22 Settembre 2001
 
 
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Non basta dire "Americani"
Troppo grandi e troppo diversi fra loro, gli Usa sembrano condannati a legare la cittadinanza ad una adesione a valori e comportamenti dati, invece che al luogo di nascita
FABRIZIO TONELLO

La mattina dopo l'attentato dell'11 settembre, il Corriere della Sera e Le Monde hanno lanciato lo slogan, "Siamo tutti americani" come segno di solidarietà forte verso gli Stati Uniti colpiti dalla tragedia. L'elemento curioso di questo slogan è il fatto che l'essere americani è un problema niente affatto risolto per gli stessi cittadini degli Stati Uniti. Esiste una prezioso libretto di Michael Walzer che si intitola proprio Che cosa significa essere americani (Marsilio 1992, prefazione di Nadia Urbinati).
Walzer ovviamente lo scrisse perché sull'argomento esistono intere biblioteche: da Israel Zangwill, il cui dramma creò l'espressione "melting pot", a Richard Hofstadter e Michael Sandel filosofi, storici, leader politici e semplici cittadini si sono interrogati costantemente su cosa significhi dirsi "americano". La Harvard Encyclopedia of American Ethnic Groups inizia con afghani e termina con zoroastriani: proprio quelli che occorrerebbe bombardare la settimana prossima. Walzer scriveva: "Non esiste nessuna nazione chiamata America. Noi viviamo negli Stati Uniti d'America e ci siamo appropriati dell'aggettivo 'americano' anche se non possiamo reclamare alcun diritto esclusivo su di esso". Già questo ci dice che tra le vittime "americane" delle Twin Towers dovremmo contare anche i 200 messicani, le decine di guatemaltechi, honduregni, colombiani, molti dei quali clandestini, che si trovavano negli edifici per lavorare come donne delle pulizie, fattorini, uomini tuttofare. Ma non è questo il punto che Walzer voleva sottolineare.

"Periodicamente - continua l'autore - i politici americani ingaggiano una furiosa disputa per dimostrare il loro patriottismo. Si tratta di una disputa strana, visto che in altre nazioni il patriottismo dei politici non costituisce un problema. I problemi sono altri (...) la lealtà alla patria è semplicemente data per scontata". Un dubbio, un'incertezza che perdura ancora oltre due secoli dopo la Dichiarazione d'Indipendenza e sembra rodere gli Stati Uniti, che sentono continuamente il bisogno di creare commissioni per sorvegliare e reprimere le attività "antiamericane", oltre a usare normalmente nel dibattito politico interno espressioni come "nemico dei comuni americani". Philip Gleason e Richard Hofstadter avevano indagato già molti anni fa questa forma mentis, giungendo alla conclusione che questa incertezza derivava da un motivo assai profondo: concepire l'America come un'ideologia, come un progetto, invece che come un luogo fisico con dei confini. Gleason scriveva: "Per essere o per diventare americano non era richiesto alcun particolare retroterra etnico, religioso, linguistico o nazionale. Tutto ciò che [l'immigrato] doveva fare era di impegnarsi in una ideologia politica centrata su ideali astratti di libertà, uguaglianza e repubblicanesimo". Gli Stati Uniti, troppo grandi, troppo diversi fra loro, sembrano condannati a legare la cittadinanza ad una adesione a valori e comportamenti dati, invece che al luogo di nascita. Questa richiesta di cittadinanza attiva ha probabilmente un effetto positivo nell'interiorizzare i valori democratici iscritti nella Dichiarazione d'Indipendenza. Inoltre, essa ha ottenuto in contropartita una reale possibilità di ascesa sociale per gli immigrati: quale nazione europea potrebbe avere avuto un un capo di Stato Maggiore di origini lituane, che ha lasciato il posto a un altro figlio di genitori giamaicani (l'attuale ministro degli Esteri Colin Powell)? L'essere di origini italiane non ha impedito a Giuliani di diventare sindaco di New York, o a Cuomo di diventare governatore dello Stato.
Tuttavia, legare la cittadinanza a dei valori e dei comportamenti ha un senso filosofico assolutamente illiberale. Chi non è d'accordo con il modello (così come interpretato in quel momento) perde non solo la possibilità di azione politica ma la sua stessa identità. Chi è americano e chi non lo è si decide a maggioranza. Democrazia sì, ma per chi decidiamo noi: "Love it, or leave it", amate l'America o andatevene.

