Immigrazione e carcere
Davide Petrini - Università di Torino

 

Vorrei affrontare, in questo mio intervento, un problema un po’ particolare, certamente meno dibattuto tra tutti quelli che attengono al tema della devianza, della criminalità e soprattutto del controllo sociale dei cittadini extracomunitari: la loro situazione penitenziaria.

Sappiamo bene che vi è un gran discorrere, a livello scientifico oltre che politico e giornalistico, sulla criminalità degli stranieri e sull’aumento dei tassi di incarcerazione; vi sono e si contrappongono, poi, spiegazioni del fenomeno molto diverse tra loro: alcuni mettono addirittura in discussione il dato che mostrerebbe un aumento della criminalità rispetto ai cittadini italiani; altri, invece, ne ricollegano le cause alla situazione di disagio in cui gli stranieri (soprattutto se irregolari o clandestini) sono costretti a vivere; altri ancora denunciano il verificarsi di arresti e condanne per reati c. d. «paradossali», cioè commessi al solo fine e scopo di regolarizzarsi e di poter emergere dalla clandestinità, verso un vita pienamente compatibile con le regole sociali; altri, infine, tirano in ballo la maggiore «visibilità» sociale degli stranieri, accompagnata da una maggiore attenzione nei loro confronti da parte delle agenzie di controllo sociale, ed in modo particolare delle forze di polizia.

Ebbene, vorrei provare a tralasciare queste questioni pur così importanti, che possono essere affrontate con maggiore preparazione e competenza da altri interventi, per riflettere sul tratto terminale della vicenda processuale e penale degli stranieri condannati per aver commesso un reato: il loro trattamento penitenziario.

A fronte, infatti, della già citata scarsa attenzione che viene prestata, anche nel dibattito sociale e politico, alla fase dell’esecuzione penale (disinteresse, peraltro, che avvolge un po’ tutte le categorie di detenuti, compresi quelli italiani, finché non si verifica un fatto grave che coinvolge un condannato «eccellente», o un suicidio non smuove, per qualche giorno, l’attenzione dei media) mi sembra che vi siano molte buone ragioni per riflettere sulla condizione di detenzione degli stranieri extracomunitari.

Innanzitutto, anche se si tratta di un elemento fin troppo banale, l’aumento dei tassi di incarcerazione (che costituisce un elemento certo, meno controvertibile rispetto all’aumento dei reati commessi da stranieri) sta producendo una profonda modificazione nella composizione sociale del carcere: oggi, in molti dei nostri istituti penitenziari, entrano quotidianamente più stranieri che italiani, e tra pochi mesi la percentuale dei primi sarà superiore al cinquanta per cento anche per ciò che riguarda le presenze in valore assoluto.

In secondo luogo, la presenza di cittadini che parlano lingue spesso incomprensibili ai loro custodi, che hanno abitudini e usanze (religiose, alimentari, di culto e così via) molto diverse dalle nostre, che manifestano tra loro problemi di convivenza e di coabitazione, pone quotidianamente enormi difficoltà di gestione del carcere. Si potrebbe azzardare che oggi, se si escludono le questioni relative al trattamento degli imputati e condannati di mafia (si tratti di collaboratori di giustizia o di pericolosi criminali che hanno rivestito un ruolo predominante all'interno di organizzazioni criminali) il vero problema, per l'amministrazione penitenziaria, riguarda i detenuti stranieri: essi difficilmente possono essere tenuti tutti insieme, in apposite sezioni, perché la custodia, a Torino, per esempio, non accetta di montare la guardia in un braccio dove nessuno è in grado di capire cosa si dicono e cosa decidono di fare i detenuti; d’altro canto, dividere gli stranieri in ogni sezione può rendere particolarmente difficile gestire le loro esigenze (dalla preghiera per i musulmani, ai particolari bisogni di carattere alimentare), e rischia, inoltre, nella drammatica emergenza di sovraffollamento che coinvolge tutti i nostri istituti penitenziari, di produrre inevitabili atteggiamenti di rifiuto, di chiusura e di contrapposizione negli altri detenuti.

Onestamente, ma con grande rammarico, la direzione di un carcere come «Le Vallette» di Torino deve ammettere di essere in grande difficoltà, dal momento che le stesse esigenze e i bisogni di un'intera e cospicua categoria di detenuti non sono neppure chiaramente individuabili.

