il manifesto - 02 Gennaio 2003
L'enclave dei musulmani
Avamposto di Madrid al di là dello stretto e confine estremo di Schengen, Melilla ospita una nutrita comunità musulmana. Mentre in città cristiani e islamici convivono ignorandosi, alla frontiera impazza il contrabbando
STEFANO LIBERTI
MELILLA (Spagna)
Bienvenidos a España». Scritto a caratteri cubitali, il cartello risplende sotto le classiche bandiere rosse e gialle del regno di Juan Carlos, ma non indica l'ingresso nella penisola iberica. Siamo a poche centinaia di metri dalla costa marocchina, sul peñón di Alhucemas, residuo obsoleto di un passato in cui la Spagna era una grande potenza coloniale. Protetto da 40 soldati, questo scoglio fortificato di 0.15 ettari è solo uno dei possedimenti di Madrid ai bordi del regno alauita: oltre all'ormai celebre isola di Leila-Perejil, balzata agli onori della cronaca nel luglio scorso in seguito al grottesco balletto diplomatico-militare tra i due stati rivieraschi - e la cui sovranità rimane incerta, dopo un ritorno ad un traballante status quo antes che la ritrasforma in terra di nessuno -, la Spagna esercita la propria giurisdizione anche su altre minuscole isolette, come il peñón de Veléz de la Gomera, poco distante da Alhucemas, e l'arcipelago delle Chafarinas, vicino alla frontiera algerina. L'importanza strategica di queste isole è dubbia, la loro esistenza ignorata da tutti: sono microterritori spagnoli circondati da acque territoriali marocchine. Non c'è frontiera, solo piccoli avamposti di soldati che vigilano affinché nessuno si avventuri verso gli scogli. E nessuno ci si avventura, così che queste piccole fortezze somigliano a tante cattedrali surreali nel mezzo di un deserto d'acqua. Diversa è la situazione di Ceuta e Melilla, le due città autonome spagnole nel nord del Marocco. Lì la frontiera c'è, eccome. Una frontiera di doppio filo spinato con sensori e torri di guardia, un muro quasi invalicabile posto a protezione di una delle più calde porte d'entrata alla fortezza di Schengen.

Un confine che fa gola

Quelli di Ceuta e Melilla sono gli unici confini di terra tra l'Unione europea e il mondo arabo, particolarmente appetibili per le migliaia di immigrati che si sono lasciati irretire dai bagliori del ricco spazio comune europeo. Fino a poco tempo fa erano centinaia i disperati, soprattutto subsahariani, che ogni giorno si riversavano nelle due città. Giungevano di notte, attraverso le recinzioni o gli impianti fognari, e venivano direttamente portati nei campi di accoglienza - come il famoso Calamocarro di Ceuta, che è arrivato a contenere fino a 3000 persone. Una volta ottenuto l'asilo politico, passavano poi sul continente. Negli ultimi due anni, però, il governo di José Maria Aznar ha scelto la linea dura e ha deciso di innalzare un sistema di protezione apparentemente inespugnabile. Con la Muraglia intelligente radicale - definizione altisonante per una doppia recinzione elettrificata che intornia le due città conferendo loro un aspetto sinistro e poco invitante - la frontiera è stata blindata. E il passaggio si è fatto più complesso. I neri africani sono quasi scomparsi dai dintorni di Ceuta e Melilla e affollano le pensioni di Tangeri dove aspettano che gli scafisti li trasbordino al di là dello stretto di Gibilterra, con una traversata che per molti di loro si trasforma in tragedia.

