il manifesto - 22 Agosto 2002
Benvenuti nello «zoo umano»
Un gruppo di pigmei di etnia Baka sono «esposti» in Belgio all'interno di un parco che ricostruisce un angolo di foresta pluviale. Proteste e accuse di razzismo contro gli organizzatori che parlano di «azione umanitaria»
Capanna Story Provenienti dal Camerun, i pigmei danzano e cantano davanti ai visitatori, ma ora, dopo le proteste, l'operazione sta naufragando

GABRIELA JACOMELLA
Si sono appena spenti i riflettori sul ritorno in Sudafrica delle spoglie di Saartje Bartmann, la «Venere ottentotta» esibita agli inizi dell'Ottocento nelle fiere di mezza Europa e restituita da Parigi nel maggio scorso, ed ecco che nel francofono Belgio, paese dai trascorsi coloniali e dalla grande presenza di immigrati, le polemiche si riaprono. Ma questa volta non si tratta di un episodio di quasi due secoli fa. Quella contro cui si sono sollevati i movimenti dei migranti e la lega dei diritti dell'uomo è un'iniziativa che ha aperto i battenti all'inizio del mese di luglio, in un paesino dal nome poetico di Yvoir. Basta consultare il sito (ormai anche i comuni più minuscoli hanno pagine web in cui si sprecano le presentazioni lusinghiere delle attrazioni locali), alla voce Butterfly Center. Perché uno dei luoghi più frequentati di questo angolo di Belgio è il parco faunistico di Champalle, sulla riva della Mosa. E all'interno del parco, un angolo di foresta pluviale popolato da miriadi di farfalle, racchiuse in serre «vietate ai cani». Ma aperte, anzi apertissime a un particolare tipo di ospiti: un gruppo di pigmei di etnìa Baka, provenienti dal villaggio di Djoum in Camerun. Un plastico a grandezza naturale, con alcuni manichini che riproducono scene di caccia, pesca, ricerca del miele. E poco più in là, una decina di capanne in cui vivono otto pigmei. Che sono parte integrante di questa «esposizione» sulla cultura dei Baka. E che, come indica il dépliant che accoglie i visitatori, «canteranno e danzeranno per ringraziarvi della vostra presenza». Un modo per far conoscere anche in Europa la vita, la cultura, i problemi di sopravvivenza di un'etnìa minacciata dai dominanti bantù, o un ignobile «zoo umano»di sapore colonialista, come denuncia l'Mnm (Mouvement des noveaux migrants)?

Certo l'episodio si colloca con allarmante precisione nella scia di quei tableaux vivants che a partire dall'Ottocento hanno fatto furore nelle città europee e americane. A New York, nello zoo del Bronx, il pigmeo mbuti Ota Benga venne esposto in una gabbia nel non lontano 1906: un cannibale - così veniva spacciato - in pasto ai wasp e ai figli dei reietti di Ellis Island. Una cinquantina di anni prima, nel 1853, un gruppo di mbuti vestiti da europei si esibì in Gran Bretagna: il fatto che sapessero suonare il pianoforte deponeva a favore della loro «civilizzazione».

Nel secolo scorso, fortunatamente, sembravano essere sopravvissuti solo i musei dedicati all'arte africana, definita in modo improprio come «primitiva», senza che se ne intendessero le reali capacità transculturali (come le definisce Nicholas Mirzoeff nella sua brillante analisi sui meccanismi della cultura visuale). A Parigi, in Belgio (dove il Museo del Congo di Tervuren era nato con l'intento di documentare in patria l'avvenuta sostituzione dell'autorità coloniale al primitivismo sciamanico). Musei spesso contestati per l'ideologia di fondo che li uniformava, ma ricchissimi di testimonianze antropologiche e artistiche. E, per l'appunto, solo musei.

Questo, almeno, fino al luglio scorso, quando l'abitudine ormai démodé di portare in tour i piccoli abitanti dell'Africa centrale è stata riesumata dall'incauta associazione Oasis Nature e dalle autorità cittadine di Yvoir. Scatenando un diluvio di critiche. A sentire gli organizzatori, le accuse di razzismo sono assolutamente ingiustificate e, soprattutto, in malafede: l'iniziativa fa parte di un'azione umanitaria, dal titolo immaginifico di Opération Pygmées, che permetterà di costruire nel sud del Camerun 17 punti di raccolta dell'acqua, 4 infermerie e 4 scuole. In questa zona, sostiene il responsabile (nonché ideatore dell'esposizione) Louis Raets, «sempre più pigmei si sedentarizzano lungo le strade sterrate che passano vicino ai villaggi dei grands noirs dei quali diventeranno i servitori», vivendo in condizioni igieniche precarie e senza strutture scolastiche o reali possibilità di inserimento nel tessuto sociale.

