05 Ottobre 2001
 
 
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Tra le rovine dell'impero
La difficile autocoscienza dell'occidente davanti a una catastrofe che rimanda a simboli e miti simmetrici e speculari: nord e sud, Bush e bin Laden, civiltà contro civiltà, integralismo contro integralismo
LEA MELANDRI


Mai le passioni e i ragionamenti sono stati così contrapposti e nel medesimo tempo così connessi, come nel dibattito che ha fatto seguito all'attacco terroristico dell'11 settembre 2001, negli Stati Uniti d'America. Questo capita generalmente quando fatti, che dovrebbero appartenere alla storia, vanno a collocarsi in un contesto simbolico di tale pregnanza da prendere il sopravvento. "Non c'è tempo per la pietà - ha scritto Pintor - queste venticinquemila vittime contano meno dei miti che abbiamo visto abbattere" (Il manifesto, 19 9 2001). Il crollo delle Twin Towers di New York e di un'ala del Pentagono a Washington è stato visto quasi unanimemente come l'aprirsi di uno scenario apocalittico. Come nella "rivelazione" profetica raccontata dall'apostolo Giovanni, le catastrofi conseguenti alle colpe degli uomini si abbattono sulle loro costruzioni e sui significati che vi attribuiscono, prima ancora che sulle persone. A New York e a Washington, come in passato a Babilonia e a Roma, le prime a cadere sono le mura e gli ornamenti della città imperiale, la "grande meretrice" che ha sedotto e asservito i re e i popoli della terra. Ma se l'associazione è stata così facile, è anche perché l'Apocalisse aleggiava già da tempo, temuta e desiderata insieme, come figura ricorrente dell'immaginario hollywoodiano e come minaccia intrinseca all'"anti-architettura" di New York, la "città verticale", che "ha scommesso sul cielo e sull'inferno" (J.Baudrillard, America, Feltrinelli 1986).
I grattacieli di Manhattan, cuore finanziario di un grande impero economico, ma anche metafora del "sogno americano" di ricchezza, felicità, democrazia, convivenza di genti diverse, sembrano essersi portati dentro, legato alla loro "centralità ed "eccentricità", il presentimento della fine. La volontà di potenza, che si manifesta nell'imporre come "naturale" e "universale" il proprio modello di civiltà, così come la promessa di un Eden terreno, eterno e invulnerabile, ha un corredo fatale di umiliazioni e risentimenti, destinati a ritorcersi contro. Nell'odio che arma la mano del "nemico" si insinua allora l'idea del "castigo", il sospetto che Dio si sia servito di un mezzo altrettanto violento per fare giustizia. In questo senso, il Bene e il Male, paradossalmente si somigliano.
"La visione giovannea della storia umana assomiglia a una colossale tautologia, in cui la bestia che sale dall'abisso e l'angelo vendicatore, quanto ai mezzi usati e alla terribilità degli effetti prodotti, si equivalgono" (A. Asor Rosa, Fuori dall'Occidente, Einaudi 1992). Si può pensare che sia proprio questa "incomprensibile" dialettica tra i due volti speculari di Dio e di Satana, frutto della "pianta marcia della storia" (G.Bocca), a confondere la ragione e a far convergere piani del discorso tradizionalmente lontani. Lo scenario apocalittico si accampa, sia pure in modo diverso, tanto nella retorica dei leader, di una parte e dell'altra, facendoli parlare la stessa lingua - la "crociata" di Bush e la "guerra santa" di Osama Bin Laden - quanto nei ragionamenti colti, preoccupati di aprire un varco alla ricerca delle cause e dei contesti storici, fuori dalla riduttività del mito.
