da "Il Manifesto"

25 Gennaio 2001

Giochi senza frontiere

Un incontro ad Alpe Adria con il cineasta di Belgrado Zelimir Zilnik, al festival di Trieste con il suo ultimo film "Fortezza Europa"

SILVANA SILVESTRI - TRIESTE

Potrebbe essere il simbolo di Alpe Adria il nuovo film di Zelimir Zilnik Fortezza Europa con i clandestini bloccati ai confini e chiusi a tempo indeterminato nei campi. Ad Alpe Adria Cinema (19-27 gennaio) arrivano infatti ogni anno nella zona di confine di Trieste celebri cineasti dell'est che entrano quasi clandestinamente nelle pagine dei quotidiani italiani e trovano asilo politico talvolta solo nelle riviste specializzate. Lo stesso Zelimir Zilnik di celebrità ne ha avuta parecchia, cineasta che nella sofisticata Belgrado degli anni Sessanta volava sull'onda nera armato di cinepresa, creando un subbuglio ulteriore nella cinematografia del suo paese che già doveva tenere sotto controllo tutta una sarcastica generazione di registi più o meno inquadrata nella pianificazione. Zilnik con i suoi documentari non solo esplorava il sommerso del socialismo reale, ma con sfrontatezza entrava a sconvolgere il tranquillo corso dell'osservazione, come quando volendo raccontare il problema dei senzatetto, ne ospitò uno a casa sua o, più recentemente dopo i giorni senza speranza della guerra, mandò in giro il maresciallo Tito redivivo a chiedere alla gente se rimpiangesse i suoi tempi col risultato di allentare l'insostenibile tensione che era ormai come una cappa sulla città. Imprevedibile e sempre in prima linea in Fortezza Europa piazza la cinepresa su uno dei luoghi più emblematici dei nostri tempi di giochi senza frontiere, "i confini", dove cercano di passare i clandestini di vari paesi di un est che si intravede a perdita d'occhio fino all'Iran, all'Iraq, alle Filippine. Anche in questo caso non lascia che la camera parli da sola, ma sceglie i suoi protagonisti da far interagire e un protagonista principale, Emil Thouk che sembra uscito da un film russo a dribblare malavitosi con una antica etica proletaria non dimenticata. Deve accompagnare in Italia la figlia appena adolescente da una ex moglie che ha trovato lavoro. Il viaggio è un'incognita senza il passaporto, per ottenerlo bisognerebbe sborsare parecchi soldi. L'enorme esercito di forza lavoro si intreccia nelle città raggiunte a stento (Trieste, appunto) sui treni, nei centri di accoglienza dove vengono rivestiti con felpe rosse, divise dei nuovi lager di sapore vagamente irridente anche se vivace. In movimento o in forzato parcheggio, messi al lavoro sembrano capaci di cambiare i connotati della natura con una forza che non appartiene più all'occidente, ognuno con il suo racconto sintetico dai sottintesi messaggi di sopravvivenza (solo le donne fuggite ai regni del terrore vogliono raccontare). Professori iraniani fuggiti di prigione dietro le nuove sbarre dei cambi, mamme irachene dai tanti figli "senza infanzia" come dicono, la tragedia degli armeni che si dannano per entrare in Jugoslavia, ucraini che guadagnano un dollaro al giorno e per questo si mettono in cammino, serbi fuggiti in Ungheria per la guerra. Dietro la fortezza europea si muovono come in una trappola i clandestini e nel loro vagare silenzioso si legge tutta la storia del disastro e della guerra. Solo il russo, costretto ad arrivare in Italia suo malgrado, vorrebbe tornare al suo paese. "Se queste mani mi servono per lavorare in Italia, mi possono servire anche in Russia", dice. Chiediamo a Zilnik perché sceglie proprio lui come filo conduttore, emblematico del vecchio impero sovietico e di cui, curiosamente pochi capiscono la lingua (o fanno finta di non capirla): "Ero in contatto con molte di queste persone all'est e ognuna sembrava essere passata attraverso uno stato di disillusione. Essere considerati come cittadini di serie B è il tratto comune di tutte le persone che ho incontrato. Sia quando questi clandestini sono presi dalla polizia, sia quando sono intervistati dai giornalisti, fingono. Tutti parlano delle loro speranze e di una vita migliore, in realtà sono sconfitti. Quindi, fin dall'inizio, ho deciso di servirmi di persone che hanno avuto questa esperienza e che hanno detto 'Basta, devo cambiare la mia situazione'. La soluzione del personaggio russo mi è sembrata buona perché viene da un paese così vasto, con contraddizioni così ampie da avere la consapevolezza del paese a cui appartiene. Per me che vengo dalla ex Jugoslavia i russi mi sono sembrati razionali nel momento in cui l'Urss si è divisa, mentre noi abbiamo fatto la guerra". Quali sono gli elementi interrotti dalla rivoluzione che varrebbe la pena