29 Settembre 2001
Il Cavaliere incontinente
Silvio Berlusconi è sempre
sottoposto alle critiche provenienti da ogni dove, tanto dai
paesi occidentali suoi alleati che dagli altri. Ma non è tutta
colpa sua, sono piuttosto i suoi consiglieri, adulatori e
razzisti, che gli lasciano dire ogni cosa gli venga in mente
ALESSANDRO DAL LAGO
Questa volta non riesco proprio a prendermela
con Silvio Berlusconi. E' vero, la gaffe sulla
superiorità dell'occidente sull'Islam è mostruosa e, come
tutti capiscono, gravida di pericoli. Ci espone alle
attenzioni di qualche fanatico. Squalifica ulteriormente il
nostro paese all'estero, quando già in Europa è opinione
diffusa che l'Italia sia interessata da una grave involuzione
autoritaria. Complica la vita a tutte le cancellerie
occidentali. Contribuisce, una volta di più, a far considerare
l'Italia la repubblica delle barzellette, e non solo dei
manganelli e della mafia. Siamo dunque nelle mani di qualcuno
al cui cospetto il giovane George Bush acquista la statura di
un atleta del pensiero, di un leader che gli ambienti
diplomatici internazionali non considerano proprio un
genio. Ma perché sorprenderci? E soprattutto, di chi è la
colpa? Qui il discorso si fa più complicato. Il governo
Berlusconi non è solo il frutto di un'alleanza politica che
ricorda in modo irresistibile il film Freaks (I mostri)
di Tod Browning: revanscisti democristiani, liberisti
d'assalto, protezionisti padani, fascisti in doppiopetto e
voltagabbana di ogni genere. E' l'oggetto di desiderio di
qualsiasi interesse industriale, commerciale o finanziario,
dal padroncino veneto alla famiglia Agnelli. Tutta gente a cui
importa solo del proprio profitto, immediato o futuro,
economico o politico, e che si farebbe rappresentare persino
da Lino Banfi, se ci vedesse qualche convenienza. Ma anche
questo non è nuovo. L'aspetto più inquietante del blocco
sociale e culturale che sostiene il Cavaliere è l'adesione
incondizionata di un gran numero di intellettuali "liberali" e
di giornali "indipendenti". Questi non solo hanno trovato un
nuovo eroe, ma fanno di tutto per consigliarlo, per dargli la
linea, per suggestionarlo, per incoraggiarlo con cori da
stadio. Prendiamo per esempio Gianni Baget Bozzo, che pochi di
noi leggono, soprattutto perché usa esternare il suo pensiero
su un quotidiano locale. Pochi giorni fa, ha scritto per Il
secolo XIX le stesse cose che lo sventurato Berlusconi ha
comunicato al mondo. Sicuramente deve avergli letto l'articolo
al telefono, perché è un suo consigliere di fiducia. E che
diceva? Onore ai soldati cristiani che, dal VII secolo
all'assedio di Vienna, si sono opposti all'invasione degli
islamici. Onore, immagino, anche a Tancredi, Goffredo e
Boemondo che, dice l'antica cronaca, sguazzavano nel sangue
degli infedeli fino alle ginocchia, alla presa di
Gerusalemme. E prendiamo Angelo Panebianco, editorialista
dell'indipendente Corsera. Io non credo che Berlusconi
abbia alcuna idea del "relativismo culturale", a meno che
Giuliano Ferrara non gli spieghi la questione nei dettagli. E
quindi avrà dedotto dalla lettura di Panebianco che, se le
culture non sono uguali o fungibili, la nostra è superiore a
qualsiasi altra, visto che gli consente di gestire gli
interessi del paese dalla plancia di comando della Fininvest
(e viceversa). A questo punto si potrebbe tentare un azzardato
confronto tra Berlusconi e Osama bin Laden, almeno sul piano
formale dei rapporti tra proprietà privata e politica. Il
Cavaliere usa la politica per i propri interessi (vedi leggi
sul falso in bilancio e sulle rogatorie internazionali). Bin
Laden ha usato i propri miliardi, per altro guadagnati con
l'edilizia pubblica in Arabia Saudita, per una sua folle
politica internazionale. E' in questa differenza che si radica
forse lo scontro delle due civiltà, occidentale e
islamica? Ma povero Panebianco, non prendiamocela solo con
lui. L'idea che il relativismo culturale implichi un
tradimento della propria identità, occidentale e italiana, non
è solo farina del suo sacco. Anni fa Ernesto Galli Della
Loggia scriveva che la vera crisi del nostro patriottismo, la
debolezza dell'identità italiana, non doveva essere cercata
nel fascismo, ma nella crisi successiva all'8 settembre e
quindi, in poche parole, nell'antifascismo. Un'idea che è alla
base del revanscismo di Fini, ma anche di tutti gli
ammiccamenti a Salò di tanti esponenti della sinistra. E se
poi uno si prende la briga di consultare la cosiddetta
letteratura scientifica, trova montagne di libri, in cui, a
destra o sinistra, si perora la causa dell'identità nazionale
italiana. Contro il separatismo leghista, certamente. Ma più
spesso contro il "multiculturalismo", la "tolleranza", il
"cosmopolitismo", il "terzomondismo", il "relativismo". C'è
stato persino un mio collega sociologo che ha riscoperto la
"razza", con la singolare tesi che le differenze "razziali" si
possono superare solo quando si conoscono scientificamente.
Ah, la scienza. Se poi non si vuole scherzare (ma non sto
scherzando), si deve ammettere che la superiorità dell'attuale
governo sul resto del paese riposa su un discorso pubblico
fondamentalmente razzista, al cui centro troviamo sempre e
comunque la superiorità dell'uomo bianco, imprenditore e
cristiano. Dallo Stige di questo discorso culturale emana un
odore fortissimo di quello che potremmo chiamare, parafrasando
George Mosse, ideologia "nazional-liberista". Leggete civiltà
occidentale e intendete capitalismo puro e semplice. Leggete
cultura nazionale e intendete, più o meno, orbace e stivali.
Leggete lotta al terrorismo e intendete stato permanente di
guerra interna. Tutto questo ha ben poco a che fare con il
liberalismo che abbiamo studiato sui libri. Tant'è che
spaventa persino i nostri alleati, i quali pensavano forse di
aver trovato in Berlusconi un Alcide De Gasperi in ottavo e si
trovano davanti un piccolo signore che parla a vanvera. Ma, lo
ripeto, non prendiamocela solo con lui. Sono i suoi
consiglieri spirituali e teologici che fanno
paura.
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