13 Ottobre 2001
 
 
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La "little Kabul" di san Francisco
REPORTAGE La guerra? Gli immigrati afghani ne sono sicuri: è tutta colpa dei pakistani
MARCO D'ERAMO - INVIATO A SAN FRANCISCO

" Il vero responsabile del terrorismo è il Pakistan, è l'Iis (Intelligence Intereservices, i servizi segreti di Islamabad), non l'Afghanistan, e Pervez Musharraf è un bugiardo", mi dice Homa Youn, un uomo magro sulla quarantina, stempiato, occhiali, occhi neri, barba di due giorni, inquietezza sorridente, sempre in movimento. E' proprietario e gestore del "Pamir Food Mart", una specie di proto-supermercato, di Ur-supermarket, dove vende di tutto, dalla carne halal alle videocassette, dalle sigarette a spezie come malangone, alhoiva persiana e cumino nero, dalla cartoleria per la scuola al pane prodotto nel forno retrostante. Si trova sul Freemont Boulevard, a Freemont, sobborgo dell'area metropolitana di San Francisco nella parte orientale della baia (East Bay), a metà strada tra Oakland a nord e San José a sud. Di fronte al Pamir Food Mart c'è il De Afghan Restaurant. Pochi metri più in là, il Maiwand Market, specializzato in macelleria e in casalinghi. E' il cuore della "Little Kabul", la maggiore comunità afaghana di tutti gli Stati uniti, composta da 25.000 immigrati giunti per lo più da rifugiati politici dal 1980, dopo l'invasione sovietica.
"Appoggio totalmente l'azione degli Stati uniti in Afganistan" dice con enfasi, deciso a evitare a tutti i costi il ruolo di "quinta colonna talebana" negli Usa. "Ma - insisto - lei è proprio contento delle bombe che cadono sulla sua terra natale e sui suoi familiari rimasti a casa?". "E' sempre meno del terrore che ci hanno inflitto i talibani in questi anni". "Allora lei è farsi, non pashtun", obietto. "Che c'entra? farsi o pasthun siamo tutti afghani! Io parlo tutte e due le lingue, ma i talibani no, loro non sono afghani, sono pakistani di etnia pashtun, ma ce li ha mandati l'Iis. Ma ha visto le manifestazioni di questi giorni in favore di bin Laden? Perché non ce n'è stata nessuna in Afghanistan e sono tutte avvenute in Pakistan? E ha visto le facce? Io so riconoscerle e in quelle folle non c'era un afghano". S'interrompe per andare da un avventore anziano che tasta sacchi di riso, segaligno, sandali ai piedi, telefonino.
Allora interviene a convincermi un altro cliente, dal fisico più robusto, capelli neri e occhi chiari: "Il vero talibano è l'esercito pakistano. Loro si sono arricchiti con la guerra in Afghanistan. Sono questi maledetti arabi che ce l'hanno con noi afghani" (i pakistani non sono arabi, ndr). Riprende Houma Youn: "Quando sono passato nell'80 da Peshawar, era il Sahara, non c'era niente, neanche un negozietto. Ci sono tornato nell'86 ed era una piccola New York, trovavi tutto".
Questi afghani/californiani si devono esibire in un equilibrismo difficile: devono lottare letteralmente per la propria sopravvivenza per non fare la fine - mantenendo tutte le proporzioni - che fecero i tedeschi durante la I guerra mondiale e i giapponesi nella II quando furono discriminati, sorvegliati, angariati e in molti casi internati.
E per loro, e per gli altri immigrati mediorientali, oggi il futuro è ancora più incerto e aleatorio dopo che il senato Usa ha approvato (96 contro 1) una legge che dà nuovi poteri alla polizia per "combattere il terrorismo" (ha votato contro solo il democratico del Wisconsin Russ Feingold che l'ha considerata liberticida). Un articolo della legge colpisce soprattutto gli immigrati: la polizia è ora autorizzata a trattenerli per 7 giorni senza incriminazione; i democratici gongolano di fierezza libertaria perché Bush aveva chiesto una detenzione senza limiti e loro sono riusciti a limitarla a solo (sic!) 7 giorni.
