28 Agosto 2001
 
 
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Razzismo nero
La globalizzazione e l'immigrazione trovano nel Sudafrica, che ha eliminato la vergogna dell'apartheid nel 1994, un singolare osservatorio, utile alla conferenza mondiale sul razzismo di Durban. Crogiuolo di etnie e di discriminazioni, segregazioni e disprezzo, al di là del colore della pelle MARCO D'ERAMO

Venerdì si apre a Durban in Sudafrica la Conferenza delle nazioni Unite "contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e connesse intolleranze". Pare giusto che un tale vertice si tenga nel paese che è riuscito a battere il regime dell'apartheid e su cui veglia la luminosa figura di Nelson Mandela. Ma la scelta del luogo risulta opportuna in un senso più profondo, perché sette anni dopo la fine della segregazione ufficiale (1994), il Sudafrica di oggi accantona l'immagine - per così dire - "schiavista" del razzismo, ma mette in campo tutte quelle intolleranze, quelle ben più variegate discriminazioni che proliferano nelle società anche quando i Bantustan sono stati rasi al cancellati dalla penna del legislatore.
Agglomerazione urbana di quasi 1,5 milioni di abitanti, Durban è infatti un porto animatissimo e grande centro industriale della provincia del Kwazulu-Natal ed è, per forza di cose, uno dei maggiori poli di attrazione del flusso di immigrati che si riversa da tutto il resto dell'Africa nera, fin da Somalia, Senegal, Sudan e Nigeria, oltre che naturalmente dal vicino Mozambico, dal Rwuanda, dal Burundi e dal Congo sconvolti dalla guerra.
In Sudafrica sono registrati infatti 271.000 immigrati ufficiali. Possono sembrare davvero pochi per un paese di 40 milioni di abitanti, soprattutto se misurati ai tassi europei. Ma cambiamo subito opinione quando pensiamo che nel 1996 gli immigrati erano solo 5.000 e quando mettiamo in conto la massa sterminata di clandestini, difficile da valutare: basti pensare che solo nel 1999, ultimo anno per cui questo dato è disponibile, sono stati espulsi 189.961 immigrati illegali, di cui 123.961 dal Mozambico: molti dei dati di quest'articolo sono tratti dall'archivio messo su dal Southern African Project.
Visto infatti dai paesi circostanti, il Sudafrica può sembrare un paradiso, almeno sulla carta: 3.500 dollari Usa di prodotto nazionale lordo (Pnl) annuo pro capite; un'automobile e un telefono ogni 10 abitanti, un televisore ogni otto. A titolo di paragone, il Mozambico ha un Pnl annuo pro capite di 80 dollari Usa, un'auto e un telefono ogni cento abitanti; la repubblica democratica del Congo ha un Pnl p/c annuo di 130 dollari, una macchina ogni 500 abitanti e un telefono ogni 1.500.
Ma una volta a destinazione questi rifugiati trovano una realtà ben diversa: non importa se sono tecnici, laureati, infermiere, piccoli imprenditori o rifugiati politici: in ogni caso essi sono oggetti di attacchi xenofobi, di discriminazione, insulti. A maggio la polizia ha angariato per tutta una giornata una donna accusata di essere immigrata clandestina: gli agenti hanno poi scoperto con scorno che era una funzionaria addetta al rispetto dei diritti umani.
Il problema è che sette anni di democrazia hanno apportato ben pochi benefici alla gran massa della popolazione nera: al contrario, la disoccupazione è altissima e il clima sociale nelle città è sempre più teso. A Johannesburg, Cape Town, Pretoria e Durban, si ripete l'antico rituale della contesa per le risorse rare, cioè della guerra tra poveri.
E così, soprattutto i neri reagiscono con una sorta di razzismo inter-nero all'arrivo degli immigrati che accusano di essere responsabili dell'alto tasso di criminalità, della diffusione galoppante dell'Aids e di ogni e qualunque calamità. E' un disprezzo che somiglia a quello diffuso nel nord Europa verso il Mediterraneo o, in Italia, verso gli albanesi. E dovuto anche al senso di superiorità che i neri sudafricani ostentano nei confronti degli altri africani, all'orgoglio per le loro infrastrutture, per la modernità dell'economia e per essere riusciti a evitare le guerre civili e i conflitti inter-etnici che hanno dilaniato gli altri paesi del continente.

