Bastille, domenica mattina. La Francia non è ancora campione d'Europa, ma nell'aria è già festa, i tifosi francesi (non senza spavalderia) ne erano certi, tutti pronti con lo champagne dal giorno prima. Il tassista che ci accompagna all'Istituto del mondo arabo chiede: "va a vedere una mostra?". No, c'è la Biennale del cinema arabo, diciamo. Lui manca poco che si infuria. Di origine marocchina si definisce africano. E così i tunisini, gli algerini che sono berberi, gli arabi pregano Allah e mangiano cous cous, dice. Gli egiziani poi, che fanno dei gran film sono faraoni. Bene. Scopriamo così che la definizione non piace a tutti, è roba da colonialismo intellettuale, dirà il solito tassista. La sera, nella piazza di Hotel de la Ville, dove c'è il megaschermo per godersi la partita arrivano in tanti, dalle periferie soprattutto. La forza della squadra francese è la sua natura multietnica, hanno scritto i giornali di mezza Europa. Però in tribuna di onore, tra i politici ad esempio, il "multietnico" non sembra funzionare, e così di recente ci sono state molte discussioni sulle possibilità reali che hanno attori di origine magherbina o subsahariana di avere ruoli al di fuori dei film ormai genere banlieau oppure se lavorano in tv di arrivare al notiziario di prima serata. A guardare le immagini che scorrono sullo schermo dell'Ima questi giorni, il fatto che "siamo tutti francesi" non è così scontato. Sul muro dell'Ima campeggia l'affiche della 5a Biennale del Cinema arabo a Parigi. Una star distesa come Cleopatra, osservata da un uomo con occhiali scuri e dal regista che la riprende. Sapore anni Cinquanta, di quella Hollywood sul Nilo che è ricordata nell'omaggio a Taheya Carioca, con due film di Salah Abou Seif, La Sangsue e Le Costaud, fiammeggiante bianco e nero di un cineasta spericolato che lavorarava su codici e generi con avanzata modernità. Taheya Carioca è scomparsa a settembre, attrice danzatrice che esprime insieme Samia Gamal l'essenza stessa della danza orientale, pura energia di sguardo e movimento con cui riempe ogni inquadratura, corpo perfetto nella libertà sinuosa delle produzioni egiziane dell'epoca. Ma il cartellone è molto composito, c'è anche una sezione con le produzioni televisive del Golfo (queste sìarabe) e si capisce che questa Biennale edizione 2000 affronta questioni complesse, specie poi in un paese come la Francia che la Storia ha legato a doppio filo con le colonie sulle quali anche dopo l'indipendenza ha mantenuto un ruolo centrale nello sviluppo socio-economico. I film sono divisi tra fiction e documentari, sia per i corti che per i lungometraggi, con due giurie: un cineasta, Abdelkrim Bahloul, due produttori, Humbert Balsam e Enzo Porcelli, un critico francese Olivier Seguret, due attrici, Yousra e Mouna Wassef per la finzione. Tre registi, Omar Amiralay, Atteyat al-Abnoudi, Mai Masri, un giornalista Eberhard Spreng, una rappresentante di Arte Claire Doutirax per il documento. Nella fiction c'è molto Egitto (cinque film su tredici complessivi), ci sono anche molte coproduzioni (in entrambe le sezioni), con la Francia e poi con Belgio o Gran Bretagna. E questo è un altro punto contraddittorio. Se infatti nel documentario la coproduzione riesce a entrare nel progetto in modo fluido, cioè c'è un'identità precisa del cineasta, di quanto vuole raccontare, una libertà di linguaggio, ricerca, uso dell'immagine leggera, nella fiction si ha l'impressione che i risultati siano meno riusciti, e in parte proprio per le "leggi" della coproduzione. Questo ovviamente non significa che un cineasta maghrebino deve parlare del suo paese, ma se lo fa, e per entrare nei meccanismi del vissuto e della Realtà, è spiazzante l'uso della lingua e francese. E' il caso di Le harem de Mme Osmane esordio di Nadir Mokneche, nato a Algeri, classe 65, studi tra Parigi e New York, che presentando il suo film ha motivato esplicitamente la scelta del francese con i problemi di mercato. Il cast è internazionale, la protagonista, Mme Osmane è Carmen Maura (assolutamente fuori parte) con un passato da combattente nella guerra di indipendenza, un marito che l'ha lasciata per "una francese", una figlia con cui vive continui scontri, e un casa superaffollata da affittuari per non fare la fame. C'è l'Algeria di ieri e quella di oggi, l'esercito che copre gli attentati, l'integralismo, la paura continua, la tradizione, la perdita di identità tutto frullato senza emozioni, e quasi pronto per offrire quell'"esotismo" che il mercato europeo sembra chiedere. Censura, autocensura o entrambi? In ogni caso si intuisce che nella ficiton mantenere un equilibrio personale è difficile, una sfida che vincono in pochi, almeno nei film selezionati, come Farida Benlyazi nel suo splendido Ruse de