martedì 30 agosto 2011
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13 VISIONI
2011.08.13
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APERTURA
di Elfi Reiter
DOCUMENTARI
Nel tunnel del rimpatrio
Il corto «Frères Lumières» di Christophe Lebon Come la polizia annulla l'esistenza costruita con fatica di Ahippah. Basta un arresto, prima di un colloquio di lavoro
Già l'inizio, immagine a nero con voci femminili nell'off che parlano, promette qualcosa di originale. Cosa succede? Poi si apre una cassetta della poste verso l'esterno, cioè il nostro punto di vista è da dentro, e nell'immagine successiva viene aperto il campo visivo: una postina ha ritirato il malloppo di lettere da distribuire, sullo sfondo dell'angolo della strada vediamo le due donne che stanno appunto parlando. Però, ora siamo entrati in un altro campo: l'immagine dal colore è passata al bianco e nero e stavolta è sparito il suono.
Salto in asse nel controcampo a livello visivo, si direbbe in gergo tecnico, in realtà è come se fossimo letteralmente piombati in un «contro campo» dove tutto è possibile trovandoci in uno spazio-tempo completamente altro: la stilizzazione visiva è quella tipica del cinema muto. Ora i dialoghi si intuiscono dai gesti e dalle espressioni mimiche delle due donne che continuano a chiacchierare, e sarà così per tutto il film che vediamo da questo punto in poi, semmai appare qualche rara didascalia.
Ecco perché non poteva che intitolarsi Frères Lumières il corto di sedici minuti realizzato da Christophe Lebon sul tema sempre attuale però dell'immigrazione, qui ambientato in Francia, ma la storia potrebbe svolgersi in tanti altri luoghi e non a caso è stato scelto un non-luogo come scenografia centrale, un cortile in un angolo di strada. Ma la vera denuncia avviene su un doppio livello che implica significato e significante facendo riflettere su più piani, quello politico, culturale, sociale. Sul primo, puramente narrativo, si denuncia in modo anche divertente come i cittadini immigrati si inseriscono nella società, lavorano e pagano le tasse, sebbene un semplice controllo li distingua dal resto degli abitanti perché può annullare, in un istante, quell'esistenza costruita con fatica.
Monsieur Ahippah, il nostro personaggio centrale, uomo di mezza età, nero di pelle, elegante, sta per andare a un colloquio di lavoro. Lo si capisce da come si sistema la cravatta davanti allo specchio, vicino alla finestra, osservato in ogni dettaglio dalla vicina segretamente innamorata di lui. Vediamo dapprima attraverso i suoi occhi che lui viene fermato dalla polizia sul marciapiede e portato via. Arrestato. Poi vediamo lei, le sue reazioni, con punto di vista esterno. Lo segnaliamo perché è un indizio visivo su cui si torna alla fine, quando l'evidenziarsi di questo «occhio esterno» farà fare un détournement temporal-filosofico, svelando una delle tante evoluzioni del famoso Kinoglaz vertoviano: il suo cine-occhio nel corso del ventesimo secolo si è trasformato anche nelle innumerevoli telecamere che ci osservano giorno e notte, dappertutto.
È così che la polizia ritrova Ahippah, dopo che le sue amiche lo avevano aiutato a scappare dal centro di detenzione con uno scherzo degno di Tati scavando per lui un tunnel della libertà. «Avevo letto un articolo sulla tragedia vissuta da queste persone che da anni vivono in Francia, lavorano sodo, spesso specialisti nel settore in cui operano sono ben integrati nella società, e un giorno per un cavillo qualsiasi vengono ammassate in qualche scuola per essere rispediti nei loro paesi di origine», spiega al telefono Christophe Lebon, parigino che oggi abita vicino ad Avignone, dove ha sede il suo centro di formazione cinematografica Les ateliers du courtmetrage, con cui ha prodotto questo suo corto che sta per iniziare il giro per i festival. «Volevo denunciare queste manovre adottate per calcolo politico pubblicitario, ossia per poter dire che hanno rimpatriato un tot di immigrati che secondo alcuni rubano il lavoro ai cittadini francesi quando di fatto erano stati chiamati per mansioni specifiche, a volte anche quindici anni prima! Per di più queste operazioni di pulizia cadono nel vuoto analitico perché nessuno fa ricerca sulla vera situazione alla luce di cifre e condizioni sociali», aggiunge deciso.
D'altronde, sui duri metodi della polizia francese verteva già il precedente Stupéfiant, una docu-fiction in base a un fatto realmente accaduto: nel corso di un programma radiofonico su France Inter in cui trasmettono i messaggi più originali lasciati nella segreteria telefonica, Lebon aveva sentito la storia narrata da un professore di liceo a proposito di un'irruzione violenta in classe da parte di una squadra di poliziotti con tanto di cani alla ricerca di droga tra i ragazzi, i quali erano sconvolti. Ebbe grande risalto anche sulla stampa dato che il racconto del professore-scrittore era davvero ben fatto.
Stupéfiant, in cui questo regista quarantacinquenne e autodidatta si è limitato a mettere in immagini la fase della registrazione dentro una cabina telefonica, ha partecipato a tanti festival e vinto numerosi premi. Inventore di atelier di cinema in cui si realizza un corto in poche ore, Lebon si dice un gran fan del cinema muto. Ma non è solo per questo che ha scelto quello stile per narrare la storia incredibile di Ahippah: era anche per sottolineare un fatto grave che paradossalmente senza parole acquista ancor più attualità. Inoltre Lebon lavora da tempo con attori di varie nazionalità impegnati nella rete dei sans papiers, come l'italiana Anna Andreotti che interpreta la portinaia e Sandrine Briard che fa la postina nel film.
Di fronte alle tante problematiche ascoltate da loro, la voglia di fare qualcosa assieme è dapprima sfociata nella lavorazione di Frères Lumières, per cui lui ha scritto anche la sceneggiatura e poi in diverse iniziative a loro favore. Una, tra tante, la serata Sans Papiers organizzata a Parigi sulla Peniche Cinéma, il battello-cinema ancorato sulla riva del Canal de l'Ourcq nel cuore del Parco della Villette dal 2008 per aprire i battenti agli «ammarati della settima arte», ossia ai cineasti del domani con proiezioni, incontri e incroci creativi per favorire progetti e produzioni ospitando sia pubblico normale che professionale.
Quella sera erano in programmazione tre corti sul tema (oltre a quello di Lebon, l'altrettanto interessante per soggetto e stile La France qui se lève tot di Hugo Chesnard e il curioso Bhai-Bhai di Olivier Klein sulle orme di un musical indiano), nonché il lungometraggio uscito anche in Italia e nominato per gli Oscar come miglior film straniero, Illegal di Olivier Masset Depasse, in cui si indagano gli effetti psicologici delle espulsioni.
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