E proprio a tale proposito si pone una terza ed ultima ragione di interesse del nostro problema: l’ordinamento penitenziario vigente, frutto della riforma del 1975 e dei successivi interventi (dalla legge «Gozzini» del 1986 sino alla recentissima legge «Simeone» dello scorso maggio 1998) è stato pensato, sia per quanto concerne i presupposti e le modalità del trattamento che per quanto attiene alle misure alternative alla detenzione, per i detenuti italiani e, come vedremo nel dettaglio, non si presta assolutamente ad affrontare in maniera appena degna le esigenze di imputati e condannati stranieri. Ne deriva una situazione che, ad ascoltare coloro che maggiormente sono coinvolti in attività di sostegno e di volontariato in carcere, viene descritta come una sorta di totale abbandono a se stessi, rispetto alle iniziative interne al carcere, nei confronti delle occasioni di contatto con la società libera e nelle opportunità di accesso a misure extra murarie.

 

La necessità di ricerche empiriche

Lo stesso obiettivo di predisporre interventi mirati all’interno delle strutture penitenziarie rischia di essere paralizzato dall’assenza di dati e nozioni precise sulle caratteristiche di questa anomala, e relativamente nuova fascia di popolazione penitenziaria. Al di là del dato numerico, è difficile capire quale sia la loro situazione giuridica, legata alla posizione di regolarità o di irregolarità; quanti siano definitivi, in attesa di giudizio, appellanti e ricorrenti; quali i titoli di reato per i quali vengono arrestati o condannati; quali gli scaglioni di pena inflitta (ad esempio: 1 mese, 6 mesi – 1 anno; 1-3 anni; 3-5 anni; 5-10 anni; 10-20 anni; più di 20 anni; ergastolo).

Soprattutto, sembra importante poter conoscere con una certa precisione non tanto la provenienza geografica (Marocco piuttosto che Tunisia, Albania o Romania) quanto i percorsi, le vie che li hanno portati da una certa zona del loro Paese sino in Italia, e poi in carcere. Dopo quanto tempo, da quando erano in Italia, sono stati arrestati: dopo anni e anni, passando attraverso le perdita del lavoro regolare, e poi quindi del permesso di soggiorno, dei documenti, del lavoro in nero, sino alla vendita di spugnette, di sigarette di contrabbando e poi di hashish? Oppure sono stati arrestati tre mesi dopo che erano sbarcati in Puglia, per gravi ed anche feroci fatti di sfruttamento della prostituzione?

Ecco, quando dico che sono ancora poche le ricerche, penso proprio a livelli di approfondimento di questo tipo, e credo che il contributo che esse potrebbero dare, anche più in generale al dibattito sulla criminalità degli stranieri, sarebbe davvero molto rilevante.

 

Alle radici della disparità di trattamento

 

Una considerazione è doverosa, e non credo che smentisca la precedente affermazione di non volermi confrontare con le cause dell’aumento dei tassi di incarcerazione dei detenuti stranieri. Penso sia inevitabile ammettere che tutti i diversi tentativi di spiegazione abbiano una qualche parte di verità. È certo che più stranieri, rispetto agli anni precedenti, commettono reati anche gravi. Ma è altrettanto certo che nei loro confronti esiste una maggior attenzione da parte delle istanze di controllo sociale; essi spesso sono tenuti in condizioni di disagio tali da rendere quasi inevitabile il compimento di reati «di sopravvivenza»; molte violazioni penali (delitti di falso, violazioni di pubblica sicurezza, e così via) attengono alla voglia e alla necessità di regolarizzarsi, di emergere, di cessare di essere un fantasma esposto al ricatto di datori di lavoro senza scrupoli o, peggio, delle organizzazioni criminali che cercano bassa manovalanza a buon mercato e ad alto rischio.

A ciò si aggiunga che, sotto il profilo processuale, le ricerche esistenti mostrano che lo straniero ha minori possibilità di accesso al diritto di difesa, cioè è tendenzialmente difeso meno bene. Per esempio: è molto più spesso contumace, anche indipendentemente dalla sua volontà (per problemi di irreperibilità), e non beneficia della sospensione condizionale per tale unica ragione, anche in presenza di violazioni di gravità modestissima, che lo porteranno però in carcere al primo contatto con l’autorità. Naturalmente, anche tale condizione di inferiorità incide sensibilmente sui tassi di incarcerazione e sulle presenza in carcere, e costituisce una inaccettabile fonte di differenziazione, di disuguaglianza e di ingiustizia – in una parola – nella gestione del controllo sociale e dello strumento penale in particolare.

