29 Agosto 2001
 
 
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I profughi digiunano in alto mare
SIMONA MANNA

Ha tutte le caratteristiche di una tragica telenovela l'assurda storia dei 434 profughi che da due giorni stazionano in una nave nel bel mezzo dell'oceano indiano in attesa che qualcuno, e non uno a caso, si prenda le sue responsabilità.
I protagonisti sono proprio loro, 434 immigrati afghani, srilankesi e indonesiani, che domenica scorsa hanno pagato un biglietto di sola andata di mille dollari per realizzare il sogno di arrivare nella ricca Australia e cominciare una nuova vita. Ma il loro sogno, concretizzato in un peschereccio malconcio chiamato Km Palapa 1, si è arenato il giorno dopo, in acque ancora indonesiane. E la Tampa, la nave norvegese che li ha soccorsi, li ha portati nel porto australiano più vicino, l'isola di Christmas, dove tuttora si trovano, bloccati dalla lentezza sterile della diplomazia. Ed è forse per accelerare una presa di responsabilità da parte dei paesi coinvolti in questa storia che da ieri gli immigrati, tra cui due donne incinte e 43 bambini, hanno proclamato lo sciopero della fame.
Il responsabile di questo impasse in mezzo all'oceano, è l'Australia, che tramite la voce ferma del primo ministro John Howard, ha dichiarato sino all'ultimo di non voler accettare i profughi nella propria terra. E, anche se è la prima volta che l'Australia nega l'ingresso agli immigrati, la cosa non stupisce date le leggi durissime sugli immigrati che sia i conservatori sia i laburisti australiani difendono con ostinazione dal 1994. La palla è passata allora all'Indonesia, che ha pensato bene ieri di giocarci un po' prima di ributtarla via, come una bomba che sta per scoppiare. Al mattino, infatti, il portavoce del ministro degli Esteri indonesiano Sulaiman Abdul Manan aveva dichiarato che avrebbe accolto i 434 profughi. Poi nel pomeriggio la prima rettifica "non ne prendiamo più di 400", infine l'entrata in campo del ministro degli Esteri indonesiano Hassan Wiorajuda in persona che, smentendo il suo portavoce, annuncia "non possiamo. La nostra legge non ce lo permette".
Tra i due litiganti c'è la Norvegia, paese che non ha nessuna responsabilità in questo caos diplomatico e che però ne è coinvolto in pieno. L'equipaggio della Tampa, composto da 27 persone tra cui pochi norvegesi e soprattutto indiani e filippini, teme possibili sommosse. In tal caso, il comandante Arne Rinnan ha dichiarato che "ci barricheremo negli alloggi, siamo marinai e non guerrieri". D'altronde l'unica colpa di questo equipaggio è quella di aver soccorso gli immigrati, sotto richiesta però, come fa notare in una nota diplomatica il ministro degli Esteri norvegese Thorbjorn Jagland, proprio della guardia costiera australiana che quindi ha il dovere di ospitare i profughi.
Del dovere che ha l'Australia di fornire un aiuto umanitario ai 434 profughi se ne parla anche a Kabul, e non solo perché è dall'Afghanistan, paese tra i più poveri al mondo, che sono partiti la maggior parte dei naufraghi sul Tampa. Il fatto è che i talebani hanno arrestato più di tre settimane fa otto occidentali, che lavoravano a Kabul in una sede della Shelter Now, un'associazione umanitaria. Gli stranieri, di cui due americani, quattro tedeschi e due australiani, sono accusati di proselitismo in nome del cristianesimo e rischiano la pena di morte. In loro aiuto si sono mobilitati i diplomatici tedeschi, inglesi e australiani. Ed è di fronte alla richiesta di un aiuto umanitario da parte del console australiano che il diplomatico talebano Abdur Hotak ha risposto per le rime, riferendosi alla scarsa "umanità" dimostrata dall'Australia nei confronti dei 434 profughi bloccati in mezzo al mare.
E mentre otto cristiani rischiano la vita in terra islamica, gli afghani sul ponte della nave norvegese rivolgono alla Mecca la loro preghiera di poter giungere in terra australiana. Ma sinora nessun risultato. L'Australia ha messo tutto il suo spirito umanitario dentro tre aerei dell'esercito e ha inviato gommoni, medici e cibo ai naufraghi. Ma se questi immigrati, che scappano dal loro paese perché poveri o perseguiti dalla legge e che si trovano con le tasche vuote in mezzo all'oceano indiano, parlassero la lingua del primo ministro australiano, forse gli direbbero che non è questo che vogliono. Vogliono la possibilità di una nuova vita. L'hanno pagata 1000 dollari.

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