Si sono alternate, nei commenti di intellettuali e giornalisti, interpretazioni opposte: chi ha visto attaccata la democrazia e la libertà, di cui si considera depositario l'Occidente, e chi ha ritenuto, sia pure dietro un atto terroristico esecrabile, "punita" l'arroganza della politica estera americana in Medioriente, e ristabilita una qualche "simmetria", almeno nella sofferenza, tra il nord e il sud del mondo. Il desiderio di giustizia sembra dunque destinato a confondersi con il bisogno immediato di vendetta, e il compito di riportare la pace affidato all'esercizio di una forza opposta, come la guerra. Mai l'Occidente e il "nemico" che attenta alle sue sicurezze, primati e valori, sono stati più speculari. Difficile, anche in questo caso, separare la somiglianza che nasce da documentate relazioni storiche e quella che viene dall'eredità inconscia, comune, dei popoli, più manifesta nei simboli e nelle religioni. L'organizzazione terroristica islamica, ritenuta responsabile del massacro dell'11 settembre, si è formata in parte alla scuola dei servizi segreti americani, durante il conflitto tra Afganistan e Unione Sovietica, e ha usato, coniugandoli con il sacrificio della propria vita, i mezzi della più moderna tecnologia dell'avversario. L'America, come si è detto da più parti, ha creato il mostro che le si è rivoltato contro. Ma questa è anche la fine "apocalittica" di Babilonia, divorata dagli stessi mercanti che sono divenuti ricchi per merito suo.
Resta da chiedersi perché questo scenario, che riporta in auge false dicotomie ammantate di coloriture religiose - il Bene e il Male, Dio e Satana - trova oggi improvvisamente così largo credito. La promiscuità di etnie, lingue e religioni è il modello di convivenza che ha fatto di New York il paese del mondo, ma è anche, per effetto della globalizzazione economica e dei mezzi di comunicazione, una realtà che sta interessando l'intero pianeta. Non potendo più affidare la propria unità, identità e appartenenza, al confronto col "diverso", né misurare la propria superiorità su un "nemico" ritenuto inferiore, le nazioni umane conoscono per la prima volta l'insicurezza e i pericoli di una progressiva indistinzione. Se c'è un "nemico", non può che annidarsi nelle maglie del sistema dominante, da cui esce, imprevedibile e subdolo, come si può immaginare che sia stato, per la famiglia umana alle sue origini, l'attacco delle bestie e di altri umani. La "nuova guerra", vessillo tristemente inaugurale del secondo millennio, più che le crociate medioevali, richiama l'immagine più arcaica e riduttiva del conflitto tra diversi: la civiltà contro la barbarie. Sono le due maschere che Bush e Bin Laden, i due leader "apocalittici" della modernità, si rimandano a vicenda, anche se ormai è sempre più evidente che sono i due volti dello stesso Dio.
Ha ragione Rossana Rossanda quando dice che ancora una volta la storia si muove su concreti conflitti di potere e che la "retorica" di cui si vorrebbe ammantarli rientra negli strumenti abituali di manipolazione delle coscienze, ricerca del consenso, rafforzamento del senso di appartenenza e di identità nazionale. E' vero: "Non è stata l'apocalisse" (Il manifesto, 22 9 2001). Ma l'"apocalisse" c'entra, così come c'entrano quei sentimenti elementari di amore e odio che si ripresentano nella storia, personale e collettiva, così invariati da far dire a Freud: "quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro" (S.Freud, La delusione della guerra, 1915). I simboli e i miti, che fanno sconfinare la politica nella religione, la lucidità nella follia, non avrebbero tanto peso nell'orientare l'opinione comune, se non fossero sedimenti che la storia si porta dentro, "stranieri" solo perché tenuti in una sorta di esilio dal pensiero che si vorrebbe "razionale". Di fronte al precipitare del mondo in un "sistema di guerra" che non lascia zone franche, si è invocata da più parti la necessità di fermarsi a "riflettere", ma nell'"autocoscienza" dell'Occidente sono ancora molti i passaggi innominati: primo fra tutti quel capostipite di ogni integralismo che è l'identificazione del sesso maschile - solidarista o guerriero che sia - con il genere umano nel suo insieme. La quasi totale assenza delle donne dal dibattito su terrorismo e guerra che occupa giornali e tv in questi giorni, credo sia ormai chiaro che non è né estraneità né segno di un'indole femminile pacifica. Forse il cinema può insegnarci qualcosa: che ne sarebbe dei "duellanti" se venisse meno l'inquadratura che offre loro uno sguardo femminile?
Sembra che Bin Laden si sia tradito per aver ceduto al desiderio di attirare sulle sue "imprese" l'attenzione della madre.

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