Razzismo nero
La globalizzazione e l'immigrazione trovano nel Sudafrica,
che ha eliminato
la vergogna dell'apartheid nel 1994, un singolare osservatorio,
utile
alla conferenza mondiale sul razzismo di Durban. Crogiuolo di
etnie
e di discriminazioni, segregazioni e disprezzo, al di là del
colore della pelle
MARCO D'ERAMO
Venerdì si apre a Durban in Sudafrica la Conferenza delle nazioni
Unite "contro il razzismo, la discriminazione razziale, la
xenofobia e connesse intolleranze". Pare giusto che un tale
vertice si tenga nel paese che è riuscito a battere il regime
dell'apartheid e su cui veglia la luminosa figura di
Nelson Mandela. Ma la scelta del luogo risulta opportuna in un
senso più profondo, perché sette anni dopo la fine della
segregazione ufficiale (1994), il Sudafrica di oggi accantona
l'immagine - per così dire - "schiavista" del razzismo, ma mette
in campo tutte quelle intolleranze, quelle ben più variegate
discriminazioni che proliferano nelle società anche quando i
Bantustan sono stati rasi al cancellati dalla penna del
legislatore.
Agglomerazione urbana di quasi 1,5 milioni di abitanti, Durban è
infatti un porto animatissimo e grande centro industriale della
provincia del Kwazulu-Natal ed è, per forza di cose, uno dei
maggiori poli di attrazione del flusso di immigrati che si
riversa da tutto il resto dell'Africa nera, fin da Somalia,
Senegal, Sudan e Nigeria, oltre che naturalmente dal vicino
Mozambico, dal Rwuanda, dal Burundi e dal Congo sconvolti dalla
guerra.
In Sudafrica sono registrati infatti 271.000 immigrati ufficiali.
Possono sembrare davvero pochi per un paese di 40 milioni di
abitanti, soprattutto se misurati ai tassi europei. Ma cambiamo
subito opinione quando pensiamo che nel 1996 gli immigrati erano
solo 5.000 e quando mettiamo in conto la massa sterminata di
clandestini, difficile da valutare: basti pensare che solo nel
1999, ultimo anno per cui questo dato è disponibile, sono stati
espulsi 189.961 immigrati illegali, di cui 123.961 dal Mozambico:
molti dei dati di quest'articolo sono tratti dall'archivio messo
su dal Southern African Project.
Visto infatti dai paesi circostanti, il Sudafrica può sembrare un
paradiso, almeno sulla carta: 3.500 dollari Usa di prodotto
nazionale lordo (Pnl) annuo pro capite; un'automobile e un
telefono ogni 10 abitanti, un televisore ogni otto. A titolo di
paragone, il Mozambico ha un Pnl annuo pro capite di 80 dollari
Usa, un'auto e un telefono ogni cento abitanti; la repubblica
democratica del Congo ha un Pnl p/c annuo di 130 dollari, una
macchina ogni 500 abitanti e un telefono ogni 1.500.
Ma una volta a destinazione questi rifugiati trovano una realtà
ben diversa: non importa se sono tecnici, laureati, infermiere,
piccoli imprenditori o rifugiati politici: in ogni caso essi sono
oggetti di attacchi xenofobi, di discriminazione, insulti. A
maggio la polizia ha angariato per tutta una giornata una donna
accusata di essere immigrata clandestina: gli agenti hanno poi
scoperto con scorno che era una funzionaria addetta al rispetto
dei diritti umani.
Il problema è che sette anni di democrazia hanno apportato ben
pochi benefici alla gran massa della popolazione nera: al
contrario, la disoccupazione è altissima e il clima sociale nelle
città è sempre più teso. A Johannesburg, Cape Town, Pretoria e
Durban, si ripete l'antico rituale della contesa per le risorse
rare, cioè della guerra tra poveri.
