Il corpo malato
dell'occidente Il trionfalismo della
medicina moderna di fronte al diffondersi di antichi sistemi
di cura e di nuove prospettive terapeutiche. Una sfida da
raccogliere per arrestare la forsennata ricerca del benessere
ad ogni costo e per reintegrare l'infermità e la morte in una
visione più complessa della vita ELISABETTA CONFALONI
" L' Hypocondria universalis ha
varianti nosologiche. Si dispiega quando il problema della
morte diventa assillante. Quando la conoscenza della finitezza
s'innerva su una coscienza alterata della temporalità: questa
sembra accellerarsi, come nelle fasi di decadenza, o
accrescere le chances di vita, modificare gli scarti tra
classi d'età, mummificare, trasformare l'involucro,
l'apparenza prolungare la giovinezza, confondere, - ed è ciò
che avviene sotto i nostri occhi post-moderni". L'immagine
della manutenzione ipocondriaca del presente, presa in
prestito dallo sguardo di un antropologo contemporaneo (Cfr.
Remo Guidieri, La manutenzione, ne Il sapere della
guarigione) si porge, in un luccichio semantico, a
interpretare la forsennata ricerca della salute-benessere
posta in atto dalle nostre società. Trend emergente,
oggetto denso nel cuore delle indagini sociali, sembrerebbe
che di un tale feticcio siamo impossibilitati a
disfarci.
Se ne preoccupa tra altri Daniel Callahan,
tra i fondatori del Centro di studi internazionali di
Hastings: nel libro La medicina impossibile. Le utopie e
gli errori della medicina moderna (Baldini & Castoldi
2000) l'eminente studioso dei rapporti tra medicina ed etica,
sferra una poderosa critica alle strategie trionfalistiche
della medicina che, negli ultimi anni, hanno incoraggiato la
crescita di smisurate aspettative degli abitanti del pianeta
rispetto alle possibilità di efficacia delle terapie con la
complicità del marchingegno dei mezzi di comunicazione. Un
simile vizio alimentato dalla comunità scientifica avrebbe
prodotto alcuni esiti pericolosi: da una parte l'impossibilità
per la tecnica di rinunciare alla volontà di dominio sulla
natura, e con essa l'incapacità di sottomettersi alla
fisiologia, fissando l'infermità e la morte come difetti
biologici da eliminare piuttosto che passaggi da integrare in
una visione composita della vita. Una versione moderna del
peccato di hybris dell'antichità. Ulteriore
conseguenza: la ridefinizione del luogo della medicina in cui
avrebbero trovato riparo una gamma di problemi sociali come
l'abuso di sostanze o la violenza, un tempo estromessi dal
paesaggio della terapia medica. Si tratterebbe, per Callahann,
dell'erronea collocazione di tematiche significative della
modernità nella posticcia cornice della medicina, all'ombra
dell'illusione che spaccia il tentativo quasi religioso di
"migliorare la propria salute e il proprio corpo" con "il
segreto del significato della vita". Le figure dell'eccesso
disegnate da Callahan si stagliano, in verità, sull'orizzonte
di un consumismo dello star-bene che oscura, omologandoli con
la sua ottusa e strabordante offerta, modelli della salute e
della cura. Scaturiti talvolta da processi teorici e sociali
di rara complessità nel cuore di un Occidente divenuto
l'altrove di flussi di migranti senza più territorio, tali
modelli sono ormai depositati nel nostro tempo. E' il caso
della diffusione in Europa e negli Stati Uniti della
conoscenza, quando non addirittura dell'utilizzo di sistemi
medici o dei dispositivi di salute di altre
culture.