Infine, per quanto concerne la condizione di imputato e l’utilizzo di misure cautelari, anche a non voler accettare la posizione di chi ritiene che, comunque, i nostri giudici siano più propensi a ricorrere alla custodia cautelare nei confronti degli stranieri anche a parità di gravità del reato e di pericolosità sociale (con un aggiramento dei rigorosi parametri di legge imposti dal nostro codice di procedura penale), è indubbio che le misure personali diverse dalla custodia in carcere (penso soprattutto agli arresti domiciliari, ma anche all’obbligo di firma, all’obbligo di soggiorno, e così via) presuppongono un inserimento sociale difficilmente immaginabile per uno straniero extracomunitario, che spesso ha difficoltà a dimostrare qual è il suo domicilio, e che non dispone, nella maggior parte dei casi, di una famiglia o di conviventi che, in qualche maniera, divengano garanti nei suoi confronti durante l’esecuzione della misura cautelare diversa dal carcere.

 

I limiti del vigente ordinamento penitenziario

Si è detto che il nostro ordinamento penitenziario non è in grado di affrontare quasi nessuna delle gravi questioni poste da una presenza massiccia di detenuti stranieri. Cerchiamo ora di dare conto di tale affermazione, e soprattutto di capire in quali ambiti si sostanzia il mancato rispetto di diritti fondamentali, riconosciuti in astratto dalla legge. O, se si preferisce, tentiamo di vedere come si concretizza la denunciata situazione di disparità di trattamento con i detenuti italiani.

È ben vero che l’art. 1, comma 2° ord. pen., nel fissare i principi generali del trattamento, esclude qualsiasi discriminazione in ordine a nazionalità e razza, ma ciò che viene in rilievo, nel nostro caso, è che non sono certo volute diseguaglianze di trattamento, imposte per la provenienza geografica, quanto piuttosto la difficoltà di garantire il rispetto dei diritti che lo stato di detenzione, pur comprimendo, non esclude del tutto. In questo senso, occorre cercare se nell’ordinamento penitenziario vi sono norme che possono offrire qualche spunto significativo.

Un primo aspetto importante concerne la libertà religiosa e le pratiche di culto: l’art. 26 ord. pen., infatti, oltre a garantire, in astratto, il diritto per tutti i detenuti a professare la propria fede, prevede la possibilità, per gli appartenenti a religioni diverse da quella cattolica, di ricevere, a richiesta, l’assistenza dei ministri di culto, nonché di celebrarne i riti.

Tale previsione è poi completata da alcune norme del regolamento di esecuzione: l’art. 55, che disciplina nello specifico le manifestazioni di professione religiosa, e l’art. 103, relativo alle modalità di ingresso in carcere dei ministri di culto diverso da quello cattolico.

Quanto meno sotto il profilo teorico, quindi, non si dovrebbero verificare discriminazioni in ordine alla fede religiosa. Il problema, peraltro, è soprattutto di natura organizzativa: una delle principali pratiche religiose dei mussulmani, infatti, quale il digiuno rituale durante il periodo del Ramadan – per rifarsi ad un solo esempio – esige che gli orari della distribuzione dei pasti siano completamente modificati, con la conseguenza che se la Direzione del carcere è sensibile al problema, è possibile praticare il digiuno rituale (come avviene a Torino), altrimenti no. Né esiste la possibilità di richiamare le citate norme dell’ordinamento o del regolamento penitenziario per ottenere il rispetto del diritto alle proprie pratiche religiose, in quanto tali norme sono state pensate esclusivamente nella prospettiva di contatti diretti e individuali con i ministri di culto, o al massimo di celebrazioni rituali o di pratiche di culto occasionali, per le quali, in ogni caso, nella prospettiva della prevalenza delle esigenze della custodia, il reg. es. impone (art. 55, comma 3°) il limite dell’ordine e della disciplina dell’istituto.

