05 Luglio 2001
 
 
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Un megacampo di problemi
Napoli, convivenza difficile nel villaggio rom costruito dal comune
Da Pristina... ...a Secondigliano. La famiglia Dobreva costretta poi a trasferirsi a Milano. Un appello delle associazioni al sindaco MARIELLA PARMENDOLA - NAPOLI

Sono stati costretti a fuggire da Napoli. Troppo insistenti le minacce di morte, le liti e i soprusi per continuare a dividere la vita con gli altri rom. In quel campo, inaugurato un anno fa alle spalle del carcere di Secondigliano, negli ultimi mesi si sono scatenate tra i 750 rom una lunga serie di schermaglie, regolarmente vinte dal gruppo dei cristiano-ortodossi, la maggioranza in quella babele di etnie, che perciò riesce facilmente a dettare legge.
Per la famiglia Dobreva, una comunità musulmana di una cinquantina di persone, la fuga ai primi di giugno è una scelta obbligata e non è la prima volta, la storia si ripete. Era stata la guerra ad indurli a lasciare Pristina agli inizi degli anni novanta e a trasferirsi nella periferia napoletana. La prima sistemazione a Secondigliano, in baracche senza acqua, luce e servizi igienici. Le stesse baracche di altri piccoli campi vicini al loro, occupati da un migliaio di rom. Così comincia la difficile convivenza con gli abitanti di uno dei quartieri più degradati di Napoli, che tocca il momento più duro due anni fa, quando un rom investe una ragazza su un motorino. Un incidente mortale che determinerà l'inizio di una vera e propria caccia allo zingaro.
Poi la tensione cala e il salto di qualità avviene il 26 luglio scorso, con il trasferimento dei rom dal campo abusivo di Scampia nel villaggio autorizzato di Secondigliano, il primo in Campania. Salutato dall'amministrazione comunale di centrosinistra come esempio di civiltà, il megacampo è dotato delle strutture che, fino a quel momento, i rom non avevano avuto. Ma il tenere insieme forzatamente persone di culture e religioni diverse produce ben presto le prime crepe in quell'esperienza, al punto da costringere alla fuga i cinquanta musulmani. Obbligati a una scelta difficile, pagata con la perdita del lavoro, degli amici, della casa. Ora la famiglia Dobreva vive per strada a Milano, un ritorno al passato, alla precarietà nella quale si trovavano non appena sono arrivati nel nostro Paese. "Abbiamo rivolto un appello al sindaco e alle altre istituzioni perché garantiscano le condizioni necessarie a un rientro dei Dobreva nella città nella quale stavano costruendo il loro futuro", spiega Ciro del Compare, un'associazione di volontari che ha indirizzato una lettera aperta al sindaco Rosa Russo Iervolino. Un appello sottoscritto già da molte associazioni: Legambiente, Mani Tese, la cooperativa del commercio Equo e solidale 'O pappece, Attac e ancora dal partito della Rifondazione comunista e dai giovani comunisti di Napoli, dalla Cgil Nidil, da diversi professori universitari. Tutti hanno chiesto un incontro con il sindaco per illustrare le loro proposte.
La vicenda della famiglia Dobreva ha dimostrato, infatti, quanto i giovani del Compare sostengono da tempo. Si chiedono i volontari dell'associazione napoletana: "Vogliamo considerare quest'ultima come una delle tante storie di zingari che, si sa, 'sono di carattere difficile'?". "Sarebbe semplice, ma non è così - risponde Ciro - La verità è che la soluzione del megacampo non è quella giusta, si è creato un ghetto senza le garanzie minime per vivere dignitosamente".
Se è vero che i rom hanno ottenuto i servizi igienici, l'acqua, la luce, il gas, hanno, però, dovuto anche pagare tutto ciò con l'isolamento dal resto della città. Nelle vicinanze del villaggio d'accoglienza non ci sono case e negozi, la fermata dell'autobus è a due chilometri di distanza, sulla strada nessun segnale indica la presenza di un centro abitato e in meno di sei mesi il bilancio è di tre incidenti stradali, con due feriti e un morto.
Entrando nel campo si viene assaliti dalla puzza che esce dai tombini, in ogni container, di quaranta metri quadri, vivono tra le otto e le nove persone mentre i tralicci dell'Enel, che lo circondano, producono onde elettromagnetiche di intensità superiore a quella stabilita dalla legge. Una brutta fotografia, che ha spinto i firmatari dell'appello ad avanzare la loro proposta: "L'esperienza del megacampo va superata per favorire l'integrazione dei rom con gli altri cittadini. Un obiettivo raggiungibile individuando soluzioni abitative per nuclei di 50 persone al massimo e magari in case simili a quelle in cui viviamo noi".

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