra i più coerenti teorici dell'antitotalitarismo.

E' proprio questo richiamo a una direzione diacronica, che mette in luce le continuità, l'incistamento nella modernità del nazismo e della Shoah, a porre in questione il ricorso sistematico alla parola totalitarismo...

Oggi il concetto di totalitarismo è usato come "apologia negativa" del liberalismo. La tendenza è quella di avallare l'idea che la storia riprenda finalmente la sua strada su binari normali dopo la parentesi delle tirannidi del '900. Le radici occidentali del totalitarismo sono così completamente rimosse. A ben vedere, il nazismo si fonda sui presupposti di ciò che Norbert Elias definisce (attribuendogli però un segno positivo) il "processo di civilizzazione": il monopolio statale dei mezzi di coercizione (una violenza di regime), la razionalità amministrativa e produttiva (lo sterminio burocratico e industriale), l'autocontrollo delle pulsioni (la distruzione pianificata e senza odio), la deresponsabilizzazione etica degli attori sociali (la "banalità del male" di gente come Eichmann). Lo stalinismo, dal canto suo, si vuole un difensore zelante della "civilizzazione" e del "progresso", se si riducono questi concetti alla loro dimensione puramente materiale. Se interpretiamo il nazismo e lo stalinismo come figli dell'Europa moderna, scopriamo l'altra faccia del processo di civilizzazione. La violenza "totalitaria" si inscrive proprio in questo processo, rivelandone una forma patologica. Usando un lessico francofortese, si potrebbe dire che il nazismo disegna il "processo di imbarbarimento" che accompagna dialetticamente quello di civilizzazione. Auschwitz realizza la fusione del razzismo e dell'antisemtismo con la prigione, la fabbrica, l'amministrazione burocratico-razionale, la meccanizzazione e l'industrializzazione dei dispositivi di messa a morte avviati dalla ghigliottina e culminati nello sterminio di massa della prima guerra mondiale. Per studiarla ci servono Foucault, Marx, Weber, Arendt e anche Taylor. E' ovvio che la Germania nazista e la Russia sovietica sono stati dei regimi "illiberali", negatori delle libertà individuali e dello Stato di diritto, ma ciò non toglie che l'Europa liberale dell'800 sia stata il laboratorio storico delle violenze totalitarie.

Proprio Arendt, ne "Le origini del totalitarismo", analizzando la situazione dei profughi negli anni tra le due guerre definisce i campi di internamento come un "surrogato di patria", l'unica soluzione che il mondo ha saputo offrire agli apolidi. Trova in queste parole la possibilità di far dialogare l'assoluto di Auschwitz con il presente, con le "zones d'attente" e i centri di permanenza temporanea per gli immigrati, i "nuovi apolidi"?

L'intuizione di Arendt è forte, e in un certo senso fondamentale per ciò che riguarda le conseguenze estreme della non appartenenza, di chi ha perso il diritto di avere diritti, di chi è "fuorilegge" perché la sua esistenza non è contemplata dalla legge. Arendt sottolinea che l'apparizione di questi gruppi di esseri umani incatalogabili per i criteri dello Stato-nazione sia la premessa indispensabile della loro persecuzione, infine del loro sterminio. Il processo di globalizzazione rende oggi ancora più attuale questa riflessione. Ma occorre fare delle distinzioni. Arendt lavorava su un materiale empirico piuttosto limitato. La mia sensazione è che i profughi le appaiano soprattutto come un'invenzione di Versailles. Denuncia con forza i "massacri amministrativi" dell'imperialismo britannico, ma non si rende conto che i primi campi di concentramento nascono in uno scenario coloniale, a Cuba per mano degli spagnoli e in Sud Africa, imposti dagli inglesi, per generalizzarsi poi alle popolazioni civili europee con la I guerra mondiale. Tuttavia sono in parte d'accordo con il senso della sua domanda. Ma la dimensione delle zones d'attente, la condizione dei sans papiers, dei clandestini, non può consentire una lettura della nostra situazione politica, dell'Europa di Schengen, come totalitaria. E questo anche per non banalizzare il fascismo e il nazismo. Una matrice comune c'è, e per questo ritengo indispensabile denunciare con forza l'esistenza di questi luoghi, intervenire attraverso petizioni e manifestazioni che diano visibilità ai sans papiers. Ma questa matrice comune si inscrive in sistemi politici qualitativamente diversi. Insomma non si tratta di assimilare questi centri di internamento a Buchenwald o alla Kolyma, il che sarebbe assurdo, ma di dire che dopo Buchenwald e la Kolyma la loro esistenza è assolutamente inaccettabile. Non va dimenticato che i campi creati nella Francia a fine anni Trenta per accogliere i rifugiati della guerra civile spagnola divennero, durante la drôle de guerre, dei campi di internamento per gli stranieri irregolari, poi dei centri di smistamento per gli ebrei prima della loro deportazione verso i lager.