Sfrondata la facciata consumistica della
domanda di salute, assistiamo all'emersione di nuclei
sapienziali di sistemi antichi accanto a prospettive
terapeutiche più recenti come l'Omeopatia, a veri e propri
"saper fare", come l'Etnopsichiatria sviluppatisi all'interno
dei recinti di discipline solo formalmente delimitate grazie
ai processi di contaminazione informale all'opera tra le
culture. Tali sistemi, fortemente contrassegnati da valenze
culturali, si incrociano oggi con i portati più ortodossi
della medicina moderna, talvolta proponendosi come percorsi
paralleli, integrativi oppure suscitando interrogazioni,
volontà di assimilazione e di confronto. E' necessario qui
ricordare che, per la medicina scientifica, il contatto con
altre culture ha avuto luogo dopo che l'innesto, relativo agli
ultimi 50 anni, di discipline complementari sul fusto della
scienza occidentale aveva modificato profondamente il rapporto
di questa con gli oggetti della conoscenza. Con il contributo
delle etnoscienze sono stati redatti dizionari, studiate
classificazioni, decifrati sistemi di pensare e agite la
salute, la malattia e la cura, mentre psicologia, immunologia
e psicosomatica hanno ripristinato quel circuito che fa
dell'organismo un totum, interrotto da Cartesio con
l'edificazione del dualismo res cogitans - res
extensa. Saranno allora alcuni dei protagonisti di un
Teatro della salute ad avvicendarsi su queste pagine de
il manifesto - a partire da oggi e fino al 29 agosto.
Che appartengano da millenni all'armamentario terapeutico
dell'umanità, come la fitoterapia, la medicina tradizionale
cinese, l'Ayurveda o la medicina tibetana, o che vengano
utilizzati in alcune aree del mondo - è il caso della medicina
maya quiché o delle terapie adorcistiche in Maghreb o del
sistema dei guaritori Sérer - o rientrino nell'area delle
discipline specifiche, come l'etnopsichiatria, nessuno di essi
ha comunque valore archeologico perché utilizzati ancora oggi
e raccontati dalle voci di medici e ricercatori che spinti dal
richiamo di conoscenza rivolto loro da altri mondi, hanno
voluto raccogliere nelle loro vicende umane e professionali il
solco di una doppia tradizione.
Sprovvisti delle icone
della potenza, senza per questo rinunciare all'efficacia,
questi saperi potrebbero - è questa l'interrogazione che
affianca il nostro percorso - mitigare le promesse
trionfalistiche della terapeutica biotech declinando
l'esercizio della salute all'interno di contenitori sociali e
di cultura, piuttosto che imboccare la direzione inversa
criticata da Callahan. Forse, ma a patto di non snaturarsi
completamente o perdere la fisionomia strada facendo,
sconfitti o fagocitati da poli attrattivi più forti di
loro. Gli eventi storici che hanno offerto a questi sistemi
l'occasione per veicolare elementi di anomalia all'interno
della ragione occidentale sono diversi e non sempre omogenei:
certo deve essere ricordato quel cambiamento di politiche
sanitarie annunciato dall'Organizzazione mondiale della Sanità
già nel 1975 con uno studio sui sistemi di medicina
tradizionale. Nel 1978, dalla cittadina russa di Alma Ata, fu
promulgata la risoluzione "Salute per tutti entro il 2000" con
la quale gli stati membri si impegnavano a valorizzare e
rafforzare le risorse di salute disponibili - e tra queste le
medicine tradizionali e i guaritori - per consentire agli
abitanti della terra il raggiungimento di un dignitoso livello
di salute entro la fine del millennio. Al di là degli esiti
non sempre felici di cui questo evento si è rivelato
generatore negli anni - allo scoccare del 2000 si è dovuto
constatare il mancato raggiungimento non solo di una salute
accettabile, ma perfino minima nei paesi del Sud del mondo -
la risoluzione poneva le basi per la promozione e lo sviluppo
delle medicine tradizionali, utilizzate, in paesi come
l'Africa, dall'80% della popolazione; incoraggiava poi lo
studio dei farmaci tradizionali e facilitava la
professionalizzazione di quei gruppi di guaritori che da
secoli se ne tramandavano i saperi. Piuttosto che di
integrazione dei sistemi tradizionali con la medicina
ortodossa si cominciò in quegli anni a parlare di
"articolazione" tra due ambiti, concetto di cui chi scrive ha
ricevuto una significativa delucidazione nel corso di un
