il manifesto - 18 Giugno 2003
Spagna, divieto di accesso
Una nazione «blindata» che nega l'accoglienza agli extracomunitari ma anche agli europei non spagnoli. In un'intervista Santiago Sierra spiega perché ha rappresentato così la politica claustrofobica di Aznar, alla Biennale
TERESA MACRI'
VENEZIA
Santiago Sierra si ama o si detesta. Il suo porsi frontalmente rispetto al mondo evidenzia una dimensione di pensiero che non lascia spazio a nessun tipo di negoziazione. La deriva sociale e economica in cui l'esistente si è inabissato lo spinge a una analisi geopolitica implacabile, che l'artista traduce in un decostruzionismo minimalista convertito però in un «azionismo» radicale. Le sue azioni, infatti, amalgano la disparità dei mondi paralleli che orbitano nella sedicente società «globale»: quell'universo di «invisibili» (emarginati, sfruttati, immigrati) schiacciato dall'egemonia del capitalismo liberista. La rappresentazione delle asimmetrie del mondo, calzata sulla provocazione percettiva e sul diretto utilizzo di soggetti marginali, cancella nella ricerca di Sierra quella specie di rimozione collettiva verso il «sub-mondo» informale, transitorio e clandestino. Come nel caso di Personas remuneradas para tenir su pelo de rubio (Biennale del 2001), Personas remuneradas para permanecer bloqueando el acceso a un museo (Museo de arte contemporaneo de Pusan, 2000), Personas remunerads durante una jornada de 360 horas continuas (P.S.1, New York, 2000), Obstruccion de una via con diversos objecto (Limerik 2000), ecc. Alla Biennale di Venezia è andato, come sempre, dritto al cuore di una questione cruciale: quali sono i termini del concetto di nazione all'interno di un esistente post-nazionale? Quali segni, oggi, si avvertono della cultura nazionale se non quelli branditi da «zone di controllo o abbandono, di raccolta o dimenticanza, di forza o di dipendenza, di esclusività o di condivisione»? Quale idea trapela dall'incalzante politica conservatrice europea (governi sempre più restrittivi e razzisti di una destra dispotica) se non quella becera del volk?

Invitato da Rosa Martinez per rappresentare il padiglione spagnolo, Sierra non ha avuto remore nel rappresentare il vero volto della Spagna aznariana: reazionaria e contraddittoria. Indubbiamente è il padiglione nazionale (assieme a quello Usa rappresentato da un magnifico Fred Wilson) che più duramente ha espresso la distrofia di un mondo spaccato tra una economia corporativa e una interstiziale, quello che non si è concesso fughe nello spettacolarismo immaginifico (Oliafur Eliasson) o nel decorativismo esaltante (Chris Ofili).

Come hai rappresentato la Spagna di Aznar?

Poiché la Biennale di Venezia è strutturata sui concetti di nazionalità, su una idea che è ottocentesca e che oggi sembra, paradossalmente, molto forte all'interno delle politiche governative dei vari paesi del mondo, ho sentito il bisogno di radicalizzare l'idea nazionalista attorno a quello che è lo strumento più usato: l'esclusione dell'altro. È un dato di fatto che oggi la politica nazionale giochi molto sul terrorismo psicologico dell'invasione degli immigrati. Lo stato sociale della Spagna è a pezzi, vive nell'indifferenza politica, mentre le leggi varano misure sempre più restrittive rispetto all'ospitalità degli stranieri. La Spagna è una oligarchia, è diventata una frontiera inaccessibile in cui si ragiona solo in termini di censura e in cui si è consolidata l'idea di limite, di confine, di ostruzione razziale attraverso la richiesta di passaporti e impronte digitali. I paesi e le città stanno diventando dei luoghi blindati, la cultura contemporanea sempre più un manifesto del divieto. Allo stesso tempo la Biennale stessa, in qualche modo, è lo specchio riflesso di quello che il capitalismo accentua come sentimento collettivo: la competività. Quasi come un campionato mondiale di calcio...

Questa esasperazione del nazionalismo (in Italia per esempio si è arrivati al paradosso di regalare a scuola, nella regione Lazio, un kit con l'inno di Mameli e la bandiera tricolore...) non è una reificazione di un razzismo ancillare?

Il franchismo (come il nazismo e il fascismo) non sono mai stati cancellati da quel «patrimonio» generazionale che ci portiamo dietro come un macigno. Il problema è che il capitalismo galoppante ha potenziato l'isteria consumistica accentuando le disparità del mondo e quindi il separatismo sociale gioca attraverso l'emarginazione economica e la restrizione dei diritti. Promulgare nuove leggi di entrata e di uscita per i cittadini extra-nazionali attraverso i parametri della differenza razziale è, di fatto, un politica che tende a ridistribuire i beni in maniera unidirezionale.

È il «double bind» di questa società che viene millantata come globalizzata e multirazziale...

Questa che viviamo è una globalizzazione di pura immagine. L'immagine che serve al capitalismo per potenziarsi. Una società multirazziale è quella che è ben integrata all'interno di una qualsiasi nazione con dei diritti individuali che vengono rispettati, con una idea di ospitalità che non è classista. La multirazzialità non significa sfruttamento della manodopera né apartheid delle comunità....

Hai blindato il padiglione spagnolo con una cortina di mattoni, ne hai cancellato il nome, hai chiuso gli accessi a tutti i visitatori non spagnoli. È questa la rappresentazione della Spagna del 2003?

Sì, è questa la Spagna ma è questa, più o meno, la dimensione della follia xenofoba che sta imperversando in Europa. Il mio intervento lavora quindi su questa chiusura, mentale e fisica, delle società contemporanee. È un intervento fisico, materiale. Non lavoro sulla metafora. Muro cerrando un espacio vuole rappresentare lo sbarramento reale dentro i confini territoriali della nazione, le barriere visibili e invisibili che vengono stabilite tra le persone e al tempo stesso sottolineare tutti i tentativi che, spesso, vengono fatti per poter entrare dentro uno stato e di cui la clandestinità è uno dei fenomeni più forti. L'interno è vuoto tranne le macerie della costruzione del muro di sbarramento che ho voluto lasciare lì, come fosse una sorta di svelamento della realtà. Molti visitatori non spagnoli, bloccati dalle guardie alla porta di entrata nel retro del padiglione (ingresso consentito solo ai cittadini spagnoli) hanno tentato di entrare con vari stratagemmi. Volevo rendere evidente le ambivalenze tra la curiosità di vedere l'interno, l'insofferenza per il divieto da parte del visitatore e, al tempo stesso, il capovolgimento intenzionale del lavoro che è quello di escludere invece che accogliere il visitatore. Palabra tapada è un semplice intervento concettuale: impacchettando la parola «Spagna» con della plastica nera e scotsch d'imballaggio sulla facciata del padiglione volevo creare uno stato di spaesamento sui suoi significati storici e simbolici per spingere verso una lettura più ideologica.