I profughi
digiunano
in alto mare
SIMONA MANNA
Ha tutte le caratteristiche di una tragica telenovela
l'assurda storia dei 434 profughi che da due giorni stazionano in
una nave nel bel mezzo dell'oceano indiano in attesa che
qualcuno, e non uno a caso, si prenda le sue responsabilità.
I protagonisti sono proprio loro, 434 immigrati afghani,
srilankesi e indonesiani, che domenica scorsa hanno pagato un
biglietto di sola andata di mille dollari per realizzare il sogno
di arrivare nella ricca Australia e cominciare una nuova vita. Ma
il loro sogno, concretizzato in un peschereccio malconcio
chiamato Km Palapa 1, si è arenato il giorno dopo, in
acque ancora indonesiane. E la Tampa, la nave norvegese
che li ha soccorsi, li ha portati nel porto australiano più
vicino, l'isola di Christmas, dove tuttora si trovano, bloccati
dalla lentezza sterile della diplomazia. Ed è forse per
accelerare una presa di responsabilità da parte dei paesi
coinvolti in questa storia che da ieri gli immigrati, tra cui due
donne incinte e 43 bambini, hanno proclamato lo sciopero della
fame.
Il responsabile di questo impasse in mezzo all'oceano, è
l'Australia, che tramite la voce ferma del primo ministro John
Howard, ha dichiarato sino all'ultimo di non voler accettare i
profughi nella propria terra. E, anche se è la prima volta che
l'Australia nega l'ingresso agli immigrati, la cosa non stupisce
date le leggi durissime sugli immigrati che sia i conservatori
sia i laburisti australiani difendono con ostinazione dal 1994.
La palla è passata allora all'Indonesia, che ha pensato bene ieri
di giocarci un po' prima di ributtarla via, come una bomba che
sta per scoppiare. Al mattino, infatti, il portavoce del ministro
degli Esteri indonesiano Sulaiman Abdul Manan aveva dichiarato
che avrebbe accolto i 434 profughi. Poi nel pomeriggio la prima
rettifica "non ne prendiamo più di 400", infine l'entrata in
campo del ministro degli Esteri indonesiano Hassan Wiorajuda in
persona che, smentendo il suo portavoce, annuncia "non possiamo.
La nostra legge non ce lo permette".
Tra i due litiganti c'è la Norvegia, paese che non ha nessuna
responsabilità in questo caos diplomatico e che però ne è
coinvolto in pieno. L'equipaggio della Tampa, composto da
27 persone tra cui pochi norvegesi e soprattutto indiani e
filippini, teme possibili sommosse. In tal caso, il comandante
Arne Rinnan ha dichiarato che "ci barricheremo negli alloggi,
siamo marinai e non guerrieri". D'altronde l'unica colpa di
questo equipaggio è quella di aver soccorso gli immigrati, sotto
richiesta però, come fa notare in una nota diplomatica il
ministro degli Esteri norvegese Thorbjorn Jagland, proprio della
guardia costiera australiana che quindi ha il dovere di ospitare
i profughi.
Del dovere che ha l'Australia di fornire un aiuto umanitario ai
434 profughi se ne parla anche a Kabul, e non solo perché è
dall'Afghanistan, paese tra i più poveri al mondo, che sono
partiti la maggior parte dei naufraghi sul Tampa. Il
fatto è che i talebani hanno arrestato più di tre settimane fa
otto occidentali, che lavoravano a Kabul in una sede della
Shelter Now, un'associazione umanitaria. Gli stranieri,
di cui due americani, quattro tedeschi e due australiani, sono
accusati di proselitismo in nome del cristianesimo e rischiano la
pena di morte. In loro aiuto si sono mobilitati i diplomatici
tedeschi, inglesi e australiani. Ed è di fronte alla richiesta di
un aiuto umanitario da parte del console australiano che il
diplomatico talebano Abdur Hotak ha risposto per le rime,
riferendosi alla scarsa "umanità" dimostrata dall'Australia nei
confronti dei 434 profughi bloccati in mezzo al mare.
E mentre otto cristiani rischiano la vita in terra islamica, gli
afghani sul ponte della nave norvegese rivolgono alla Mecca la
loro preghiera di poter giungere in terra australiana. Ma sinora
nessun risultato. L'Australia ha messo tutto il suo spirito
umanitario dentro tre aerei dell'esercito e ha inviato gommoni,
medici e cibo ai naufraghi. Ma se questi immigrati, che scappano
dal loro paese perché poveri o perseguiti dalla legge e che si
trovano con le tasche vuote in mezzo all'oceano indiano,
parlassero la lingua del primo ministro australiano, forse gli
direbbero che non è questo che vogliono. Vogliono la possibilità
di una nuova vita. L'hanno pagata 1000 dollari.
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