La libertà di pratiche religiose costituisce, almeno sulla carta, l’unico ambito garantito esplicitamente. È vero che esiste una norma apposita, nel regolamento di esecuzione, che concerne proprio i detenuti stranieri, ma essa si limita ad una previsione generalissima, di difficile concretizzazione. L’art. 33 reg. es., infatti, dispone che nei confronti degli internati e dei detenuti stranieri si debba tenere conto delle difficoltà linguistiche e delle differenze culturali. Sino a che punto si deve tenerne conto? E come? Attivando quali risorse e meccanismi? E quali conseguenze dirette possono derivare, quali ricadute sulla vita e sui diritti dei detenuti, dalla tenuta in conto di differenze e difficoltà di lingua e cultura? La legge non lo dice, finendo per rimanere lettera morta.

Esiste anche una seconda parte dell’art. 55, secondo il quale devono essere favorite le possibilità di contatto dei detenuti stranieri con le autorità consolari del loro Paese. Si tratta di una previsione davvero un po’ infantile, che forse potrà risultare utile se mai nelle nostre case circondariali dovesse finire un cittadino statunitense o svizzero. Ma per un detenuto proveniente dalla Tunisia o dalla Nigeria, il contatto con le autorità consolari pone problemi molto peculiari. Essi, infatti, spesso non vogliono tali contatti, nella speranza di evitare o ritardare eventuali provvedimenti di espulsione, che presuppongono il riconoscimento della propria identità personale e appartenenza nazionale, anche attraverso l’intervento dell’autorità consolare. E poi, anche indipendentemente da tale circostanza, cosa potrebbe fare il console del Marocco a Torino, per centinaia di detenuti del suo Paese, disseminati nelle carceri piemontesi? Forse sarebbe stato meglio prevedere che le autorità penitenziarie debbano, in ogni modo, favorire contatti con le famiglie di provenienza nei Paesi d’origine, e non con le autorità consolari!

Pur nella sua debolezza contenutistica, l’art. 55 reg. es. costituisce l’unica esplicita previsione in tema di detenuti stranieri. Troppo poco davvero, soprattutto alla luce dell’attuale composizione sociale del carcere. Vediamo allora quali previsioni della legge risultano inadeguate, a fronte delle esigenze dei detenuti stranieri.

Innanzitutto, l’art. 59 reg. es. disciplina le comunicazioni dell’ingresso in istituto, ma non prevede particolari modalità di rapporto e di informazione (ovviamente previo consenso del detenuto) con i familiari dello straniero che risiedano nel loro Paese d’origine.

Ancora, l’art. 64 reg. es. prevede che i detenuti siano messi a conoscenza delle principali norme dell’ordinamento penitenziario, del regolamento stesso e del regolamento interno. Per rendere effettiva una disposizione di questo tipo anche per i detenuti stranieri, non pare sufficiente disporre la traduzione dei testi di legge e regolamentari in alcune altre lingue, e neppure la presenza più o meno fissa di un interprete: almeno per le etnie maggiormente rappresentate, infatti, appare indispensabile introdurre dei veri e propri mediatori culturali, in grado di rendere meno drammatico il primo momento dell’ingresso in carcere.

Ma il problema più grave concerne certamente i colloqui con i familiari e la corrispondenza telefonica. Spesso, infatti, ai detenuti stranieri non è consentito di avere colloqui con i parenti sprovvisti di permesso di soggiorno dato che molte amministrazioni penitenziarie ritengono di non avere altro modo per accertare l’identità e la parentela. In questo modo, si privano detenuti di uno dei più elementari diritti, la cui violazione viene comprensibilmente percepita come particolarmente odiosa e grave, anche perché si inserisce su una complessiva situazione di abbandono, che costituisce la caratteristica fondamentale della vita dello straniero extracomunitario in carcere.

Ancora più complessa la questione della corrispondenza telefonica. Spesso si tratta dell’unico modo per avere contatti diretti con la famiglia, rimestata nel Paese d’origine. Il regolamento penitenziario prevede, all’art. 37, che i contatti telefonici abbiano un ruolo sussidiario nei confronti dei colloqui di persona con i familiari. Pertanto, proprio nel caso di un detenuto straniero con la famiglia all’estero, il telefono potrebbe, nei limiti e con le modalità indicate dal regolamento, costituire un mezzo di comunicazione fondamentale. Purtroppo, però, anche in questo caso si frappongono alcuni problemi pratici: come può la direzione accertare che l’utenza telefonica chiamata corrisponda proprio al parente del detenuto? Considerata la difficoltà di controllare tramite l’utilizzo di un elenco telefonico, e non avendo a disposizione un interprete che accerti l’identità dell’utenza chiamata, il diritto di contattare telefonicamente i propri parenti, impossibilitati a recarsi a colloquio, non può essere esercitato in alcun modo, quanto meno in molte realtà, dove ancora non si accetta l’autocertificazione del detenuto.

