da "Il Manifesto" 07 Settembre 2000

Palermo, vergini e malocchio

E' il giorno dei film musicali al festival. Da "My generation", saggio documentaristico di Barbara Kopple sulle edizioni di Woodstock a "Sud side stori" di Roberta Torre, dove Mario Merola si scontra con Little Tony. Ma ci sono anche i ritmi sfrenati della città che vive di coca, raccontata da Schroeder e quelli "magici" dell'artista Jackson Pollock

ROBERTO SILVESTRI - VENEZIA

Ieri quasi solo film musicali sul Lido, forse per rendere omaggio a Mick Jagger, ospite della mostra, ora che è anche un produttore alternativo di cinema. Introdotti dalla ossessione swing di Woody Allen e da una battuta che confonde Harry James con Henry James, abbiamo ascoltato prima le tre edizioni di Woodstock, dal rock al grunge al rap (My generation, saggio documentaristico di Barbara Kopple), che ci spiega com'era la generazione degli hippies, come mai s'è trasformata in quella degli yuppies, in cosa è stata contestata dalla generazione X e perché adesso i ventenni sono stufi di essere considerati, solo per motivi di mercato, "una generazione". Poi abbiamo assistito allo scontro campale tra Mario Merola e Little Tony in Sud side stori (nell'atteso musical di Roberta Torre sulla Palermo multiculturale), "ospite in studio questa sera una comunità di nigeriane immigrate..."; quindi tanghi e paso doble soffocati e reinventati dal crepitio delle mitragliatrici di Medellin, Colombia che uccidono oggi l'anima almeno quanto il pop di Bogotà (in gara La vergine dei sicari di Barbet Schroeder, che è svizzero è nato a Teheran ma ha passato l'infanzia nel paese di Valterrama). Infine un'interessante interpretazione, a cura dell'attore (e esordiente regista) Ed Harris, dell'arte maudit di Jackson Pollock, che fa risalire l' "action painting" al ritmo divino ma all-american di Gene Krupa, "il più grande batterista jazz dei primi anni '40" come afferma. Ma in quella scena è troppo sbronzo e si dimentica di Kenny Clark e Max Raoch, proprio come Michael Lang - il produttore, sempre in rosso, dei Woodstock - e Roberta Torre, ignorano gli ultimi esiti artistici, rispettivamente, di Ritchie Heavans e Fela Kuti junior, cioè - nella metafora - il grande contributo african-american e nigeriano all'arte musicale vivente... Si può fare comunque un film musicale inebriante e suggestivo senza neanche usare una nota, né un suono né un rumore, né il silenzio. E, al contrario, riempire un film dall'inizio alla fine di armonie, coretti, duetti e balletti ballabili, e non riuscire mai a soffiargli la vita, a muovere le emozioni, a dargli una mossa. Al di là del cinema-pittura di Bartas, che non può fare a meno però della colonna/suono per dare ritmica e stampelle ortodosse al suo naufragar post-umano nel paesaggio del Marocco ("La libertà"), un santone del cinema underground americano, Stan Brakhage di Kansas City, Missouri, 67 anni, in "The god of day had gone down upon him" (Il dio del giorno era sceso su di lui), presentato sarcasticamente nella sezione "Nuovi territori", spegne la colonna sonora e lascia 'muta' e sorda - non facessero un fracasso immane i piccoli spostamenti tremanti della sua 16mm in spalla - un'analoga incursione tra anatre, foche, gabbiani, ombre di gru, di bimbi, d'aquiloni e di un uomo, nella Vancouver Island. Ma i suoi 60 minuti (tagliati un po' dal proiezionista della sala Volpi, ieri, alle 15) sono tutt'altro che orientalisti e estetizzanti, mai muti e sordi. E le sue strisce di mare, di cielo, di panorama acquaceo, di petrolchimico fumante, di onde grigie e insuperabili degne di "Perfect Storm", i giochi di luce, gli shining, le strisce mobili di blu, verde e spuma di mare, i detriti, le nubi, cantano e danzano, come seguendo gli ultraritmi nel regno dell'ultravista. E sono l'equivalente visuale delle armonologie di Ornette Coleman o musicale del furore colante di Pollock, un abbraccio alla materia in vorticoso movimento molecolare - gli abissi dove solo gli artisti dell'apnea riescono ad arrivare - un balletto frammentato, narrativa inudibile, come quel concerto di Schnabel per "solo direttore d'orchestra". La milanese di Palermo Roberta Torre, che nei "Nuovi territori" avrebbe fatto un figurone, perché sta sperimentando davvero, e rischia battute d'arresto come questa volta, perché non vuole sicurezze produttive, emozionali, cromatiche né d'altro tipo, cambia totalmente strada, anche se