L'intento dunque è più che nobile. Nella pagina web di presentazione del progetto si rimane incantati dall'ingenuità con cui viene descritto il primo incontro con i pigmei nel loro «ambiente naturale: «Siamo stati accolti con una tale gentilezza, hanno dato prova di tanta serviabilité nei nostri confronti, tanti segnali di stima e di rispetto che avremmo voluto fermarci a vivere in loro compagnia, in modo da trasmettere loro una parte delle nostre conoscenze e anche di alleviare le loro sofferenze, perché questo popolo sorridente e ospitale vive, all'inizio del terzo millennio, come noi duemila anni fa...». Ingenuità o pietismo anacronistico? Sta di fatto che l'esibizione dei pigmei è stata bloccata dalle proteste: gli otto non cantano e non danzano più, il numero dei visitatori tende pericolosamente allo zero e senza i 6 euro del biglietto d'entrata l'intera operazione è sull'orlo della bancarotta.

Il gruppo rischia di dover risalire molto presto su un aereo, senza soldi e senza aver visto niente dell'Europa se non la grande serra per farfalle. È il risultato della pubblicità negativa fatta dal Mnm, ma anche dalla Lega belgo-africana per il ripristino delle libertà fondamentali in Africa e, sorpresa, da un'organizzazione statale, il Cec (Centre pour l'égalité des chances), che si occupa di indagare e perseguire ogni azione di matrice razzista. Proprio questo ente, chiamato in causa da Mnm e da altre associazioni, ha prodotto il 6 agosto scorso un documento di valutazione, con un verdetto inappellabile: non c'è razzismo, ma molto cattivo gusto. I Baka, che peraltro non hanno avuto un contratto di lavoro e godono di una limitata libertà di movimento, «appaiono più simili ad un oggetto di curiosità e di interesse che come dei veri partner e collaboratori» e l'intera operazione, di cui peraltro si riconoscono gli intenti lodevoli, tradisce un «modus operandi che ricorda un passato coloniale e paternalista». Che si tratti di qualcosa più di un ricordo è quello che sembrano pensare le varie associazioni che da oltre un mese manifestano a Yvoir e a Bruxelles, ritenendo più importante la tutela della dignità personale degli ospiti venuti dal Camerun che non la portata dell'intervento umanitario.

Il problema che si pone, ancora una volta, è la legittimità della spettacolarizzazione del diverso, l'incapacità di certe frange dell'umanitarismo di rapportarsi in maniera paritaria con le culture che vorrebbero aiutare. O forse no, forse il discorso è ancora più complesso e andrebbe approfondito a livello generale. Come ha osservato Henri Sonet, della radio belga Rtbf, è probabile che non ci sarebbero state le stesse polemiche se quegli stessi pigmei fossero stati filmati in Camerun 24 ore su 24, e se una scelta accurata di quelle immagini fosse stata poi trasmessa in televisione negli orari di massimo ascolto. In stile Grande Fratello, che qui chiamano come in Francia Loft Story. Una «Capanna Story» direttamente dal buon vecchio Congo. Vuoi mettere la pruderie, magari abbinata a un affare tipo Telethon, tot centesimi di euro per ogni minuto di telefonata. E magari con in palio un viaggio per vedere con i propri occhi commossi e impietositi il risultato dell'azione umanitaria tanto generosamente sostenuta. C'è da chiedersi, davvero, cosa sarebbe successo se. Perché più che un asfittico rigurgito di mentalità coloniale, l'iniziativa di Yvoir parrebbe più simile ad un germoglio impazzito della nuova cultura delle immagini, in cui tutto deve essere spettacolarizzato per sembrare vero.

I pigmei a Yvoir, i pigmei sul web. E invece i pigmei torneranno nella loro Africa a mani vuote, con una grande curiosità dentro. Che non è quella espressa da uno dei loro «capi» a un cronista di Le Soir («Non abbiamo visto una grande città. Ci piacerebbe sapere cosa succede a Bruxelles»). Ma quella, ben più sottile e profonda, di capire perché sia necessario mettere in mostra le proprie miserie (resta da definire quali siano reali e quali indotte) per suscitare un moto di solidarietà nel nord civilizzato. E perché, allora, ai rom che stazionano ai bordi delle nostre isole di ricchezza si vorrebbe rifiutare anche il terreno su cui sorgono le loro baracche? Forse sono troppo «normali» per essere fotogenici, e gli manca il brivido dell'esotico. O forse, per loro fortuna, hanno già capito abbastanza della nostra superiore «civiltà delle immagini» per accettare di essere ridotti a fenomeni da baraccone.