Ma la scomparsa dei subsahariani non ha certo comportato una riduzione del passaggio transfontaliero verso le due città autonome spagnole. Gli abitanti delle province adiacenti le due enclaves - quella di Nador a Melilla e quelle di Tangeri e Tetouan a Ceuta - possono infatti accedervi muniti di un semplice documento di identità. Il che genera un intenso e vigoroso fenomeno di osmosi: secondo fonti della dogana spagnola, al solo confine di Melilla passano ogni giorno almeno 30mila marocchini. Una stima che una visita diretta non può che confermare: lavoratori a giornata, muratori, braccianti o contrabbandieri, la variegata folla che popola al mattino la frontiera di Beni-Enzar verso Melilla è un fiume in piena, che le spesse inferriate riescono a stento a contenere. I marocchini passano uno a uno attraverso uno strettissimo corridoio, che consente il controllo della documentazione e impedisce che la moltitudine umana si riversi a valanga. Ma ogni volta l'attesa si allunga, la gente accalcata si comincia a scaldare e i poliziotti marocchini non trovano altro da fare per ristabilire la calma che colpire la folla con fruste di gomma o grosse corde. Dall'altra parte, immediatamente dietro i cancelli spagnoli, fiorisce il mercato nero. Si vende di tutto: elettrodomestici, vestiti, generi alimentari, cosmetici, alcolici. Donne cariche come muli riprendono la strada di Beni-Enzar, tracciando un oscillatorio movimento nei due sensi che le impegnerà fino alle sei di pomeriggio, quando le porte di questo scampolo di Schengen si richiuderanno immancabilmente per i cittadini del regno alauita. Motorini stracarichi di mercanzia sfrecciano accanto ai venditori; l'attività ferve e tutti comprano, vendono, smerciano. Al posto di frontiera, i poliziotti spagnoli chiudono un occhio, mentre i marocchini impongono una sorta di pedaggio su ogni prodotto che passa. I trasportatori non attraversano il confine normale, ma virano a destra verso un pertugio scavato nella muraglia, dove staziona un poliziotto incaricato di riscuotere il bakshish, il cui ammontare è proporzionale al valore degli articoli introdotti. Donne e uomini carichi di merce si ammassano poi su un piazzale, dove attendono autobus, pulmini o macchine private per trasportare in tutto il Marocco questi preziosi prodotti europei, che acquisteranno tanto più valore quanto più ci si spingerà a sud, lontani dalla Spagna.



Una manna per i poveri

Melilla è un'autentica manna per questa zona, la meno sviluppata di tutto il Marocco. Quella di Nador è una regione abitata da berberi, rimasta nella più totale arretratezza a causa della colonizzazione spagnola e della politica anti-berbera del precedente re Hassan II e del suo onnipotente ministro degli interni Driss Basri. Dei 100mila abitanti di Nador almeno un terzo vive lavorando a giornata nella vicina città spagnola o commerciando i prodotti che da lì provengono. Abderrahman, che incontriamo subito al di là del confine, lavora nel settore delle macchine usate. Si definisce «commerciante d'auto». In parole povere, compra auto europee a Melilla, ne cambia targa e carta di circolazione con quelle di analoghi ma più vecchi esemplari marocchini, le trasborda a Beni-Enzar eludendo i dazi doganali per poi rivenderle in Marocco. Un commercio redditizio e abbastanza sicuro. «Per ogni macchina che piazzo, riesco a tirar su circa 2000 euro. Di questi ne devo dare 200 agli intermediari per non avere scocciature alla dogana». Il suo è solo uno dei tanti modi in cui gli abitanti di questa regione si arrabbattano approfittando della vicinanza dell'enclave spagnola. «Melilla ci sfama a tutti - continua Abderrahman -, da noi non c'è nulla da fare. O si va all'estero o si lavora con quest'angolo di Europa che abbiamo a due passi».

Il potere marocchino mal sopporta questa presenza spagnola alle porte di casa e continua a rivendicare la propria sovranità sulle due città. Tuttavia, i reiterati appelli del re Mohammed VI e del suo ministro degli esteri Mohamed Benaissa «per rivedere lo status dei territori del nord occupati dalla Spagna» cadono da queste parti nel vuoto più totale. E se, al momento della crisi di Leila-Perejil, sono stati organizzati raduni anti-spagnoli a Beni-Enzar, con centinaia di persone che invocavano il ritorno di Ceuta e Melilla al Marocco, qui il contenzioso non sembra aver scaldato particolarmente gli animi. «I partecipanti a quelle manifestazioni venivano da fuori», assicura Abderrahman. «Erano arabi del sud, che nulla hanno a che vedere con la nostra regione. Nessuno qui vorrebbe che la Spagna abbandonasse Melilla. Per noi sarebbe una catastrofe».

