14 Agosto 2001
 
 
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Il corpo malato dell'occidente
Il trionfalismo della medicina moderna di fronte al diffondersi di antichi sistemi di cura e di nuove prospettive terapeutiche. Una sfida da raccogliere per arrestare la forsennata ricerca del benessere ad ogni costo e per reintegrare l'infermità e la morte in una visione più complessa della vita ELISABETTA CONFALONI


" L' Hypocondria universalis ha varianti nosologiche. Si dispiega quando il problema della morte diventa assillante. Quando la conoscenza della finitezza s'innerva su una coscienza alterata della temporalità: questa sembra accellerarsi, come nelle fasi di decadenza, o accrescere le chances di vita, modificare gli scarti tra classi d'età, mummificare, trasformare l'involucro, l'apparenza prolungare la giovinezza, confondere, - ed è ciò che avviene sotto i nostri occhi post-moderni". L'immagine della manutenzione ipocondriaca del presente, presa in prestito dallo sguardo di un antropologo contemporaneo (Cfr. Remo Guidieri, La manutenzione, ne Il sapere della guarigione) si porge, in un luccichio semantico, a interpretare la forsennata ricerca della salute-benessere posta in atto dalle nostre società. Trend emergente, oggetto denso nel cuore delle indagini sociali, sembrerebbe che di un tale feticcio siamo impossibilitati a disfarci.

Se ne preoccupa tra altri Daniel Callahan, tra i fondatori del Centro di studi internazionali di Hastings: nel libro La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna (Baldini & Castoldi 2000) l'eminente studioso dei rapporti tra medicina ed etica, sferra una poderosa critica alle strategie trionfalistiche della medicina che, negli ultimi anni, hanno incoraggiato la crescita di smisurate aspettative degli abitanti del pianeta rispetto alle possibilità di efficacia delle terapie con la complicità del marchingegno dei mezzi di comunicazione.
Un simile vizio alimentato dalla comunità scientifica avrebbe prodotto alcuni esiti pericolosi: da una parte l'impossibilità per la tecnica di rinunciare alla volontà di dominio sulla natura, e con essa l'incapacità di sottomettersi alla fisiologia, fissando l'infermità e la morte come difetti biologici da eliminare piuttosto che passaggi da integrare in una visione composita della vita. Una versione moderna del peccato di hybris dell'antichità. Ulteriore conseguenza: la ridefinizione del luogo della medicina in cui avrebbero trovato riparo una gamma di problemi sociali come l'abuso di sostanze o la violenza, un tempo estromessi dal paesaggio della terapia medica. Si tratterebbe, per Callahann, dell'erronea collocazione di tematiche significative della modernità nella posticcia cornice della medicina, all'ombra dell'illusione che spaccia il tentativo quasi religioso di "migliorare la propria salute e il proprio corpo" con "il segreto del significato della vita".
Le figure dell'eccesso disegnate da Callahan si stagliano, in verità, sull'orizzonte di un consumismo dello star-bene che oscura, omologandoli con la sua ottusa e strabordante offerta, modelli della salute e della cura. Scaturiti talvolta da processi teorici e sociali di rara complessità nel cuore di un Occidente divenuto l'altrove di flussi di migranti senza più territorio, tali modelli sono ormai depositati nel nostro tempo. E' il caso della diffusione in Europa e negli Stati Uniti della conoscenza, quando non addirittura dell'utilizzo di sistemi medici o dei dispositivi di salute di altre culture.

Sfrondata la facciata consumistica della domanda di salute, assistiamo all'emersione di nuclei sapienziali di sistemi antichi accanto a prospettive terapeutiche più recenti come l'Omeopatia, a veri e propri "saper fare", come l'Etnopsichiatria sviluppatisi all'interno dei recinti di discipline solo formalmente delimitate grazie ai processi di contaminazione informale all'opera tra le culture. Tali sistemi, fortemente contrassegnati da valenze culturali, si incrociano oggi con i portati più ortodossi della medicina moderna, talvolta proponendosi come percorsi paralleli, integrativi oppure suscitando interrogazioni, volontà di assimilazione e di confronto. E' necessario qui ricordare che, per la medicina scientifica, il contatto con altre culture ha avuto luogo dopo che l'innesto, relativo agli ultimi 50 anni, di discipline complementari sul fusto della scienza occidentale aveva modificato profondamente il rapporto di questa con gli oggetti della conoscenza. Con il contributo delle etnoscienze sono stati redatti dizionari, studiate classificazioni, decifrati sistemi di pensare e agite la salute, la malattia e la cura, mentre psicologia, immunologia e psicosomatica hanno ripristinato quel circuito che fa dell'organismo un totum, interrotto da Cartesio con l'edificazione del dualismo res cogitans - res extensa.
Saranno allora alcuni dei protagonisti di un Teatro della salute ad avvicendarsi su queste pagine de il manifesto - a partire da oggi e fino al 29 agosto. Che appartengano da millenni all'armamentario terapeutico dell'umanità, come la fitoterapia, la medicina tradizionale cinese, l'Ayurveda o la medicina tibetana, o che vengano utilizzati in alcune aree del mondo - è il caso della medicina maya quiché o delle terapie adorcistiche in Maghreb o del sistema dei guaritori Sérer - o rientrino nell'area delle discipline specifiche, come l'etnopsichiatria, nessuno di essi ha comunque valore archeologico perché utilizzati ancora oggi e raccontati dalle voci di medici e ricercatori che spinti dal richiamo di conoscenza rivolto loro da altri mondi, hanno voluto raccogliere nelle loro vicende umane e professionali il solco di una doppia tradizione.