L’isolamento, l’esclusione e l’abbandono divengono la caratteristica fondamentale della vita del detenuto straniero che, non lo si dimentichi, è nella maggior parte dei casi molto giovane, arrestato o condannato per reati di modesta gravità, privo di una reale pericolosità sociale o di elevata capacità criminale.

 

Il trattamento penitenziario e le attività intramurarie

Anche le iniziative trattamentali intramurarie sono piuttosto carenti: alla difficoltà di immaginare interventi mirati (che «costano», in termini di mediatori, interpreti, soggetti qualificati e così via) credo si accompagni una certa rigidità dell’apparato burocratico e amministrativo, scarsamente in grado di indirizzare su piani diversi gli interventi che sono stati pensati e disciplinati per i detenuti italiani. Provo a fare un solo esempio: quello dei corsi di alfabetizzazione. I corsi di istruzione a livello di scuola dell’obbligo (come li chiama il regolamento di esecuzione all’art. 39) sono stati pensati non tanto per i detenuti analfabeti (viste le percentuali di alfabetizzazione nel nostro Paese), quanto piuttosto, sul modello delle 150 ore per i lavoratori, per far conseguire la licenza elementare, ma soprattutto media inferiore, a chi ne fosse privo. Ora, con la massiccia presenza di stranieri, si impone la necessità di alfabetizzare, nella nostra lingua, detenuti che possono avere gradi diversi di conoscenza scritta della loro lingua d’origine (alcuni sono analfabeti, mentre altri possono essere in possesso del diploma di scuola superiore) e differente padronanza (almeno orale) dell’italiano. È molto difficile riconvertire le nostre sezioni di scuola elementare verso tale obiettivo. Forse è impossibile, perché richiede competenze, abilità ed esperienze che non si inventano da un giorno all’altro. E allora bisognerebbe affiancare, in maniera del tutto autonoma, ai corsi di scuola dell’obbligo per italiani, anche modelli modulari di alfabetizzazione per stranieri, che partano dall’esperienza «esterna», sviluppatasi in questi anni nella società libera, per consentire un primo intervento «trattamentale» realmente efficace. Insisto su questo aspetto, perché un minimo di integrazione linguistica, scritta e parlata, costituisce, anche in carcere, il punto di partenza ineludibile per qualsiasi altro intervento. Dalla possibilità di comprendere quali siano i propri diritti e doveri, sino all’effettivo svolgimento di attività lavorative e professionali intramurarie, ogni ambito della vita carceraria impone, com’è ovvio, un minimo di possibilità di parlare, di ascoltare, di essere compresi.

 

L’accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari

Alcune recenti ricerche svolte da studenti della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino hanno dimostrato come le stesse domande di accesso ai benefici da parte di detenuti extracomunitari siano pochissime. Quelle poche, poi, vengono ovviamente decise sulla base della giurisprudenza «ordinaria» del Tribunale, ma il dato inquietante è la assoluta difficoltà di accesso allo stesso organo giudicante.

Le ragioni sono evidenti: da un lato, infatti, gioca un ruolo decisivo il minor godimento del diritto di difesa tecnica, strumento indispensabile per sapere (addirittura) quali misure si potrebbero richiedere e per presentare istanze che non si scontrino con un'inesorabile pronuncia di inammissibilità (perché presentate prima dei termini imposti dalla legge, o al di fuori dei requisiti fattuali imposti per ogni singola misura o beneficio).

Dall’altro, la totale carenza di risorse esterne, di carattere familiare, sociale e così via, costituisce un pregiudizio insanabile per l’accesso a qualsiasi beneficio extramurario, si tratti di un semplice permesso premio, che presuppone un’abitazione (meglio se di carattere familiare) dove poter controllare il detenuto, oppure della misura alternativa della semilibertà, che prevede tra i presupposti di fatto la possibilità di svolgere una regolare attività lavorativa.

