il manifesto - 29 Gennaio 2005
«Nata due volte» Auschwitz, pour mémoire
Nel «giorno della memoria» l'odissea di Settimia Spizzichini, sopravvissuta a Bergen Belsen, raccontata da Giandomenico Curi. Su History Channel Prisoner of Paradise, documentario su un film nazista diretto dell'ebreo Kurt Gerron, star i deportati di Terzin
ANDREA COLOMBO
Settimia Spizzichino compiva 24 anni il 15 aprile del `45, quando gli alleati la trovarono, nascosta in mezzo a una collina di cadaveri ma viva, a Bergen Belsen. C'era arrivato poco tempo prima, da Auschwitz. Era sopravvissuta alle «selezioni» che decimavano i prigionieri, agli esperimenti del dottor Mengele e dei suoi ricercatori che le avevano iniettato la scabbia e avevano fatto del suo corpo un'unica piaga, alla marcia nel gelo da Auschwitz a Bergen Belsen all'altro. Era sopravvissuta alla madre e alle sorelle. Era sopravvissuta alle altre 46 donne deportate dal ghetto di Roma ad Auschwitz. Settimia è morta nel 2000. Ha fatto in tempo a vedere l'istituzionalizzazione del giorno della Memoria per legge. E a preoccuparsene, lei che fin dal primo giorno nel campo aveva ripetuto, «Bisogna tornare per raccontare. Il mondo deve sapere», commentò l'istituzione del giorno della memoria con una punta di diffidenza: «Purché non diventi una delle tante ricorrenze».

Conosceva il pericolo. Lo aveva saputo evitare per decenni. Nelle visite con le scolaresche al campo dell'orrore. Nel suo libro Gli anni rubati. Nella testimonianza per la Shoah Foundation ripresa nel bellissimo film documentario di Giandomenico Curi Nata due volte, prodotto dal Comune e dalla provincia di Roma, dall'Università di Roma-tre, dall'Istituto Luce e dal Fondo di assistenza vittime della persecuzione nazista. Presentato nei giorni scorsi a Roma, lo si può vedere anche sul sito www.istitutoluce.it, cliccando alla voce Archivio storico.

Settimia, una non-intellettuale ad Auschwitz, popolana abituata a parlara con la tipica e particolare calata romanesca del ghetto, aveva il dono di restituire la dimensione quotidiana dell'incubo per come la aveva vissuta una normale ragazza italiana degli anni `40. Raccontava senza mai calarsi nella parte che il destino e la Storia avevano scritto per lei. Quello della Vittima. Un ruolo tanto schiacciante da soffocare l'individualità e annichilire la vicenda di ognuno, da livellare quei milioni di storie, ciascuna diversa dalle altre, nella cupa uniformità dell'orrore comune, della mattanza industrializzata. Quell'effetto pianificato e malignamente studiato dai burocrati del genocidio, Settimia lo spazzava via con la forza della sua vitalità e di una giovinezza conservata intatta nonostante i campi, e nonostante i decenni, il peso della memoria, la vecchiaia.

È ancora una ragazza, la vittima di soprusi atroci che ha saputo non perdersi nell'anonimato della Vittima, quella che, ormai quasi ottantenne racconta la sua storia nel film di Curi. E il regista, col materiale d'archivio dell'Istituto Luce, con le foto d'epoca, con gli spezzoni di film, sostiene alla perfezione il racconto con le immagini.

La storia di Settimia e il film che la riassume restituiscano così, ad esempio, la particolarità delle deportazioni italiane. Nonostante le feroci leggi razziali del `38, la situazione degli ebrei in Italia era stata diversa da quella dell'Europa occupata. Non avevano conosciuto l'escalation dell'orrore. Le deportazioni li colsero di sorpresa. «Non ci potranno mica ammazzare» dice la madre di Settimia alle figlie mentre i nazisti le portano via. E prima della doccia la saluta convinta di rivederla presto. È stata una discesa all'inferno repentina e improvvisa quella degli ebrei italiani.

Quando arrivò ad Auschwitz e fu immediatamente ucciso, Kurt Gerron aveva alle spalle la biografia più diversa da quella di Settimia che si possa immaginare. La ha raccontata giovedì su History Channel il film di Malcolm Clarke e Stuart Sender Prisoner of Paradise.

Tedesco, eroe di guerra, aveva calcato le scene e i set di Weimar con enorme successo: Il primo Mackie Messer nell'Opera da tre soldi di Brecht, un trionfo, il padrone del locale dove si esibisce Lola/ Marlene Dietrich nell'Angelo azzurro di Sternberg. Diventato regista di successo, Gerron viene cacciato dal set poche settimane dopo la vittoria nazista del `33 e inizia a vagabondare per l'Europa. Gli immigrati riparati a Hollywood li conosce tutti, i soldi per far partire Peter Lorre da Parigi li ha trovati lui. E da Hollywood Lorre gli chiede di raggiungerlo. Sternberg va addirittura a prenderlo in Olanda, dove si è rifatto una carriera. Ma Gerron rinvia, esita,contratta. Non è meno vitale di Settimia, ma la sua esuberanza è diversa: gli impedisce di accettare la realtà, di guardarla per quello che è sino alla fine.

La fine si chiama Theresienstadt (Terezin) e non è un lager. È un ghetto particolare: ci finiscono gli ebrei che si sono fatto un nome nell'arte o nella scienza, e gli si permette anche di esibirsi, di organizzare un cabaret. Gli abitanti muoiono lo stesso di fame e di malattia, ma è ugualmente l'unico ghetto che i nazisti, dopo averlo opportunamente truccato, possono mostrare al mondo. Il rappresentante dei paesi europei neutrali, cade nella trappola e probabilmente ci vuole cadere, e scrive un rapporto entusiasta. I tedeschi rilanciano ancora e decidono di girare un film. Obiettivo: descrivere Terzin come un paradiso. Interpreti: i deportati. Regista: Kurt Gerron.

Quel film, che non ha mai circolato, Gerron lo girò davero. Per salvarsi la vita. Perché gli anziani della comunità gli chiesero di farlo. Perché amava il suo lavoro ed era felice di tornare dopo anni su un set. Per la stessa esuberanza che gli aveva impedito di salvarsi riparando a Hollywood. Tra i sopravvissuti molti lo giustificano, qualcuno le definisce un traditore. Non era probabilmente né l'uno né l'altro. Come Settimia era una persona, non una vittima un deportato, un ebreo. Ambiguo e contradditorio. Vero e unico. La sua storia, così diversa da quella della ragazza del ghetto, arriva al medesimo approdo. Resituisce la verità di una tragedia che rischia di essere svuotata.