Negli ultimi anni, in risposta alla relativizzazione o alla rimozione della storia e della voce dei testimoni imposte dal revisionismo e dal negazionismo, si sono sviluppati due atteggiamenti diversi nei confronti della memoria della Shoah: una tesa a riscattare dall'oblio le parole dei sopravvissuti; l'altra orientata verso un'analisi più specifica dei presupposti storici del discorso di testimonianza. Banalizzando, da una parte l'operazione di Spielberg, dall'altra quella, tra gli altri, di Annette Wieviorka e, per certi versi, di Agamben. Lei come si colloca?

Un confronto tra Steven Spielberg e Annette Wiewiorka mi sembra difficile. Il primo è il regista che ha più contribuito alla reificazione della memoria di Auschwitz. Schindler's List inscrive il genocidio degli ebrei nella memoria collettiva come parte dell'immaginario hollywoodiano, sostituendo la spettacolarizzazione e la condensazione emotiva alla coscienza storica, la riflessione, la comprensione. La sua fondazione crea poi un fenomeno nuovo: la testimonianza standardizzata, serializzata e archiviata secondo i procedimenti della produzione di massa. L'aura della memoria e la soggettività del testimone, si potrebbe dire con Benjamin, sono così annullati dalla loro "riproducibilità tecnica". Annette Wiewiorka è invece una storica della memoria. I suoi lavori possono essere discussi ma meritano la più grande attenzione. Rispetto ad Agamben, invece, e in questo riprendo ancora la domanda precedente, credo che la ricerca sulla dimensione biopolitica dei campi di concentramento sviluppata in Homo sacer sia interessante. Il totalitarismo è una politica dei corpi; implica un'umanità ridotta a alla sua dimensione zoologica, fatta di esseri plasmati come "materiali", di cui i campi sono illustrazione parossistica. Molto più perplesso, al contrario, mi lascia il suo lavoro sulla testimonianza e sulla memoria. In particolare, proprio nel ricorso a Primo Levi e a I sommersi e i salvati: fare del musulmano descritto da Levi il paradigma del testimone, per dedurne l'impossibilità assoluta della testimonianza è cosa che rischia di annullare la memoria come fenomeno storico e come pezzo vivente del passato. E allora comprendo l'irritazione degli ex deportati nei confronti di un libro come Quel che resta di Auschwitz, e anche le critiche di Levi della Torre, di Ginzburg o, più di recente, di Mesnard e Kahan (Giorgio Agamben à l'épreuve d'Auschwitz). Credo che la dimensione del lavoro storico sulla Shoah debba far dialogare le testimonianze, la singolarità assoluta della memoria dei "salvati", con quella sempre relativa della storia: un filo sottile e instabile tra soggettività e lunghe durate, tra la tensione della memoria a singolarizzare l'evento e quella della storia a "razionalizzarlo", entrambe confrontate, per dirla con Kracauer, a una "realtà irredenta". Di questo gli storici devono essere consapevoli.

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