02 Settembre 2001
 
 
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"Sul razzismo le radici degli Usa"
Un'ingiustizia a cui si deve riparazione. Parla il reverendo Jesse Jackson
MA. FO. - DURBAN

L'America dei diritti civili è scesa in campo: ha creato un grande malumore la scelta dell'amministrazione Bush, di inviare solo una delegazione di basso profilo alla conferenza dell'Onu contro il razzismo. Il Black Caucus, il gruppo parlamentare trasversale dei neri eletti al Congresso americano, da battaglia. Il reverendo Jesse Jackson, figura storica del movimento per i diritti civili della gente di colore negli Usa, lancia sfide alla Casa Bianca.
Jackson polemizza con chi ha voluto fare del Medio oriente il centro di questa conferenza: "La questione del razzismo è troppo grande per essere ridotta alla controversia sul Medio oriente. Si può essere contro gli insediamenti (israeliani nei Territori palestinesi, ndr), contro l'assassinio proditorio di leader palestinesi, e non necessariamente bollare Israele di stato razzista: se cominci con le etichette, ce ne sarebbero parecchie da mettere", aveva detto mercoledì, arrivando in questa città sudafricana. Il fondatore e presidente della Rainbow Coalition ("Coalizione arcobaleno") atacca: la polemica sul Medio oriente rischia di eclissare la conferenza, "che è sulla discriminazione in ogni sua forma, dal razzismo nella giustizia statunitense oggi alla moderna schiavitù in Sudan".
Per sbloccare la situazione venerdì Jackson aveva incontrato la delegazione palestinese, cercando un compromesso diplomatico sulla terminologia, sionismo, razzismo. Ieri è tornato alla carica: gli Stati uniti devono prendere la guida di una nuova iniziativa di pace in Medio oriente: "Non dobbiamo temere il negoziato:. ... Entrambe le parti hanno subito enormi sofferenze ma nessuna ha la capacità di rompere il ciclo della violenza. Il presidente Bush ha l'obbligo morale di farlo". Il punto, insiste Jackson, è che gli Stati uniti non possono tirarsi indietro.

Perché Washington tiene un profilo così basso in questa conferenza?



Gli Stati uniti hanno l'obbligo morale e l'onere, in quanto superpotenza, di impegnarsi per il cambiamento, non solo di stare a osservare. Gli Usa hanno interesse alla pace mondiale, alla stabilità - perché l'instabilità minaccia le nostre vite, lo sviluppo, il bilancio. Ora, Bush dice che non viene qui perché non è d'accordo con la risoluzione che potrebbe venir approvata circa le questioni del Medio oriente e della schiavitù. Ma pensa alla conferenza di Pechino sulle donne: gli Stati uniti avevano un enorme contenzioso politico e ideologico con la Cina, ma non abbiamo usato l'ideologia per non sostenere la conferenza delle donne. Quello che voglio dire è che non si può usare una foglia di fico per tirarsi indietro ed evitare la crisi razziale.

Crisi razziale?

Sì. L'America porta un grande peso, perché ha costruito le sue fondamenta sulla supremazia razzista e sullo sfruttamento del lavoro schiavizzato. E' per questo che è tanto imbarazzante per gli Usa oggi affrontare questi temi in una conferenza internazionale: perché è stato il traffico di esseri umani du centinaia di anni ad alimentare la crescita economica e lo sviluppo americano. A questo bisogna dare riparazione.



La questione di una riparazione è all'ordine del giorno di questa conferenza



E deve esserci. Era all'ordine del giorno per la Germania dopo l'Olocausto. Non è un concetto nuovo. Ma ora bisogna dare un seguito concreto.

Quello dei risarcimenti è una discussione che ha molta risonanza ormai negli Stati Uniti, quasi una nuova dimensione della politica e della lotta delle minoranze di colore. Non per nulla il reverendo Jesse Jackson, che negli anni sessanta organizzava le marce di protesta nelle stradfe di Chicago, oggi ha aperto anche uno studio a Wall Street di consulenza per le cause di discriminazione razziale nelle corporation. E il termine reparation che qui a Durban è inteso come risarcimento collettivo e politico per le conseguenze della colonizzazione e dello schiavismo, negli Usa è spesso inteso in modo più strettamente legale e finanziario.

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