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da "Il
Manifesto"
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12 Gennaio 2001 Il cinema africano del terzo millennio "Sganciamoci dal nord o perderemo la forza e l'originalità". Incontro con Ferid Boughedir, il critico-regista tunisino che ha inaugurato ieri a Palermo CinemaMed CRISTINA PICCINO - ROMA Parla veloce Ferid Boughedir. Critico, e storico del cinema arabo e africano, è stato la punta d'avanguardia nel sitematizzarne nomi, percorsi e tendenze. E come cineasta è anche stato tra i pochi con il suo cinema (soprattutto con Halfaouine) a rompere schemi e obblighi del mercato internazionale, affermando ovunque il gusto di un racconto e di un'immagine liberi, giocosi, personali, pieni di humor e di leggerezza profonda. Ferid, che vive a Tunisi, insegna anche all'università storia e critica del film. Lo incontriamo a Roma, dove è di passaggio prima di volare a Palermo ospite del festival Cinemamed. Prossima tappa di questo infaticabile viaggiatore sarà il Fespaco, il festival di Ouagadougu, dove è presidente della giuria. "Ma devo concentrarmi un po' più sul mio cinema", sorride prendendosi in giro. Però Ouaga, nonostante una situazione sempre peggiore, per lui è quasi un passaggio obbligato, per le tante battaglie e storie che da lì sono comnciate e per il presente. "Sai - dice - non riusciamo neanche a incontrarci, è pieno di turisti o di francesi innamorati dell'Africa... Prima eravamo solo noi del festival, ci si vedeva, si discuteva sull'avvenire del cinema africano e del mondo. Adesso nello stesso hotel si deve attraversare un muro di 15.000 turisti solo per salutarsi...". Parliamo allora del cinema africano oggi. Perchè ci sono sempre meno film? Sono diminuiti gli aiuti europei. C'è la Francia, Channel four non esiste più, la Svizzera con la Fondazione Monte Cinema Verità, l'Olanda con il fondo Hubert Baals. Ma è poco e per la produzione complessiva di film africani è un grosso danno. E' anche vero che la qualità, la ricerca che c'è nei film rispetto a qualche anno fa sembra essere arretrata. Il cinema africano a certo punto era diventato un fenomeno di moda. Prendiamo ad esempio il festival di Cannes. Se ne sono innamorati con i film di Souleymane Cissè. Gilles Jacob adorava Le vent, che nell'82 ha aperto il Certain regard, e da lì lo ha incoraggiato a andare nella direzione che più piace al pubblico europeo, cioè l'aspetto magico. Le vent racconta la rivolta degli studenti contro il regime militare ma c'è già un elemento di magia. Lo hanno spinto a privilegiarlo invece di parlare dei problemi sociali, dell'Africa contemporanea che è meno affascinante. E' così Cissè ha girato Yeelen che è un film molto bello, è stato in concorso a Cannes, ha avuto il premio della giuria. E ha lanciato il cinema africano che da allora, come dicevo, ha cominciato a fare tendenza. Perchè se prendiamo negli stessi anni un regista come Sembene Ousmane, che è anticolonialista e antimperialista, in concorso sulla Croisette non c'è mai arrivato. E' stato a Venezia con Campo Thiaroye. Capisci la differenza? Il suo film che attaccava duramente l'esercito francese è stato mostrato in Italia, l'altro che ci faceva vedere un'Africa seducente è stato a Cannes. Da allora, e per diversi anni, tutte le sezioni del festival di Cannes si sono contese i film africani, anche quelli non particolarmente riusciti. E il culmine si è toccato con i 50 anni: sei film, perchè in un festival che vuole essere universale non poteva mancare l'Africa nera. Dopo è finita. In che senso? Il cinema africano è stato messo progressivamente da parte. Non c'è più niente di così forte come Cissè. Inoltre è il cinema più dipendente al mondo dagli aiuti esterni. E' finanziato al 100% e questo crea una situazione viziata, perchè non è più un cinema fatto per il suo pubblico ma per i festival. Anche se inconsciamente, il regista si dirige verso questo standard. Poi forse i film sembrano meno buoni perchè i critici ne hanno visti parecchi. All'inizio c'era l'effetto sorpresa, pure se deboli tecnicamente permettevano di scoprire un'Africa meno conosciuta. Però non è tanto l'aspetto tecnico il problema. E' proprio questo ritorno a un esotismo che le nuove onde dei cineasti africani avevano voluto scardinare coi loro film. Penso agli ultimi film di Flora Gomes. Ma è ovvio per un cinema che non ha una sua economia, un suo pubblico. Il caso di Flora Gomes è esemplare. Il suo primo film, Mortu nega raccontava la guerra civile. Era magnifico come il secondo, Gli occhi azzurri di Yonta, la storia di un vecchio combattente. Poi si è convinto che chi ha successo e va in concorso a Cannes è Yeelen, ovvero non i film che parlano