riattivare? Pensiamo a certi paesi passati bruscamente dal regime agricolo alla società industrializzata: "Ci sono molte tendenze curiose all'est, risponde. Una è rifarsi al passato, attaccarsi morbosamente al passato. Ma l'Europa dell'est è molto naïf, quando parla di Francesco Giuseppe, Maria Antonietta o Vittorio Emanuele. In realtà è come una scatola vuota. Ad esempio quando in certi paesi hanno smesso di usare la lingua e la cultura russa hanno ricominciato con le guerre tribali e la cultura islamica di antica tradizione. In Uzbekistan dove sono stato di recente dicono "ci possiamo rifare a Gengis Khan e a Tamerlano, il che significa "la nostra tradizione più vera è conquistare il mondo". Hanno buttato giù la statua di Lenin e ne hanno montata una enorme di Gengis Khan. L'occidente è stupido se non capisce che la cultura russa era un perfetto mezzo di comunicazione con l'Asia". Ma il capitalismo ha sempre comunicato benissimo con l'oriente, gli facciamo notare. "Sì, ma solo a livello economico. Nessuna novità se tra qualche decina di anni l'estremo oriente comincerà a costruire armi nucleari. Per tornare all'Uzbekistan nelle grandi città come Samarcanda ci sono enormi grattacieli costruiti nella città vecchia dove la gente guadagna in media 10 dollari al mese. La gente è povera, i tedecshi e gli svizzeri invece di pagare per il petrolio costruiscono enormi grattacieli come sedi dei ministeri dell'agricoltura ecc. introducono tecnologia inutile perché la gente non è in grado di comprarla. Questo non è uno sviluppo reale e creerà molti problemi. Prima era il maggior paese produttore di cotone dell'Urss, ora c'è un processo di desertificazione in atto. E' molto facile servirsi di queste popolazioni perché non hanno niente da perdere. La stessa situazione c'è in Georgia e in Armenia dopo il crollo del comunismo è successa una cosa molto semplice, l'occidente ha perdonato il suo passato socialista in cambio dell'apertura del mercato. Questo è un momento di trionfalismo ingenuo dell'ovest e lo possiamo vedere ogni giorno sulle frontiere di Shengen. Tutti i produttori occidentali sono ben felici di vendere all'est quello che non riescono a vendere in occidente, importano a basso costo senza pensare alla caduta tragica di qualsiasi standard di vita. Ci sono poi altre tendenze ancora più pericolose, quelle delle tensioni tra uomini e donne. Le donne sono tornate alle famiglie ed hanno trovato tra lavoro e famiglia un loro equilibrio. Gli uomini si sono persi, sono stati coinvolti in progetti della nuova società, mafia e nazionalismi oppure diventano soldati, ma dopo una decina d'anni anche questi progetti sembrano non dare frutti. Succede anche in Jugoslavia. In questi paesi ci sono uomini con un enorme senso di sconfitta, scappano da casa, bevono e parlano solo dei grandi risultati che hanno ottenuto nel passato". Tra i progetti di Zelimir Zilnik c'è la collaborazione a una rassegna sulla Pannonia, insieme a Sergio Germani e Mila Lazic che per Alpe Adria hanno curato la bellissima retrospettiva di quest'anno sul cinema rumeno degli anni di Ceaucescu su cui torneremo in queste pagine. Il festival Alpe Adria, dice, è una delle poche occasioni per dare un'identità all'est: "Dopo la rassegna sui registi dell'onda nera di due anni fa siamo di nuovo riusciti a comunicare tra noi". Va ricordato che i registi dell'onda provenivano da tutte le nazionalità della Jugoslavia, dove Belgrado faceva da epicentro culturale. Come cineasta si prepara a ripartire in vari paesi dell'est per girare sette episodi dal titolo Cosmo Girls, un'indagine sulle donne a partire dalla diffusione di riviste femminili come Cosmopolitan o Harper's Bazaar, riviste che in occidente leggono donne ricche e colte, libere e indipendenti, che veicolano valori inaccessibili per i costi alle donne dell'est, consigli che, se seguiti, potrebbero provocare grosse tensioni". Naturalmente sappiamo che questo non è che il punto di partenza per un'indagine spietata del nuovo consumismo che non mancherà di essere velenoso come sempre. Del resto: "Ti racconto un episodio che dimostra come da noi tutto sia in una situazione di immobilismo e niente può essere spinto in avanti, nonostante la nuova classe dirigente. A Capodanno la televisione di Belgrado voleva mandare in onda il mio film Giuseppe. Mi hanno chiesto le cassette del film. Io ve le dò, dico, ma non è che me le potete pagare? Mi hanno offerto 30 marchi, quando le sole cassette costano 90. Prima però ti facciamo un'intervista, hanno detto. Va bene. Senti, insistono, non è che potresti portare la tua di telecamera? Questo mi fa pensare che per ora niente può cambiare".