non sembra. Brakhage - direbbe il Pollock di Harris - ha già ruminato troppo bene Monet, Turner, Rothko, Norman McLaren, Maya Deren e i creatori persiani di tappeti, come vediamo anche nei divertissment astratti degni di un musical Mgm anni '50 per delizia coreografica, "Water for Maya" e "Persian series n.9". Ma tutto questo ormai è il passato... Sud side stori infatti non ha niente a che vedere con la sicurezza country, mafia and western del musical di Nino D'Angelo Tano da morire, né con le influenze di Almodovar, Pappi Corsicato, Oldenburg e John Waters. Il suo Romeo e Giulietta, lui bianco rocker stonato, Tony Giulietto, lei nera prostituta gigante, Romea Wacoubo, definitivo assassinio del genere "musicarello", ambientato nei quartieri popolari di Palermo dove vive, non senza grandi difficoltà, contraddizioni, orrori, timori, amori, una comunità di lavoratori ibo (e dintorni), schiavizzati da chi li traghettò, sfruttando le loro speranze e ogni parte del loro corpo, è come un teatrino di pupi semoventi che Roberta Torre - anti-scienziata pazza - ha voluto scatenare, far urlare, disperare, ballicchiare, duettare, incantare per un'ora e mezzo di melodramma folle, in stile latinoamericano più che nostrano, in mezzo al più delirante dei set, un arcobaleno diffuso dai colori caldissimi e vivissimi che solo Ciprì, Tirelli e Jack Smith potevano divertirsi a fabbricare. Senza una battuta di recitativo che non sia neomelodico (una star troneggia su tutte, più della destra, Merola, e della sinistra armonica, Little Tony, cioè Maria Nazionale), senza incursioni documentaristiche vere e proprie (tranne la scena iniziale dell'Ape in cerca di sesso quasi fotocopiata a Matteo Garrone) perché tutto quel che vediamo e ascoltiamo, sempre un decibel più alto del "consentito", è documento aspro, bruciante, registrato, cotto a fuoco lento, reso, per il furore, incontenibile nevrotico divertissement, sonetto, poema in versi, aria d'opera. E il tutto stipato nel pentolone magico. Immigrazione, il santo nero di Palermo numero 2, il razzismo reciproco, i disperati inviti del sindaco a ritrovare l'antica civiltà magmatica degli antenati, la mafia dei concerti che ci ammolla i peggiori performer, la tragedia di amori interrazziali che la cronaca ha trasmesso, tutto un brulicante mondo sepolto di guaritrici e stregoni all'opera tra pozioni d'amore e d'odio con tecniche usate di qua e di là del mare. Roberta Torre cerca di essere un equivalente laico della prima santona voodoo devota a Santa Rosalia. Maya Deren l'avrebbe messa in guardia, però. Quando ci si accosta a culture che hanno alle spalle milioni di anni e di sapienza bisogna essere meno ambiziosi, precipitosi, gonfi di sé. Se no va a finire che qualche fattura se la becca, non il malocchio borghese, ma qualcosa che toglie a un film poesia, vitalità, autenticità, semplicità. Chi ha mai visto a Palermo un vero funerale nigeriano, chi ha mai incrociato sfilare abbracciati le colleghe e gli amici di una prostituta nigeriana morta a vent'anni in un incidente mai chiarito, che sembrano negli occhi Black Panther, nei vestiti Issey Miyake, nelle foto sul petto dell'amica - che tutti si appuntano - "madri di piazza di maggio", sa che non c'è balletto o canzone o incubo felliniano nel film di Roberta Torre che possa restituirne un pizzico di bellezza, di maestosità, di forza emozionale. Barbet Schroeder in La vergine dei sicari è affetto dalla stessa malattia, anche se invece di sperimentare e azzardare si affida alla trascrizione para bunueliana della prosa nichilista, qualunquista e un po' sprezzante di uno scrittore colombiano di oggi, Fernando Vallejo, per raccontare in soggettiva l'irraccontabile, l'invisibile di Medellin (potrebbe essere Brindisi), la città che vive di coca (come Brindisi di sigarette di contrabbando), si sviluppa, si arricchisce, ma massacra invece di migliorare le condizioni di vita del 90% della popolazione. Fernando Vallejo ne racconta la violenza e il cinismo, più violento e cinico del nemico (dal presidente corrotto all'ultima delle mendicanti sue complici) attraverso i suoi due ultimi amori, due quattordicenni belli, bruni, fieri e armati, sicari di professione (mal pagata) e - finge di crederci il film - innamorati del loro ricco signore macho. "Sono macho, chi più macho di me che ha scopato 1000 ragazzini e perfino qualche bella donna, purché attorniata da fratellini saporiti?".