Sprovvisti delle icone della potenza, senza per questo rinunciare all'efficacia, questi saperi potrebbero - è questa l'interrogazione che affianca il nostro percorso - mitigare le promesse trionfalistiche della terapeutica biotech declinando l'esercizio della salute all'interno di contenitori sociali e di cultura, piuttosto che imboccare la direzione inversa criticata da Callahan. Forse, ma a patto di non snaturarsi completamente o perdere la fisionomia strada facendo, sconfitti o fagocitati da poli attrattivi più forti di loro.
Gli eventi storici che hanno offerto a questi sistemi l'occasione per veicolare elementi di anomalia all'interno della ragione occidentale sono diversi e non sempre omogenei: certo deve essere ricordato quel cambiamento di politiche sanitarie annunciato dall'Organizzazione mondiale della Sanità già nel 1975 con uno studio sui sistemi di medicina tradizionale. Nel 1978, dalla cittadina russa di Alma Ata, fu promulgata la risoluzione "Salute per tutti entro il 2000" con la quale gli stati membri si impegnavano a valorizzare e rafforzare le risorse di salute disponibili - e tra queste le medicine tradizionali e i guaritori - per consentire agli abitanti della terra il raggiungimento di un dignitoso livello di salute entro la fine del millennio. Al di là degli esiti non sempre felici di cui questo evento si è rivelato generatore negli anni - allo scoccare del 2000 si è dovuto constatare il mancato raggiungimento non solo di una salute accettabile, ma perfino minima nei paesi del Sud del mondo - la risoluzione poneva le basi per la promozione e lo sviluppo delle medicine tradizionali, utilizzate, in paesi come l'Africa, dall'80% della popolazione; incoraggiava poi lo studio dei farmaci tradizionali e facilitava la professionalizzazione di quei gruppi di guaritori che da secoli se ne tramandavano i saperi.
Piuttosto che di integrazione dei sistemi tradizionali con la medicina ortodossa si cominciò in quegli anni a parlare di "articolazione" tra due ambiti, concetto di cui chi scrive ha ricevuto una significativa delucidazione nel corso di un incontro con Arouna Keita, farmacista responsabile del Centro di medicina tradizionale di Bamako in Mali, oggi scomparso, attraverso l'indicazione ostensiva di un braccio alzato e a partire dal quale "si articolava" la mano.
L'intervento dell'Oms favoriva, contemporaneamente, la valorizzazione di quei metodi di provata efficacia sul piano empirico nati nel solco del vitalismo e delle filosofie della natura europee: omeopatia, floriterapia, naturopatia, ecc. che, dopo alterne vicende di visibilità e riconoscimenti, in quegli anni ricevevano negli ambienti della medicina ortodossa la considerazione di pratiche destinate al più alla cura dei disturbi psicosomatici.
Uno dei rari studi sociologici sulle medicine non convenzionali - il lavoro della finlandese Vaskilampi, realizzato nell'ambito di un progetto dell'Unione Europea - sottolinea come al fenomeno delle medicine non-convenzionali si possa guardare come ad un vero e proprio movimento sociale sviluppatosi nel cuore delle società e dei processi storici post-moderni in cui verità e strutture conoscitive subiscono indebolimenti e dissipazioni. In tempi sociali in cui soggettività ed esperienza vengono alla ribalta, parallelamente alla disintegrazione delle strutture sociali, movimenti laici come il femminismo, gruppi ecologisti e new age hanno proposto una possibilità diversa di partecipazione sociale favorendo l'avvento di nuovi stili di vita.
Gli apparati teorici di riferimento offerti sono spesso deboli, ma consentono rapidi spostamenti e sovrapposizioni di livelli e discorsi, oltre ad una più agile contrattazione dei terapisti con clienti e mercato, e determinano nel corso di un ventennio lo sviluppo di un fenomeno quasi completamente sganciato dal controllo statale.
E' evidente che un paesaggio così variegato e continuamente in divenire finisce anche col presentare falsi miti e nascondere involontariamente dietro ad essi le sue istanze più significative. Basterà citare l'ambiguità di alcuni concetti di sapore romantico che si trovano qui abbinati alla medicina: ad esempio "naturale" e "dolce", due aggettivi spesso rivendicati per le medicine non convenzionali. E' ambigua e sfuggente infatti nel nostro tempo la declinazione del concetto di naturalità lì dove non può esserne giustificata l'attribuzione con l'utilizzo di sostanze provenienti dal regno animale, vegetale, minerale - comunque composte in preparati che richiedono interventi di trasformazione (cioè arte-fatti). Se questo fosse il discrimine bisognerebbe accogliere all'interno della categoria nuovissimi farmaci biotecnologici nella categoria. Non si può ignorare come le elaborazioni teoriche e la sensibilità estetica postmoderna contribuiscano alla fissazione di concetti di natura più allargati e sfumati, quale quello proposto dallo psicoanalista James Hillman quando osserva che "si possono imitare i processi della natura, anziché i prodotti di quei processi, lo stile della natura, anziché le cose; come direbbero i filosofi, la natura naturans anziché naturata." (Fuochi blu). L'imitazione dei processi della natura è proprio ciò verso cui tendono in questo tempo le biotecnologie.
Allo stesso modo potrebbe essere imbarazzante e addirittura poco fruttuoso definire "dolce" un intervento di agopuntura. Secondo recentissime osservazioni che impiegano la tomografia ad emissione di positroni, non ci si può meravigliare nel constatare l'induzione di un efficacissimo effetto analgesico, e forse a breve, di riscontrare i fondamenti scientifici che fanno sì che questa tecnica, nell'arco di poche sedute, induca una remissione di quadri patologici severi. Allo stesso modo non si potrebbero definire miti le pratiche depurative dell'Ayurveda quando utilizza emetici e lassativi.
Certo è possibile fare riferimento alle modalità non-violente con cui queste tecniche globalmente promuovono la guarigione stimolando la risposta dell'organismo. Ma per valorizzare queste è necessario forse scoperchiare altri scenari. Le medicine tradizionali e accanto ad esse molti dei sistemi non-convenzionali nati in Occidente sembrano rivolgersi al paziente come ad una entità biologica, emotiva e spesso spirituale che, traghettando nello spazio limitato e imprevedibile dell'esistenza, produce eventi di crisi spesso leggibili come adattamento ed elaborazione di fasi storiche. E' il tema che attraversa la filosofia omeopatica nella sua proposta di un farmaco individualizzato o l'importanza del mizar, il temperamento, nella medicina greco araba. Nel caso di una disciplina come l'etnopsichiatria - di cui anticipiamo lo scritto di Piero Coppo, domani su queste pagine - questa muove nei suoi esordi da intenti classificatori per pervenire negli esiti contemporanei all'implosione della nosografie e alla rivendicazione dell'inesistenza dell'essere umano generico: "Gli esseri umani reali sono necessariamente specifici, locali" è la sfida di Tobie Nathan.