L'International Refugee Services (Irs) ha contato 35 rifugiati uccisi in episodi di xenofobia dal 1998 o oggi, e non passa giorno senza che la cronaca registri un attacco xenofobo.
La polizia sudafricana ha smentito nei mesi scorsi che 14 mozambicani fossero stati gettati giù dal treno che rimpatriava 1.400 immigrati clandestini. Ma violenze simili vengono riferite con troppa regolarità perché le smentite convincano qualcuno.
Fa sempre impressione vedere discriminazioni operate da chi le ha subite, come gli italiani che linciano gli immigrati dopo che gli immigrati italiani venivano regolarmente linciati in America. In realtà il disprezzo non fa altro che interiorizzare nella scala dei valori la gerarchia sociale, perché gli immigrati si trovano al fondo della variegata scala sociale sudafricana.
Di recente il dipartimento del lavoro di Mpumalanga ha computo un'ispezione in una fattoria vicino Komatipoor dove l'80% dei dipendenti era mozambicano e dove hanno trovato bambini di 10 anni al lavoro nei campi. Non solo, ma hanno constatato che le braccianti nere sudafricane avevano assoldato bambine mozambicane anche di sei anni di età perché sorvegliassero i propri figli mentre loro erano nei campi a lavorare. Le bambine erano pagate 600 lire al giorno.
La posizione degli immigrati dipende anche dal mercato del lavoro sudafricano che, alla faccia della tanto proclamata modernità, presenta una struttura davvero arcaica: basti pensare che circa il 10% della forza lavoro totale (un milione di persone su 10) è impiegata come domestica, ed è su questa massa di lavoratori domestici che incombe, come spada di Damocle, la minaccia di essere sostituiti da immigrati ancora più a buon mercato.
E non è una minaccia da niente se, proprio per farvi fronte, il governo dell'African National Congress sta discutendo di introdurre un salario minimo garantito di 400 rand al mese per questo tipo di lavoratori, un salario minimo appena al di sopra della soglia di povertà (391 rand mensili, un rand vale poco più di 300 lire). Si tenga conto che più del 40% della popolazione sudafricana vive sotto la soglia di povertà, ma che nelle regioni rurali i poveri sono il 72% e che la situazione varia molto da una provincia all'altra: l'Eastern Cape è il più povero (71%), seguito dl Free State (63%), North West (62%), Western Cape (28%), Gauteng (17%). Naturalmente le associazioni padronali profetizzano che il salario minimo garantito porterà alla perdita di 24.000 posti se sarà di 400 rand mensili, e di 33.000 se sarà di 500 rand.
Tutto questo mentre da sette anni il governo discute una legge sull'immigrazione che non riesce mai a varare perché la legge mira a due scopi conflittuali. Da un lato vorrebbe arginare il flusso di rifugiati, di indigenti, di migranti senza qualifiche. Ma dall'altro la legge dovrebbe incoraggiare e favorire l'afflusso di immigrazione qualificata che compensi la fuga dei cervelli che da dieci anni sta svuotando il Sudafrica. Si calcola che da quando è stato abolito l'apartheid, fino a ora siano partiti 233.000 professionisti, tecnici, scienziati, imprenditori, lavoratori qualificati. Tra il 1998 e il 2000 hanno lasciato il paese 22.500 persone. E il ritmo si accelera, se nel gennaio di quest'anno le partenze sono state ben 1.568, il 24% in più dell'anno prima. Nel 2000 hanno lasciato il Sudafrica 884 manager e dirigenti, 358 ingegneri, 353 insegnanti, 286 artigiani e 1.848 studenti, tutte cifre in aumenti rispetto agli anni precedenti. Mentre sono diminuiti i lavoratori stranieri qualificati (professionisti, dirigenti, tecnici) entrati in Sudafrica: da 4.371 nel 1998 a 3.053 nel 2000.