Questo, per fortuna, è successo assai raramente nel corso della storia degli Stati Uniti, ma ciò che è accaduto è grave abbastanza da far riflettere: il genocidio (non c'è altra parola) degli originali abitanti del continente, gli indiani, è stato possibile in quanto "non americani", persone che rifiutavano il modo di vita loro proposto, più che rappresentare una minaccia per i confini. Lo stesso è avvenuto con la schiavitù e poi la segregazione razziale: per metà dei cittadini americani i neri erano uomini (se non cittadini), per l'altra metà erano "cose".
Il terzo episodio di cui discutere è quello dell'internamento di cittadini americani di origine giapponese e italiana durante la Seconda guerra mondiale. In questo caso fu il governo a compilare le liste, stabilire i luoghi di deportazione, organizzare il trasferimento forzato. Alla maggioranza dell'opinione pubblica apparve un provvedimento del tutto naturale e nel 1943 la Corte Suprema, in Hirabayashi v. United States, ratificò all'unanimità le azioni dell'amministrazione Roosevelt, argomentando che c'erano "relativamente pochi contatti sociali" tra i nippoamericani e "la popolazione di razza bianca". Un argomento che permetterebbe di trasferire gli abitanti dell'Aspromonte a Pioltello perché ci sono "relativamente pochi contatti sociali" tra loro e il resto dell'Italia, o di togliere la cittadinanza ai cittadini di Piana degli albanesi perché, appunto, "albanesi".
Queste ingiustizie di origine etnica sono state, almeno sulla carta, corrette e, talvolta, riparate. I nippoamericani sono stati indennizzati, gli afroamericani hanno un ministro, Colin Powell, nell'amministrazione Bush e gli indiani godono di vari programmi di assistenza. Ma il potenziale autoritario di questa visione della cittadinanza è tutt'altro che scomparso: il maccartismo è tornato di moda dopo l'apertura degli archivi dell'ex Unione Sovietica e un'intera generazione di giornalisti e politici conservatori ha trasformato in un'industria i documenti (veri o fasulli) scovati a Mosca. La tesi, in soldoni, è che Joseph McCarthy aveva sempre avuto ragione e che tutti i perseguitati di quegli anni erano davvero spie dell'Urss, a cominciare da Julius ed Ethel Rosemberg. Victor Navasky, su The Nation, ha dimostrato che i documenti non rivelano nulla di nuovo, se non complicità di basso livello e certamente non provano che i Rosemberg fossero in grado di rubare segreti atomici, men che meno che li abbiano effettivamente avuti e trasmessi al Cremlino. Naturalmente, il vero obiettivo della destra non è bollare i due coniugi ebrei del marchio di Caino bensì ribadire che chi dissente dal governo in carica è non solo un avversario ma un traditore, non solo un traditore ma uno straniero.
Oggi, questa stessa concezione torna prepotentemente con il pretesto del terrorismo, che viene costantemente presentato come barbarico e privo di ragioni, come irrazionale e inspiegabile. Ora, se c'è un fenomeno che necessita di spiegazione politica è un terrorismo che si pone obiettivi politici, nel caso di quello islamico punire gli Stati Uniti per il loro appoggio a Israele e ai regimi arabi "empi" come l'Arabia Saudita. Al contrario, l'America "non è mai sembrata più lontana di oggi dal riconoscimento della realtà", come ha scritto Susan Sontag dopo l'attentato.
I media si ostinano a spiegare gli attentati con l'odio nei confronti di chi è ricco, tollerante, moderno. In realtà, nessuno odia l'America per ciò che è, quanto meno non abbastanza da suicidarsi per infliggerle dai danni. Molti, invece, la odiano per ciò che fa: per il suo sostegno a regimi corrotti come quello saudita, per il suo fornire armi a Israele, per il suo disinteresse nei confronti di chi vive in un campo profughi libanese.
A differenza degli anni Quaranta e Cinquanta, oggi le autorità difendono i musulmani americani, condannano le aggressioni e i sospetti nei loro confronti e si propongono di distruggere soltanto i seguaci e i fiancheggiatori di bin Laden. Ciò non toglie che nei pacchetti antiterrorismo varati in questi giorni siano previste pesanti pene detentive per chi finanzia organizzazioni definite "terroriste" dal Dipartimento di Stato, che a sua discrezione può appiccicare questa etichetta all'Olp o agli ospedali gestiti da Hamas a Gaza.

Nei prossimi anni, quindi, la domanda "Che cosa significa essere americani" rischia di avere una risposta illiberale e autoritaria: non solo essere nati in qualche punto tra Seattle e il Rio Grande, oppure in Alaska o alle Hawai, ma anche ripetere come un incantesimo la propria fede nella bandiera, nella Costituzione, nel mercato, nello scudo stellare e, magari, nei bombardamenti di civili afgani. L'alternativa sarà subire una pressione politica fortissima, quando non ritorsioni amministrative o giudiziarie. L'altroieri su Le Monde Francis Fukuyama intitolava un suo articolo sugli Stati Uniti, "L'Etat Uni", al singolare. In pochi minuti, l'11 settembre scorso, l'America potrebbe essere diventata di colpo "una", cioè non più pluralista, contraddittoria, ferocemente attaccata alle libertà individuali, diffidente nei confronti del governo. Ovvero, la negazione di tutto ciò che l'ha fatta amare a centinaia di milioni di persone tra il 1776 e oggi.

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