In questa accettazione dell'individuale, dello specifico, di ciò che è culturalmente caratterizzato questi sistemi sembrano accogliere la strutturalità dell'evento di crisi come parte integrante del ciclo vitale degli individui in seno ai gruppi umani. E nel far questo reinscrivono le biografie individuali in orbite cosmogoniche più vaste e mitografie specifiche, annodando i fili tra mondi visibili e invisibili la cui violazione o mancato riconoscimento può costituire, come presso le confraternite Gnawa del Maghreb, l'origine di disturbi. Questi sistemi producono modelli di terapie ecologiche perché sono dotati di competenze per il riconoscimento delle alterazioni strutturali dell'ambiente nel micro e nel macro.
L'influenza potenziale di questi sistemi di salute sul nostro sembra consistere nella suggestione di modelli nei quali l'intervento medico sia limitato e altissima l'attenzione alle dimensioni sociali del vivere: l'ambiente, il nascere, il crescere, il lavorare, l'essere con altri. In cui la capacità di fronteggiare il dolore, l'infermità e la preparazione alla morte rientrano comunque nei compiti di responsabilità dell'individuo adulto. Un tale modello curiosamente coincide con la III possibile via della Medicina suggerita dal bioeticista Callahan quando alla promessa illusoria di una restitutio ad integrum dal male (I via) o alla rassegnata convivenza con le malattie croniche (II) preferisce una medicina equa e pubblica che moderi le sue aspirazioni verso "l'infinitamente migliore" e promuova l'assunzione di responsabilità degli individui nei confronti della propria salute.
E' evidente che il piano di fruizione dei modelli di salute nel nostro tempo non può che rappresentare un livello di costante contaminazione, traduzione e "intercessione" nel quale nessun modello esiste oramai più nell'originalità, al di fuori di un gioco di specchi. Potremmo ipotizzare che la posta in gioco sia, per i saperi tradizionali vedere dimostrati i propri fondamenti e la propria efficacia al prezzo della perdita dei miti di creazione. Da questo incontro potrebbe scaturire, però, per le società occidentali scientifiche e tecnocratiche l'occasione di riconoscere i propri modelli di sviluppo erronei e smascherare quella presunta ingenuità che vorrebbe contrabbandare per naturali ed innocue certe nostre visioni del mondo.

(1/continua)

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