E così, soprattutto i neri reagiscono con una sorta di
razzismo inter-nero all'arrivo degli immigrati che
accusano di essere responsabili dell'alto tasso di criminalità,
della diffusione galoppante dell'Aids e di ogni e qualunque
calamità. E' un disprezzo che somiglia a quello diffuso nel nord
Europa verso il Mediterraneo o, in Italia, verso gli albanesi. E
dovuto anche al senso di superiorità che i neri sudafricani
ostentano nei confronti degli altri africani, all'orgoglio per le
loro infrastrutture, per la modernità dell'economia e per essere
riusciti a evitare le guerre civili e i conflitti inter-etnici
che hanno dilaniato gli altri paesi del continente.
L'International Refugee Services (Irs) ha contato 35 rifugiati
uccisi in episodi di xenofobia dal 1998 o oggi, e non passa
giorno senza che la cronaca registri un attacco xenofobo.
La polizia sudafricana ha smentito nei mesi scorsi che 14
mozambicani fossero stati gettati giù dal treno che rimpatriava
1.400 immigrati clandestini. Ma violenze simili vengono riferite
con troppa regolarità perché le smentite convincano qualcuno.
Fa sempre impressione vedere discriminazioni operate da chi le ha
subite, come gli italiani che linciano gli immigrati dopo che gli
immigrati italiani venivano regolarmente linciati in America. In
realtà il disprezzo non fa altro che interiorizzare nella scala
dei valori la gerarchia sociale, perché gli immigrati si trovano
al fondo della variegata scala sociale sudafricana.
Di recente il dipartimento del lavoro di Mpumalanga ha computo
un'ispezione in una fattoria vicino Komatipoor dove l'80% dei
dipendenti era mozambicano e dove hanno trovato bambini di 10
anni al lavoro nei campi. Non solo, ma hanno constatato che le
braccianti nere sudafricane avevano assoldato bambine mozambicane
anche di sei anni di età perché sorvegliassero i propri figli
mentre loro erano nei campi a lavorare. Le bambine erano pagate
600 lire al giorno.
La posizione degli immigrati dipende anche dal mercato del lavoro
sudafricano che, alla faccia della tanto proclamata modernità,
presenta una struttura davvero arcaica: basti pensare che circa
il 10% della forza lavoro totale (un milione di persone su 10) è
impiegata come domestica, ed è su questa massa di lavoratori
domestici che incombe, come spada di Damocle, la minaccia di
essere sostituiti da immigrati ancora più a buon mercato.
E non è una minaccia da niente se, proprio per farvi fronte, il
governo dell'African National Congress sta discutendo di
introdurre un salario minimo garantito di 400 rand al mese per
questo tipo di lavoratori, un salario minimo appena al di sopra
della soglia di povertà (391 rand mensili, un rand vale poco più
di 300 lire). Si tenga conto che più del 40% della popolazione
sudafricana vive sotto la soglia di povertà, ma che nelle regioni
rurali i poveri sono il 72% e che la situazione varia molto da
una provincia all'altra: l'Eastern Cape è il più povero (71%),
seguito dl Free State (63%), North West (62%), Western Cape
(28%), Gauteng (17%). Naturalmente le associazioni padronali
profetizzano che il salario minimo garantito porterà alla perdita
di 24.000 posti se sarà di 400 rand mensili, e di 33.000 se sarà
di 500 rand.
Tutto questo mentre da sette anni il governo discute una legge
sull'immigrazione che non riesce mai a varare perché la legge
mira a due scopi conflittuali. Da un lato vorrebbe arginare il
flusso di rifugiati, di indigenti, di migranti senza qualifiche.
Ma dall'altro la legge dovrebbe incoraggiare e favorire
l'afflusso di immigrazione qualificata che compensi la fuga dei
cervelli che da dieci anni sta svuotando il Sudafrica. Si calcola
che da quando è stato abolito l'apartheid, fino a ora siano
partiti 233.000 professionisti, tecnici, scienziati,
imprenditori, lavoratori qualificati. Tra il 1998 e il 2000 hanno
lasciato il paese 22.500 persone. E il ritmo si accelera, se nel
gennaio di quest'anno le partenze sono state ben 1.568, il 24% in
più dell'anno prima. Nel 2000 hanno lasciato il Sudafrica 884
manager e dirigenti, 358 ingegneri, 353 insegnanti, 286 artigiani
e 1.848 studenti, tutte cifre in aumenti rispetto agli anni
precedenti. Mentre sono diminuiti i lavoratori stranieri
qualificati (professionisti, dirigenti, tecnici) entrati in
Sudafrica: da 4.371 nel 1998 a 3.053 nel 2000.