femmes, impasto di humor e fiaba sottile sull'universo femminile, sui ruoli in una cultura secolare di cui rivela la profondità oltre quella cortina in cui viene di frequente schematizzata. Si parla molto di donne in queste immagini, e forse quasi di conseguenza si parla di Algeria. E' quasi una necessità collettiva capire, raccontare fuori dall'enfasi dei commenti occidentali, dalle generalizzazioni che troppo spesso hanno alimentato la rabbia e la tentazione integralista come forma di rivincita - e la Cineteca algerina, nata con l'indipendenza, è al centro di un altro omaggio con dodici film, da Omar Gatlato di Merzak Allouache a Le Moineau di Chahine. Kamal Dehane gli ultimi dieci anni di guerra e massacri in Algeria ce li fa raccontare dai ragazzini. Algérie, des enfants parlent raccoglie le voci di giovani e bimbi di qua e di là dal mare, di chi è restato a Algeri e di chi invece si è trovato un bel giorno a vivere in Francia. Tutti con la stessa consapevolezza di qualcosa che li ha segnati, che mai dimenticheranno, che gli è stato sottratto con l'infanzia per una (forse troppo) immediata coscienza del mondo. Un ragazzino è arrivato in Francia quando hanno tentato di uccidere il padre giornalista. L'ultimo ricordo è la faccia di Cheb Hasni, appena assassinat o sui muri della città. Incubi ne ha ancora, "che arrivano e mi portano via" dice con un sorriso. Ma se deve confidare un sogno, pure se in Francia sta bene, è tornare in Algeria. Un altro in Francia ha scoperto che "la gente si bacia, anche i miei genitori, credevo che accadesse solo nei film americani". Si sta bene, si mangia, si va a scuola, ci sono i giocattoli però preferisco l'Algeria. La ragazzina che vive a Algeri raccoglie tutto sulla guerra civile. "Lo faccio per i miei figli, devono conoscere". Un altro sente che gli hanno "fotturo la giovinezza". C'è chi (nessuno tra chi vive a Algeri viene mostrato) ricorda con la guerra di oggi quella per l'indipendenza di ieri. Sono soprattutto i giovani a parlare, della guerra ma anche d'amore, di sesso, di tutto quanto è stato proibito. Se ci fosse più amore non accdrebbero queste cose dice un altro che vive in Francia. Gli adulti si sottraggono alle ferite, forse per difesa, ma la corsa finaale di quei ragazzini liberi lascia intuire un mondo di energie, ribellione, lotta che non si arrende. Che è quello di Kamal Dehane, algerino che vive a Bruxelles, e il il suo paese lo ha raccontato molte volte e sempre da osservatori differenti; nella vita di Kateb Yacine ("Kateb Yacine, l'amour et la revolution") in quella di Assia Djebar, in altre incursioni delicate e vissute in prima persona nell'Algeria divisa. E le voci di quei bimbi sembrano la sua, qualcuno che nello spirito critico sempre attento, nella capacità di offrire interpretazioni multple e aperte conserva un grande amore e l'Algeria ce la fa conoscere nelle sue anime differenti, che sono quelle più vitali, ignorate dal sistema dei media perché voci di una crisi, di quel paese e di un'Europa che non sa confrontarsi fuori dalle sue sicurezze. A Bruxelles, che si conferma così città fluida di intrecci, vive lavora anche Belkacem Hadiadj che firma Une femme-taxi à Sidi Bel Abbès, ritratto privato di una donna che alla morte del marito diventa tassista, e rimmagine collettiva delle donne che lottano come possono contro chi le vuole annullare. Sono in molte a salire nel taxi di Choumicha, che gli integralisti non sopportano perché donna che mantiene la famgilia al punto un giorno di diffondere la voce della sua morte. Lei ogni giorno li sfida correndo sulle strade deserte fuori città dove hanno massacrato undici insegnanti, e altre continuano a viaggiare ogni mattina per andare a scuola. C'è una donna a cui hanno ucciso il marito che continua il suo lavoro di insegnamento nella scuola locale, chi ha lasciato casa e uomo per ricominciare a esistere. Molte lavoravano nella fabbrica di Talagh (a capitale estero e quasi tutta femminile) e questo era intollerabile a tal punto da spingere "i machi religiosi" a bruciarla. "La donna subisce sempre nel nostro paese, l'uomo deve essere più forte. Ma l'Islam non c'entra nulla". Così come non c'entra nulla con la religione lo hjbab, il velo che indossano per difendersi, per non essere attaccate in strada. Però non si fermano, continuano a volere esserci anche se le vorrebbero cancellare. Con o senza velo, contro il ricatto della paura. E' l'Algeria profonda, quella frattura culturale tra chi sceglie la "tradizione" nel modo più pericoloso, dentro e fuori dal paese, che ne fa baluardo di resistenza contro gli altri, donne e uomini che scelgono invece la strada della libertà. Di essere ciò che sono mantendendo la propra cultura e al tempo stesso rinnovandola nell'esistenza. |