il manifesto - 19 Luglio 2003
Un assist da Rom
Si è concluso il torneo «Senza Frontiere», un'iniziativa per l'integrazione
GIOVANNI ACQUARULO
ROMA
Lungotevere Dante, all'XI° municipio, ti accompagna al centro S. Tarcisio attraverso una lingua di strada bianca che è tutto un patchwork di buche, minicrateri e rattoppi di bitume. In fondo alla via, ultimo di una sfilza di campi sportivi disposti uno di fianco all'altro, un rettangolo di terra rivisitato all'occasione per una partita di calcio a 8, ha ospitato la finalissima della prima edizione del torneo «Senza Frontiere». Dieci squadre, appartenenze le più disparate (centri sociali, realtà dell'associazionismo, dipendenti della Vodafone...), il patrocinio del Comune, per un torneo cominciato il 26 giugno scorso. Di fronte, mercoledì sera, a sollevare polveroni di gioco scintillante e manovrato con classe, la squadra omonima, frutto di un reclutamento tra i ragazzi presi in carico dalla Caritas e dalla comunità di S. Egidio, e la formazione di casa dell'associazione «Pro Iuventute». Utopia minima che vede, da un lato, i piedi buoni, ancorché amatoriali, di un gruppo che tra le sue fila conta, indiscriminatamente, giovani dal Congo, dal Camerun, dalla Romania e dalla Palestina. Dall'altro, una truppa di calciatori dilettanti che ha il suo cuore - in campo e fuori - nei giovani del campo Rom di Vicolo Savini. È finita 2-1 per questultimi. «Con i Rom abbiamo cominciato a febbraio dell'anno scorso», ci spiega Ulderico Daniele, responsabile e coordinatore del progetto, e operatore presso la casa famiglia «Il tetto», contigua alle strutture sportive di S. Tarcisio. «Fino ad oggi, servendoci della scuola calcio realizzata con l'obiettivo di favorire l'integrazione dei ragazzi e degli adulti di Vicolo Savini, siamo riusciti a iscrivere quattro squadre alle competizioni amatoriali organizzate dal Csi, il Centro Sportivo Italiano. Poi abbiamo costruito questa nuova occasione di incontro, con il torneo che si è chiuso mercoledì, e che vorremmo replicare l'anno prossimo. L'idea, in fondo, era di aprire il campo Rom all'esterno, di dilatare il loro microcosmo di valori e di identità nell'universo cittadino; di pensare il pallone come principio di relazioni che fossero qualitativamente differenti. Uno strumento di socializzazione e di conoscenza, innanzitutto».

La cultura Rom ha il triste primato di sedimentare intorno a sé una muraglia invalicabile di stereotipi, di annodare il filo immaginario del pregiudizio a quello spinato, ben più reale, che stringe d'assedio le roulotte dei campi, asfissiandole silenziosamente. Un reticolato di luoghi comuni spesso di una cupezza disperante, sui quali entrambi, cittadini e popolo Rom si adagiano sfruttandone le ambigue potenzialità. Con i Rom, ovviamente, a subirne l'asimmetria, l'equidistanza impossibile: noi portatori di diritti, loro banditi da una qualsiasi parvenza di cittadinanza. Basta cominciare dalle parole, per verificare, sulla base del nominalismo imperante, com'è costruita la fisionomia verbale dei nomadi. Zingari. Da sillabare lentamente, zìn-ga-ri, per lasciar deflagrare la carica spregiativa che ha rivestito negli ultimi anni i racconti di vita migrante. «Ci siamo sforzati», prosegue Ulderico, «di pensare questo campo di calcio come un altro posto, anzi come un posto altro, sia rispetto alla vita tra le roulotte, col suo tessuto culturale e simbolico introiettato fin da bambini, sia rispetto alla morfologia sociale della città, per così dire, fuori le mura. Volevamo fare in modo di spezzare questo immaginario condiviso che distingue da un lato gli zingari-tutti-ladri, dall'altro noi-cittadini-perbene. Dissolverlo. Nella squadra di casa, quella che si è aggiudicata il torneo, ci sono italiani e Rom, indistintamente. Atomi imprescindibili di una stessa molecola».

Una cosa ancora più fulminante la suggerisce Edoardo Lubrano, che fa un po' da direttore sportivo della Pro Iuventute. «È una specie di autocondanna. Qui nel campo la gabbia delle definizioni e dei ruoli si impone da sempre come qualcosa di irreversibile, quasi un'acquisizione genetica. Una macchina implacabile che impedisce anche solo di sognarsela, una nuova vita, un'immagine di sé, un destino che spazzi via quella solidificata dal pregiudizio. Allora ho detto ai ragazzi: guardate che potete essere diversi da quello che voi stessi credete di essere».

Il concetto di campo, semanticamente parlando, nasconde più di un'insidia. Stabilisce le condizioni per cui tu ne fai parte, e, di conseguenza, il mondo fuori no. Include per escludere. Tu ci sei dentro perchè non sei come quelli all'esterno; specularmente, ne stai fuori perchè non sei uguale a chi ci vive recintato all'interno. È una consuetudine linguistica che lavora come una pericolosissima incubatrice di emarginazione e di isolamento. «Anche questo è un campo», conclude Ulderico con un sorriso che è una mezza provocazione. «Tutto dipende da come decidi di starci dentro. A quali condizioni. Credere di piazzarsi fuori, come se le definizioni, i luoghi comuni, le discriminazioni non esistessero, significa fare gli struzzi. Noi non abbiamo detto: questa è una zona franca, voi Rom fateci quello che vi pare. No. Abbiamo preferito dire: proviamo a darci delle regole, insieme, per sperimentare un modello di relazioni diverso, più familare, buono per mediare i conflitti, e mettere in gioco le differenze, costruttivamente. Delle regole che disegnassero uno stradario leggibile, dai nostri occhi come dai loro».