All'inizio l'emigrazione seguiva uno schema preciso: "I primi a
lasciare sono gli ebrei, poi subito dopo se ne vanno i Wasp, i
bianchi anglosassoni protestanti): se continua così ritorneremo
come nella Libera repubblica del Transvaal a metà '800, ci saremo
solo noi e i boeri", dicono all'ufficio immigrazione. Ma da
allora, lo schema è cambiato e oggi viene da neri il 60% delle
domande di emigrazione, anche se molte sono rifiutate. Quando nel
giugno 1999 l'Australia annunciò che stava stabilendo nuovi
criteri di qualifica professionale che avrebbero reso più
difficile l'ingresso ai commercianti, più di 1.000 negozianti
sudafricani si affrettarono a chiedere il visto prima che
entrassero in vigore i nuovi criteri.
Il Sudafrica ci offre così l'occasione di liberarci da quella che
potremmo definire una visione reaganiana dell'Africa: il
reaganismo propinava una visione teatrale, strappacuore, estrema
della povertà, limitata agli homeless assiderati nel
gelo di New York e all'underclass delle inner
cities raffigurate come la Manhattan di Fuga da New
York. Così facendo, il reaganismo distoglieva l'opinione
pubblica dalla gran massa di poveri: homeless e underclass
costituivano un'infima minoranza degli indigenti americani,
costituiti da working poors e da braccianti in miseria.
Nello stesso modo, i mass-media mondiali ci offrono un'immagine
miserabilista dell'Africa, come se fosse tutta Aids e denutriti
bambini del Sahel.
Così ci fanno dimenticare che anche il Continente nero è
traversato dalle correnti della globalizzazione, con i suoi
flussi di umani e di idee. Persino a Bujumbura, nella capitale
del Burundi dilaniato dalla guerra - scrive un editorialista del
sudafricano Mail and Guardian - il quartiere di "Bwiza è
la faccia non detta, africana, della globalizzazione: migliaia di
maliani, senegalesi, rwandesi, congolesi, zambiani, ugandesi,
etiopici e tanzaniani formano qui un'animatissima comunità
immigrata che conduce i propri affari nella lingua franca
regionale, lo swahili, a pochi chilometri da dove altri affari
vengono trattati - per cifre un po' più consistenti - in
francese, inglese, russo, giapponese ed ebreo sotto le fioche
luci di downtown Bujumbura".
Se la globalizzazione confonde le carte già "sotto i fiochi
lampioni di downtown Bujumbura", immaginiamo sotto i
riflettori al neon del Sudafrica. Qui, racconta un'inviata del
Los Angeles Times, un etiopico che ha un negozio di
scarpe al centro di Durban pensa di tornarsene a casa per come è
disprezzato dai neri sudafricani. Un'infermiera che viene dal
Congo deve guadagnarsi la vita con le mance di un posteggio, e un
giovane camerunese diplomato in un'accademia di legge islamica in
Arabia Saudita non ha potuto trovare nessun posto nelle scuole
musulmane perché non parla urdu, e deve fare il guardiano per un
ricovero dell'Irs.
I delegati alla Conferenza dell'Onu potranno quindi guardarsi
intorno, fuori dalle finestre della sala, e vedere nelle vie di
Durban e nelle sue periferie il vero problema del futuro: una
società multirazzista, dai disprezzi segmentati, variegati,
strutturati in una gerarchia dell'insulto. E, magari, una sera,
alla fine dei lavori, per toccare con mano il rimescolamento
umano che chiamiamo mondializzazione, potranno visitare la mostra
grafica Zulusushi, appena inaugurata, sulla setta
fondata nella montagna Ngoye da Mpunzi Shezi, il primo maestro
Zulu di Zen, la cui missione è "portare l'uBuntu ai buddisti e
arrecare lo zen agli zulu".
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