incontro con Arouna Keita, farmacista responsabile del Centro
di medicina tradizionale di Bamako in Mali, oggi scomparso,
attraverso l'indicazione ostensiva di un braccio alzato e a
partire dal quale "si articolava" la mano. L'intervento
dell'Oms favoriva, contemporaneamente, la valorizzazione di
quei metodi di provata efficacia sul piano empirico nati nel
solco del vitalismo e delle filosofie della natura europee:
omeopatia, floriterapia, naturopatia, ecc. che, dopo alterne
vicende di visibilità e riconoscimenti, in quegli anni
ricevevano negli ambienti della medicina ortodossa la
considerazione di pratiche destinate al più alla cura dei
disturbi psicosomatici. Uno dei rari studi sociologici
sulle medicine non convenzionali - il lavoro della finlandese
Vaskilampi, realizzato nell'ambito di un progetto dell'Unione
Europea - sottolinea come al fenomeno delle medicine
non-convenzionali si possa guardare come ad un vero e proprio
movimento sociale sviluppatosi nel cuore delle società e dei
processi storici post-moderni in cui verità e strutture
conoscitive subiscono indebolimenti e dissipazioni. In tempi
sociali in cui soggettività ed esperienza vengono alla
ribalta, parallelamente alla disintegrazione delle strutture
sociali, movimenti laici come il femminismo, gruppi ecologisti
e new age hanno proposto una possibilità diversa di
partecipazione sociale favorendo l'avvento di nuovi stili di
vita. Gli apparati teorici di riferimento offerti sono
spesso deboli, ma consentono rapidi spostamenti e
sovrapposizioni di livelli e discorsi, oltre ad una più agile
contrattazione dei terapisti con clienti e mercato, e
determinano nel corso di un ventennio lo sviluppo di un
fenomeno quasi completamente sganciato dal controllo
statale. E' evidente che un paesaggio così variegato e
continuamente in divenire finisce anche col presentare falsi
miti e nascondere involontariamente dietro ad essi le sue
istanze più significative. Basterà citare l'ambiguità di
alcuni concetti di sapore romantico che si trovano qui
abbinati alla medicina: ad esempio "naturale" e "dolce", due
aggettivi spesso rivendicati per le medicine non
convenzionali. E' ambigua e sfuggente infatti nel nostro tempo
la declinazione del concetto di naturalità lì dove non può
esserne giustificata l'attribuzione con l'utilizzo di sostanze
provenienti dal regno animale, vegetale, minerale - comunque
composte in preparati che richiedono interventi di
trasformazione (cioè arte-fatti). Se questo fosse il
discrimine bisognerebbe accogliere all'interno della categoria
nuovissimi farmaci biotecnologici nella categoria. Non si può
ignorare come le elaborazioni teoriche e la sensibilità
estetica postmoderna contribuiscano alla fissazione di
concetti di natura più allargati e sfumati, quale quello
proposto dallo psicoanalista James Hillman quando osserva che
"si possono imitare i processi della natura, anziché i
prodotti di quei processi, lo stile della natura, anziché le
cose; come direbbero i filosofi, la natura naturans
anziché naturata." (Fuochi blu). L'imitazione
dei processi della natura è proprio ciò verso cui tendono in
questo tempo le biotecnologie. Allo stesso modo potrebbe
essere imbarazzante e addirittura poco fruttuoso definire
"dolce" un intervento di agopuntura. Secondo recentissime
osservazioni che impiegano la tomografia ad emissione di
positroni, non ci si può meravigliare nel constatare
l'induzione di un efficacissimo effetto analgesico, e forse a
breve, di riscontrare i fondamenti scientifici che fanno sì
che questa tecnica, nell'arco di poche sedute, induca una
remissione di quadri patologici severi. Allo stesso modo non
si potrebbero definire miti le pratiche depurative
dell'Ayurveda quando utilizza emetici e lassativi. Certo è
possibile fare riferimento alle modalità non-violente con cui
queste tecniche globalmente promuovono la guarigione
stimolando la risposta dell'organismo. Ma per valorizzare
queste è necessario forse scoperchiare altri scenari. Le
medicine tradizionali e accanto ad esse molti dei sistemi
non-convenzionali nati in Occidente sembrano rivolgersi al
paziente come ad una entità biologica, emotiva e spesso
spirituale che, traghettando nello spazio limitato e
imprevedibile dell'esistenza, produce eventi di crisi spesso
leggibili come adattamento ed elaborazione di fasi storiche.