Fedeli alla Spagna

Una professione di fede che accomuna questi berberi del nord a quelli che vivono dall'altra parte, i melillensi di origine marocchina. Dei 70mila abitanti complessivi della città autonoma, 25mila hanno cognomi arabi. Di questi, 18mila hanno acquisito la nazionalità, sono cioè quelli che Madrid definisce «musulmani spagnoli». Buona parte di loro vive a ridosso della frontiera, lungo la cosiddetta Cañada de la Muerte, un quartiere un po' isolato che si è sviluppato sul crinale di una collina. La Cañada è l'unico luogo probabilmente in tutta la Spagna in cui l'orazione del muezzin riecheggia forte e chiara cinque volte al giorno. Diversi minareti si stagliano imponenti tra le abitazioni cresciute in maniera anarchica tra viuzze strettissime. Sui muri campeggiano scritte inneggianti alla Palestina e perfino un improvvido «viva bin Laden». Segni esteriori, che mostrano però come la tanto sbandierata convivenza pacifica tra «mori» e «cristiani» in questo angolo di Spagna al di là dello stretto sia piuttosto un quieto ignorarsi reciproco. I primi vivono prevalentemente nelle zone periferiche e si dedicano per lo più alle stesse occupazioni e agli stessi traffici dei vicini di Nador, con il vantaggio di avere il passaporto di Madrid. I secondi vivono al centro e raccolgono i frutti succosi del vantaggiosissimo regime fiscale della città autonoma. I residenti di Melilla, come quelli di Ceuta, pagano il 50% in meno di Irpef. Tutte le mercanzie che arrivano libere da imposizioni fiscali in questo porto franco sono soggette qui ad un dazio doganale pari al 10% del loro valore, che finisce direttamente nella casse dell'amministrazione cittadina. Così, grazie a questi introiti e agli aiuti del fondo europeo di sviluppo per le infrastutture, il governo autonomo locale dispone di grosse quantità di denaro, con cui può sovvenziare le attività più disparate. Basti pensare che la sola pubblicità che genera l'amministrazione permette di tenere in vita tre quotidiani locali. In una città di 68mila abitanti, un terzo dei quali neanche legge lo spagnolo!

Allontanandosi dalla Cañada e andando verso il porto, Melilla mostra un volto più marziale. Vecchio avamposto del protettorato spagnolo sul Marocco del nord, ha mantenuto molti segni esteriori di una città castrense: una volta alla settimana per le strade del centro sfila ancora l'esercito, secondo una prassi mai abbandonata dai tempi di Franco. E, del resto, il caudillo è piuttosto popolare in questa contrada: da qui è partito, il 17 luglio 1936, il suo levantamiento contro il governo repubblicano, come non mancano di ricordare due placche di bronzo poste sull'edificio che ospita il comando militare locale. Sparsi per la città abbondano i monumenti franchisti, fra i quali spicca persino una statua al generalissimo. Alcuni cittadini melillensi, riuniti nel «Collettivo per la soppressione dei simboli franchisti» si battono da anni contro questa presenza ingombrante: hanno ricoperto di vernice i vari monumenti e presentato diverse richieste affinché la targe vengano ritirate. Ma la loro battaglia si è rivelata infruttuosa: le azioni di rivernicatura sono costate loro una denuncia, mentre il ministro della difesa di Madrid ha fatto sapere che ritiene «inadeguata» un'eventuale rimozione di questi simboli storici. Multi-culturale suo malgrado, Melilla ha l'aspetto di una città fragile, in cui è meglio non alterare equilibri precari. Come nel caso del contenzioso di Perejil, la politica del governo centrale sembra essere una sola: mantenere lo status quo, e tanto basta.