La stessa esperienza, che ho appena iniziato, come esperto qualificato presso il Tribunale di Sorveglianza di Torino ha confermato, sia pure per ora a livello meramente epidermico, tali risultanze: i detenuti stranieri sono veramente i grandi assenti in sorveglianza, nonostante si tratti, come detto, di soggetti spesso caratterizzati da una pericolosità sociale relativa.

 

Conclusioni

L’attuale situazione penitenziaria dei detenuti stranieri si caratterizza per una forte diseguaglianza di trattamento, sotto diversi profili: dalle maggiori «opportunità» di ingresso, alla grande difficoltà di attivare proposte di intervento mirato (scolastiche, professionali e così via) idonee a rompere l’isolamento nel quale essi si trovano, sino al minimo accesso ai benefici penitenziari extramurari, passando per la scarsa opportunità di esercitare i diritti fondamentali di contatto (personale o telefonico) con i parenti.

E' una situazione complessa, nella quale intervengono diversi fattori, dalla inadeguatezza di una normativa che non è assolutamente in grado, nonostante risalga a non molti anni fa, di «riciclarsi» in un carcere la cui composizione sociale è cambiata troppo radicalmente, alla scarsa duttilità delle strutture amministrative penitenziarie, che non costituiscono certo, come insegna la loro storia, un’istituzione particolarmente agile ed attenta ai segnali che provengono dalla società libera.

Anche le forze sociali, politiche e di volontariato, sensibili ai problemi dei cittadini stranieri, non sembrano avere colto sino in fondo l’importanza delle questioni che si giocano all’interno del carcere, nella complessa relazione tra flussi migratori, clandestinità, marginalità, criminalità e controllo sociale. Forse non è ancora sufficientemente chiaro che questa relazione è fortemente e direttamente influenzata dalle dinamiche che all’interno del carcere si sviluppano e si amplificano, per cui, alla fine, la stessa situazione di devianza e di delinquenza finisce per essere alimentata da un processo perverso.

Vorrei allora concludere con due brevi considerazioni. La prima è che, oggi più che mai, e soprattutto per quanto riguarda i detenuti stranieri, il carcere finisce per essere una sorta di «polmone» di devianza e criminalità, in grado di drenare nuove forze sul mercato criminale, o quanto meno di acutizzare situazioni di disagio e di marginalità che non troveranno alcuna altra possibilità di inserimento sociale. L’esclusione e l’isolamento nel quale i detenuti stranieri sono oggi inevitabilmente tenuti è il miglior terreno di coltura per una futura ulteriore emergenza criminale, che giustifichi un nuovo, ancora più elevato allarme sociale e di conseguenza nuovi provvedimenti restrittivi, in una spirale inarrestabile.

Chi abbia davvero a cuore il problema della sicurezza dei cittadini, allora, e non ne faccia lo strumento più basso di propaganda politica d’accatto, a buon mercato, deve convincersi che un pezzo importante della battaglia per il rispetto della legalità si decide proprio in carcere, dove si gioca l’ultima, importante possibilità di ricuperare un terreno comune tra detenuti (stranieri) e società libera, un terreno comune di incontro, di confronto, di rispetto, che può costituire l’unica base per realizzare, domani, una convivenza pacifica e rispettosa della legalità.

La seconda e ultima considerazione muove proprio dal tema della legalità. Non è forse legittimo, pur senza nascondere le esigenze di controllo sociale legate alla criminalità degli stranieri, pensare che la disparità di trattamento cui essi sono soggetti, renda almeno parzialmente ingiusta la loro detenzione, priva di giustificazione per quella parte di pena che essi scontano in condizioni drammatiche di abbandono e isolamento, solo per non poter accedere, per difficoltà delle quali non hanno alcun responsabilità, ad alcun beneficio extramurario?

È possibile uscire almeno in parte dalla logica che identifica le esigenze di sicurezza dei cittadini con i meccanismi di esclusione e di neutralizzazione, destinate a produrre solo ulteriore disagio sociale, marginalità, devianza, criminalità?

Forse alla base della risposta negativa, che tuttora stiamo dando più o meno consapevolmente, vi è una considerazione molto triste, che cioè non valga la pena di impegnarsi, di cambiare la legge, e poi lo stato delle cose, per cittadini che non hanno futuro nel nostro Paese: sono nella quasi totalità irregolari o clandestini, dovranno (dovrebbero) essere tutti espulsi e allora perché preoccuparsi tanto?  

 

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