E' il tema che attraversa la filosofia omeopatica nella sua
proposta di un farmaco individualizzato o l'importanza del
mizar, il temperamento, nella medicina greco araba. Nel
caso di una disciplina come l'etnopsichiatria - di cui
anticipiamo lo scritto di Piero Coppo, domani su queste pagine
- questa muove nei suoi esordi da intenti classificatori per
pervenire negli esiti contemporanei all'implosione della
nosografie e alla rivendicazione dell'inesistenza dell'essere
umano generico: "Gli esseri umani reali sono necessariamente
specifici, locali" è la sfida di Tobie Nathan.
In
questa accettazione dell'individuale, dello specifico, di ciò
che è culturalmente caratterizzato questi sistemi sembrano
accogliere la strutturalità dell'evento di crisi come parte
integrante del ciclo vitale degli individui in seno ai gruppi
umani. E nel far questo reinscrivono le biografie individuali
in orbite cosmogoniche più vaste e mitografie specifiche,
annodando i fili tra mondi visibili e invisibili la cui
violazione o mancato riconoscimento può costituire, come
presso le confraternite Gnawa del Maghreb, l'origine di
disturbi. Questi sistemi producono modelli di terapie
ecologiche perché sono dotati di competenze per il
riconoscimento delle alterazioni strutturali dell'ambiente nel
micro e nel macro. L'influenza potenziale di questi sistemi
di salute sul nostro sembra consistere nella suggestione di
modelli nei quali l'intervento medico sia limitato e altissima
l'attenzione alle dimensioni sociali del vivere: l'ambiente,
il nascere, il crescere, il lavorare, l'essere con altri. In
cui la capacità di fronteggiare il dolore, l'infermità e la
preparazione alla morte rientrano comunque nei compiti di
responsabilità dell'individuo adulto. Un tale modello
curiosamente coincide con la III possibile via della Medicina
suggerita dal bioeticista Callahan quando alla promessa
illusoria di una restitutio ad integrum dal male
(I via) o alla rassegnata convivenza con le malattie croniche
(II) preferisce una medicina equa e pubblica che moderi le sue
aspirazioni verso "l'infinitamente migliore" e promuova
l'assunzione di responsabilità degli individui nei confronti
della propria salute. E' evidente che il piano di fruizione
dei modelli di salute nel nostro tempo non può che
rappresentare un livello di costante contaminazione,
traduzione e "intercessione" nel quale nessun modello esiste
oramai più nell'originalità, al di fuori di un gioco di
specchi. Potremmo ipotizzare che la posta in gioco sia, per i
saperi tradizionali vedere dimostrati i propri fondamenti e la
propria efficacia al prezzo della perdita dei miti di
creazione. Da questo incontro potrebbe scaturire, però, per le
società occidentali scientifiche e tecnocratiche l'occasione
di riconoscere i propri modelli di sviluppo erronei e
smascherare quella presunta ingenuità che vorrebbe
contrabbandare per naturali ed innocue certe nostre visioni
del
mondo.
(1/continua)
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