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da "Il Manifesto" del 31 Marzo 2000 CINEMA. X FESTIVAL AFRICANO Genesi delle barbarie Sissoko, regista del Mali, vince a Milano - MARIA COLETTI - |
MILANO
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U n improvviso raggio di sole è arrivato a riscaldare il grigio di questi giorni piovosi. Come i colori caldi della terra e dei costumi maliani di La genése il lungometraggio di Cheick Oumar Sissoko che ha vinto il X festival del cinema africano di Milano. Ispirato al libro della Genesi, il film è in realtà una metafora forte e disperata dell'intolleranza, delle guerre e della violenza che tormentano tutti i continenti, quando a prevalere sono gli odi etnici e gli integralismi di ogni confessione. Sissoko ha lavorato a fondo nel cuore della tradizione africana che è quella della parola, della sua forza evocativa e creatrice, quasi magica, affidandola alla melopea della lingua bambara e a tre grandi interpreti, Sotigui Kouyate, Balla Moussa Keita e Salif Keita. Ma il film parla soprattutto attraverso l'immagine, l'uso espressivo del colore e dei movimenti di macchina che contrastano spesso - in un contrappunto insolito - con la fissità ieratica dei personaggi, disposti e calati nello spazio come in una sorta di "tableaux vivants". Se nel film di Sissoko l'orrore e il peso della storia sembrano infrangere e contaminare per l'eternità l'equilibrio di un paesaggio apparentemente innocente, il processo inverso accade nell'egiziano Gannat Al Shayateen (Il paradiso degli angeli caduti), di Ossama Fawzi, secondo premio. Ispirato al celebre racconto dello scrittore brasiliano Jorge Amado, il film di Fawzi è profondamente diverso per stile e ispirazione, come la notte dal giorno. Ed è tutto in una notte che si svolge il percorso dei protagonisti, barboni e vagabondi che sopravvivono all'orrore del caos del loro quartiere popolare del Cairo attraverso l'ebbrezza, l'amore, l'amicizia - un percorso dai toni allucinati e grotteschi, in cui paradossalmente il personaggio più vivo è proprio quello morto dell'inizio. Il Cairo, città tentacolare e soffocante, ha ispirato anche el Medina di Yousri Nasrallah (premio del pubblico). L'allievo di Chahine ha lavorato però su un altro registro, che mescola una riflessione e uno sguardo da flaneur sulla città e il Bildungsroman, nel tracciare il percorso conoscitivo e di liberazione di un giovane attore che cerca la sua strada per esprimersi e che deve passare attraverso l'emigrazione in Francia e un'amnesia - forse, anche se inconsciamente, volontaria - per ritrovare se stesso, la propria identità al di là dei condizionamenti della famiglia, della città e dei pregiudizi. Un discorso sul peso della famiglia e sullo scontro/incontro tra generazioni e culture che torna nello splendido Home Sweet Home di Michael Reaburn e Heidi Draper, girato tra Zimbabwe, Parigi e Usa e apolide per il tema affrontato e per il formato, che mescola video e pellicola, home movie e film saggio, dialoghi in autostrada e messa in scena di ricordi d'infanzia, sogni e momenti di pura poesia. Un contrasto tra immagine e suono che si riflette in quello tra passato e presente, per rivolgersi al futuro, verso un'idea di famiglia, identità e appartenenza che supera i legami di sangue e si scioglie nella fascinazione del viaggio, fisico e mentale. Una ricerca sull'identità e la storia che si riflette sul paesaggio fisico e mentale e che si ritrova anche nei video e nei corti premiati. Sul versante tragico e quasi sospeso nel tempo, tra mito e storia, come in Quand le soleil fait tomber les moineaux del marocchino Hassan Lezgouli, che fissa il tempo circolare di un villaggio berbero sperduto tra i monti rimandando costantemente al fuori campo della guerra contro il popolo Sahrawi, una sofferenza atroce e invisibile come i corpi dei due soldati morti, anche loro fuori campo, come una tragedia greca. Ma si può anche dare una versione più positiva e solare dello scontro tra culture, come fa il tunisino Kamel Cherif in Premier Noel un Les mistons maghrebino, girato nella periferia parigina anni 60, in cui dei bambini terribili si scontrano con un Babbo Natale alla Pennac. Certo, la tragedia bussa alla porta, la violenza e l'intolleranza non possono essere dimenticate, anche se a volte può servire a qualcosa combatterle attraverso l'ironia come avviene nel video dell'algerina Djamila Sahraoui: Algerie, la vie quand méme , un ritratto tenero e ironico di un gruppo di amici che riflettono sul loro paese, sulla loro vita annoiata e che, in fin dei conti, sembrano avere più paura delle donne che degli integralisti. |