dell'Africa di oggi ma quelli che scelgono una visione esotica. Ecco l'alienazione: nel film successivo, Po de sangue, Gomes che era un cineasta antagonista diventa un cineasta 'esotico'. E'pieno di misticismo, di credenze africane animiste... E' lo stesso percorso di Cissè, che dagli inizi 'impegnati' passa a un cinema estetizzante e pseudo-universale. Ma è il risultato di un'economia diretta dall'Europa e dai festival. C'è un cineasta che va oltre a tutto questo, Abderrahmane Sissako. Nella Vita sulla terra non c'è nulla d'esotico. E' il suo sguardo sul mondo. Forse il problema è che un cineasta arabo o africano è in qualche modo come obbligato a raccontare la sua realtà. Chi è uscito da questo - penso a "Il grido del cuore" di Idrissa Ouedraogo - è stato stroncato... Idrissa Ouedraogo ha fatto una scelta interessante. In un' intervista, nel film di Mohamed Challouf Ouaga capitale del cinema, diceva che siccome ha provato tutti i generi, western, commedia, ha deciso di non girare più film per l'Europa. Vuole fare sit-com per la tv africana e rinnovare così il contatto col suo pubblico. E' un buon modo per avvicinare la realtà africana attuale. Ha giocato la carta dell'arte, dei grandi festival, quando è uscito dal "suo" percorso è stato attaccato e alla fine per superare l'impasse del cinema africano destinato ai festival ha scelto la tv. Ed è interessante che questa ricerca di un nuovo rapporto col suo pubblico passi per un mezzo meno costoso come il video e il digitale. Gli altri registi invece sono ancora bloccati chiedendosi cosa fare per andare a Cannes o a Venezia, senza rendesi conto di avere perduto il proprio pubblico che è la cosa più vitale. Abbiamo cercato di fare la cooperazione sud-sud, a Ouagadougu, per risolvere questi problemi, ma è fallita per le divisioni politiche. Non resta che quella sud-nord dove il nord finanzia solo ciò che gli interessa. A questo punto cambiare prospettiva è necessario. Parliamo della Tunisia. Cosa accade nel cinema del tuo paese? E' una situazione sempre in movimento. Il film di Moufida Tlatli, La stagione degli uomini, è stato il solo film arabo-africano selezionato a Cannes... Cosa ne pensi? Trovo che la direzione rispetto al Silenzio del palazzo sia migliore, c'è un progresso tecnico-estetico ma forse ci sono meno emozioni, anche perchè ha dovuto cambiare attrice. Il silenzio del palazzo non è soltanto un film femminista, arriva dai ricordi di sua madre, dai suoi, ci mostra come una ragazza può uscire dalla una condizione di sottomissione attraverso la voce, il canto. E'un film splendido. Però siccome siccome è stato molto appoggiato dalla associazioni femministe mondiali, americane, inglesi, credo che più o meno consapevolemente il secondo è un film femmnista classico, con il catalogo dei dolori delle donne che sono rinchiuse o soffrono. E' una grande cineasta ma è un po' stata intrappolata da quanto si aspettavano da lei, la donna araba che deve difendere la condizione femminile. Invece il suo primo film ha rischiato molto di più che questo. Dicevamo del cinema tunisino... Senz'altro Moufida Tlatli è la migliore cineasta contemporanea nel cinema arabo. Nessun'altra cineasta raggiunge il suo livello. Farida Benlyazid è molto coraggiosa, dotata ma fa un lavoro diverso. Il cinema tunisino continua a essere uno dei più sperimentali del cinema arabo, se pensi che all'ultimo festival di Cartagine c'erano oltre alla Stagione degli uomini, il film di Nacer Khtari, che non girava da 25 anni, Soit mon amie sulla problematica dell'artista che non riesce ad avere un rapporto con la società. E Non man's love l'esordio di un giovane cineasta, Nidal Chatta, un film incredibile, completamente diverso da quanto fatto finora nel cinema arabo. Fa pensare a Luc Besson, a Beneix. Perciò sono ottimista, tra i cineasti tunisini c'è una grande capacità di confronto sia con i diversi aspetti del cinema moderno che con gli elementi tradizionali. Questo permette di avanzare integrando tra loro elementi del passato e della modernità. La Tunisia produce tre film all'anno, alcuni sono mediocri però c'è molta innovazione. E tu cosa stai facendo? Ho scritto una nuova sceneggiatura che è la terza parte della trilogia su Tunisi dopo Halfaouine e Un'estate alla Goulette. Si intitola Hammam-lif, ed è dove sono nato mentre alla Goulette passavo le vacanze, e a Halfaouine sono cresciuto... Hammam-lif era la residenza invernale dei re di Tunisi perchè c'erano delle sorgenti naturali di acqua calda. Là, durante la seconda guerra mondiale, c'è stata una grande battaglia tra tedeschi e italiani, che occupavano la Tunisia, e alleati. Il mio film si ambienta in quegli anni. Ora devo davvero dedicarmi solo a questo. |