All'inizio l'emigrazione seguiva uno schema preciso: "I primi a lasciare sono gli ebrei, poi subito dopo se ne vanno i Wasp, i bianchi anglosassoni protestanti): se continua così ritorneremo come nella Libera repubblica del Transvaal a metà '800, ci saremo solo noi e i boeri", dicono all'ufficio immigrazione. Ma da allora, lo schema è cambiato e oggi viene da neri il 60% delle domande di emigrazione, anche se molte sono rifiutate. Quando nel giugno 1999 l'Australia annunciò che stava stabilendo nuovi criteri di qualifica professionale che avrebbero reso più difficile l'ingresso ai commercianti, più di 1.000 negozianti sudafricani si affrettarono a chiedere il visto prima che entrassero in vigore i nuovi criteri.
Il Sudafrica ci offre così l'occasione di liberarci da quella che potremmo definire una visione reaganiana dell'Africa: il reaganismo propinava una visione teatrale, strappacuore, estrema della povertà, limitata agli homeless assiderati nel gelo di New York e all'underclass delle inner cities raffigurate come la Manhattan di Fuga da New York. Così facendo, il reaganismo distoglieva l'opinione pubblica dalla gran massa di poveri: homeless e underclass costituivano un'infima minoranza degli indigenti americani, costituiti da working poors e da braccianti in miseria. Nello stesso modo, i mass-media mondiali ci offrono un'immagine miserabilista dell'Africa, come se fosse tutta Aids e denutriti bambini del Sahel.
Così ci fanno dimenticare che anche il Continente nero è traversato dalle correnti della globalizzazione, con i suoi flussi di umani e di idee. Persino a Bujumbura, nella capitale del Burundi dilaniato dalla guerra - scrive un editorialista del sudafricano Mail and Guardian - il quartiere di "Bwiza è la faccia non detta, africana, della globalizzazione: migliaia di maliani, senegalesi, rwandesi, congolesi, zambiani, ugandesi, etiopici e tanzaniani formano qui un'animatissima comunità immigrata che conduce i propri affari nella lingua franca regionale, lo swahili, a pochi chilometri da dove altri affari vengono trattati - per cifre un po' più consistenti - in francese, inglese, russo, giapponese ed ebreo sotto le fioche luci di downtown Bujumbura".

Se la globalizzazione confonde le carte già "sotto i fiochi lampioni di downtown Bujumbura", immaginiamo sotto i riflettori al neon del Sudafrica. Qui, racconta un'inviata del Los Angeles Times, un etiopico che ha un negozio di scarpe al centro di Durban pensa di tornarsene a casa per come è disprezzato dai neri sudafricani. Un'infermiera che viene dal Congo deve guadagnarsi la vita con le mance di un posteggio, e un giovane camerunese diplomato in un'accademia di legge islamica in Arabia Saudita non ha potuto trovare nessun posto nelle scuole musulmane perché non parla urdu, e deve fare il guardiano per un ricovero dell'Irs.
I delegati alla Conferenza dell'Onu potranno quindi guardarsi intorno, fuori dalle finestre della sala, e vedere nelle vie di Durban e nelle sue periferie il vero problema del futuro: una società multirazzista, dai disprezzi segmentati, variegati, strutturati in una gerarchia dell'insulto. E, magari, una sera, alla fine dei lavori, per toccare con mano il rimescolamento umano che chiamiamo mondializzazione, potranno visitare la mostra grafica Zulusushi, appena inaugurata, sulla setta fondata nella montagna Ngoye da Mpunzi Shezi, il primo maestro Zulu di Zen, la cui missione è "portare l'uBuntu ai buddisti e arrecare lo zen agli zulu".


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