il manifesto - 11 Gennaio 2003
Il giorno nero dei sospetti
E' scaduto ieri negli Stati uniti il termine imposto agli immigrati per regolarizzare la propria posizione. Una misura decisa dopo l'11 settembre
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
In molte città degli Stati uniti la giornata di ieri è cominciata con code lunghissime di fronte agli uffici dell'Ins, il servizio immigrazione. Niente di particolarmente nuovo perché l'efficienza dei servizi pubblici che lascia i visitatori sorpresi e compiaciuti cade verticalmente quando si tratta dell'Ins, i cui organizzatori possono tranquillamente ignorare le esigenze della propria «clientela», visto che si tratta di gente che non vota. Ma nelle code di ieri serpeggiava qualcosa di speciale. La rabbia - da nascondere attentamente per evitare guai maggiori - per la lunga attesa e per la malagrazia degli impiegati era stata sostituita da un sentimento molto più corposo: la paura che alla fine del percorso burocratico ci fosse la galera o la deportazione. Ieri infatti scadeva il termine entro il quale gli immigrati provenienti da quattordici Paesi musulmani (l'elenco comincia con l'Afghanistan e finisce con lo Yemen) dovevano presentarsi per chiarire la loro posizione e per essere «registrati», con tanto di impronte digitali. Lo scopo dell'operazione è di tenere quelle persone «a portata di mano», in un file bene ordinato da usare nelle indagini contro il terrorismo, e infatti la norma viene da una delle leggi approvate dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Ma il problema è che - un po' per la classica ottusità burocratica che impedisce ogni distinzione, un po' per un evidente elemento razzista - in questo modo si finisce per colpire tanta brava gente che è venuta qui con lo stesso animo che ha portato negli Stati uniti milioni di persone nel corso di due secoli: lavorare sodo per costruire una vita migliore per sé e i propri figli. Ciò che succede, infatti, somiglia alle «operazioni di polizia» che in genere seguono i gravi fatti di sangue. Si sguinzagliano i poliziotti, si creano posti di blocco e l'indomani si forniscono i numeri dei risultati: tante patenti scadute, tanti documenti non in ordine ma di coloro che hanno compiuto il crimine per cui l'operazione è scattata, nessuna traccia. Finora, la legge sull'obbligo di registrazione ha prodotto un numero di incarcerazioni e di deportazioni che va da 250 (secondo l'Ins) a oltre 1.000 (secondo le organizzazioni per le libertà civili). Ma il contrasto è solo sulle cifre, non sul merito. Nessuno dei colpiti è stato infatti accusato di attività terroristica, le loro colpe sono tutte di carattere amministrativo: c'è chi ha lavorato senza permesso, chi è rimasto dopo la scadenza del suo visto, chi si trovava impantanato non per sua colpa in qualche pasticcio burocratico (il disordine dell'Ins è superato solo dall'ufficio degli affari indiani del ministero degli Interni). Anche molti di quelli che ieri erano in attesa davanti agli uffici dell'Ins erano in quella condizione, e questa è la ragione per cui ogni passetto che li avvicinava al momento in cui sarebbero arrivati al cospetto dell'impiegato, invece di rallegrarli aumentava la loro paura. Ecco per esempio Kamal Shaid, pachistano, 54 anni, manager di uno di quei «coffee shop» che dispensano ciambelle e che sono frequentati prevalentemente da poliziotti (il rapporto fra la divisa di agente e la ciambella è oggetto di ricerca antropologica, da queste parti). Kamal è qui da dodici anni ed è «regolare», ma due dei suoi quattro figli rischiano di cadere sotto la mannaia delle nuove norme perché sono oltre i sedici anni (cioè l'età oltre la quale c'è l'obbligo di «registrarsi») e il loro status è da tempo «in attesa di regolarizzazione». In pratica, è colpa dell'Ins se quella regolarizzazione non è ancora avvenuta, ma vallo a spiegare, in questo clima di caccia indiscriminata.

Ultimamente la protesta contro questo comportamento delle autorità federali ha anche trovato un modo abbastanza singolare di manifestarsi: parecchi Consigli comunali hanno votato delibere che arrivano perfino a vietare ai poliziotti delle città di collaborare con le indagini degli agenti dell'Fbi se il loro modo di condurle viole i diritti costituzionali dei cittadini. Ma l'aspetto forse più grottesco di tutta questa storia è che si rischia di «spingere dall'altra parte» tanta gente per bene. Dice ancora Howard Simon dell'Aclu della Florida, la maggiore organizzazine per la difesa dei diritti civili: «Stanno rendendo molti musulmani riluttanti a collaborare con le autorità, privandole di possibili, preziose fonti di informazioni».