Mentre Kabul è bombardata, gli immigrati afghani devono perciò esibire indefessa fedeltà agli Usa, fiducia ferrea nella democrazia americana, e nello stesso tempo non fare i volta gabbana, tradendo la patria d'origine. Ecco perché alcuni rifiutano di parlare a estranei - i gestori e i clienti del Maiwand Market - o invece - al Pamir Food - si costruiscono questa storia che ognuno mi ripete quasi identica, come fa Rafi, un pashtun paffuto, capelli scuri e occhi chiari: "Noi avevamo avvertito gli Usa che il loro vero nemico erano il Pakistan e gli Iis, ma allora c'era quell'Albreight, non ci ha ascoltato. Quando è morto il comandante Massud, in Afghanistan hanno pianto tutti, farsi e pashtun".
A onor del vero, a "Little Kabul" (California) non si vedono veli neri, né donne infagottate. Me ne vado mentre l'energico Homa Youn vende quattro confezioni di nan afghano, che somiglia non al nan indiano, ma piuttosto alla pizza bianca che in Italia si farcisce con la mortadella. "Domani viene a intervistarmi la Bbc" dice l'afghano ormai più famoso negli Usa, portavoce di fatto della sua comunità.
Torno a San Francisco attraverso suburbi lindi e una serie ininterrotta di parchi tecnologici, istituti politecnici, imprese tecnologiche, d'informatica, ingegneria genetica, software: edifici a un piano per lo più in vetro scuro riflettente, con posteggiati attorno ernomi fuoristrada Suv (Sport Utilivty Vehicles), ombreggiati dagli alberi (ma i pendii circostanti sono desertizzati), utopie di un'industria pulita, non inquinante: questa patria della new economy è un'oasi di felicità e benessere precarizzata dalla recessione: proprio ieri è stato registrato il maggior crollo mensile delle vendite al dettaglio dal 1992: il 2,4% in meno.
Mi chiedo come l'alhoida persiana, il nan afghano e il pollo halal s'integrino in questa precaria struttura di tecnologia avanzatissima, o se piuttosto non siano coesistenze ignare l'una dell'altra, ognuna nella propria traiettoria: la piccola Kabul che si arrabatta nella sua ansia di ascesa sociale, senza sfiorare il mondo dell'hi tech, come le piante si abbarbicano alle fessure dei muri.
La radio rafforza il quadro di esistenze simultanee e schizofreniche: uno speaker spiega - certissimo del suo buon diritto - perché questa è una guerra giusta: "perché il danno inferto al nemico è commisurato alla sua minaccia". Mentre nel notiziario la Nasa annuncia che, per ricordare i morti dell'11 settembre, a novembre lancerà 6.000 bandiere americane (come reagirà il silenzio degli infiniti spazi?). Poi ecco un altro accento inglese dalle inflessioni mediorientali, quello del principe Al Walid bin Talal bin Abdul Aziz, nipote del monarca saudita, presidente della Kingdom Holding Co., classificato a luglio come il sesto uomo più ricco del mondo dalla rivista Forbes. Il principe è venuto a New York per consegnare al sindaco Rudolph Giuliani un assegno di 10 milioni di dollari per il World Trade Center Fund. Il principe condanna ogni terrorismo e dice che perciò "gli Stati uniti dovrebbero riesaminare le proprie politiche nel Medio Oriente e adottare una posizione più bilanciata verso lo stato palestinese". Il comune di New York ha subito reagito definendo "profondamente inapporpriate queste osservazioni" che collegano l'attacco alle Twin Towers con la questione dello stato palestinese. Il sindaco Giuliani ha rimandato l'assegno al mittente: è il primo incidente diplomatico tra Usa e Arabia Saudita. Ma anche il principe miliardario di una monarchia feudale deve fare i conti con la sua opinione pubblica. "Da voi non ci sono ragazzi fondamentalisti islamici?" avevo chiesto a Freemont al pashtun Rafi. La risposta era la più rassicurante possibile: "Ci sono, pochi, ma il loro estremismo rifiuta la violenza".

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