07 Agosto 2001
 
 
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I quattro ghetti della favela rom
Milano, viaggio nella bidonville di via Barzaghi. In vista dello sgombero GIORGIO SALVETTI - MILANO

Facevo la barista in Romania e faccio la barista anche qua", dice una donna orgogliosa. Una tettoia, un tavolo di assi, un frigorifero appoggiato a una roulotte con pitturata in vernice blu la scritta ambulatorio. "Ci vengono i medici volontari qualche volta", spiega la donna. Per ora serve da deposito di qualche cassa di birra. Subito fuori, sotto un'altra tettoia, alcuni uomini giocano intorno ad un improbabile tavolo da bigliardo.
E' la piazza centrale di una città, o meglio del quartiere rumeno del campo rom di via Barzaghi. Una grande città di baracche e lamiere alla periferia di Milano, una bidonville chiusa tra l'enorme Cimitero Maggiore del Musocco e il muro della ferrovia. Una città complessa, abitata da più di 1000 persone di quattro etnie - kossovari, macedoni, bosniaci e rumeni - arrivate in via Barzaghi in momenti diversi e da storie diverse. Ognuna con il proprio campo e le proprie leggi. Quartieri vicini ma ben distinti e separati. Alla divisione etnica si sovrappone la separazione della legge tra chi ha i documenti in regola e chi invece non li ha. Nei prossimi giorni il Comune di Milano sposterà parte di questa città in un campo "attrezzato" in via Novara: 45 container, poco più di 200 posti. Ci andranno i kossovari che per la maggior parte (ma non tutti) hanno ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiati di guerra, si trasferirà anche qualche macedone, e gli altri?
Nel bar del campo rumeno - loro in via Novara non ci andranno - sono giorni di grande discussione. E' stato annunciato che il Comune vuole censirli. Gli uomini si chiedono che fare. Temono che il censimento sia l'anticamera dell'espulsione per chi non è in regola, temono che la comunità e le famiglie vengano divise. "Io lavoro in una ditta di costruzione, molti lavorono, tanti in nero, per questo non abbiamo il permesso di soggiorno e poi anche se il capo del lavoro ci fa le carte in questura appena sanno che siamo rom, sono problemi", dice uno degli uomini mentre sua moglie mostra le foto della famiglia, numerosissima, tanti bambini, alcune ragazze con l'abito da sposa. Nessuno vuole che venga fatto il suo nome sul giornale, "meglio di no". "Dicono che siamo sporchi, che viviamo in mezzo ai topi, come se per noi fosse bello". Fuori dal bar i bambini scorrazzano e inventano strani giochi con quello che trovano in giro. Un carrello sgangherato, una ruota. Ognitanto passa qualcuno con la radio ad alto volume. Una musica indefinita, elettronica e zingara, copre il suono perenne di un motorino dove un uomo versa regolarmente benzina. E' il generatore che alimenta il frigo del bar. "La luce ce l'hanno tolta, d'inverno andiamo a dormire come le galline, tanto siamo come le galline, non vedi in che pollaio viviamo". Come energia alternativa ci sono solo i fornelli da campeggio e le candele e puntualmente qualche roulotte va in fiamme, l'ultima la settimana scorsa. Nel campo ovviamente non esiste un estintore. "Abbiamo chiesto queste cose e invece ci volevano dare dei sacchi a pelo - interviene un abitante del campo - ma che me ne faccio, non lo uso, e poi la notte con mia moglie, ognuno nel suo sacco, ciao e buonanotte?".
Al centro della piazza, come un monumento, anzi come una fontana, un gabbiotto perde acqua dal pavimento. E' il bagno, l'unico bagno per cinquecento persone. L'unico lusso del campo. Tutto intorno, ammassate le une alle altre ci sono le baracche. Spesso per proseguire si passa per vicoli, cunicoli, non più larghi di un metro. Le soluzioni per inventarsi un tetto sotto cui dormire e per abbellire la propia dimora sono tra le più fantasiose: roulottes con tettoie di lamiere che fanno da patio, cartelloni pubblicitari che servono da recizione. C'è chi vive dietro un brandello del cartellone della pepsi. Non c'è lo spazio per un filo d'erba, non c'è mai ombra e le stradine sono pavimentate con pezzi di sedili o pietre perché quando piove diventino isole su cui poter passare in mezzo al fango. Usciti da uno di questi vicoli, in uno slargo, improvvisamente, spunta una ruspa. Un altro monumento: il terrore dello sgombero e della distruzione del campo o la speranza che qualcuno faccia dei lavori per migliorare la situazione, magari il Comune. E invece la ruspa è di uno dei rumeni, il padrone della ditta dove lavora gliela presta e lui la usa per scavare i canali di scolo del campo. Tutti hanno un motivo per restare. Gli uomini perché lavorano, le donne per i bambini, molte sono incinte. Un uomo ha una cicatrice che parte dal collo e arriva all'ombelico: "mi hanno operato al cuore, nel mio paese queste operazioni non le fanno". Accanto a lui una donna tiene una bambina di pochi mesi rintontita dal sole e dal pianto. Quando è nata, raccontano, il dottore (o chi per lui) le ha rotto una caviglia.
Usciti dal campo c'è uno spiazzo vuoto, pieno di rottami. Sembra che qualcuno se ne sia appena andato. "Sono quelli che hanno qualcosa da nascondere - ci spiegano - vista la brutta aria che tira loro se ne sono già andati". Ma altri sono fuggiti solo per paura. Il campo dei bosniaci è semideserto, un vuoto impressionante dopo i vicoli dei rumeni. Nel piazzale restano poche roulotte e una specie di gazebo costruito con travetti di legno sotto cui è riunita tutta la comunità. Anche qui si discute. Tra loro c'è Fabio Zerbini dell'Associazione 3 febbraio che da anni si occupa dei rom di via Barzaghi, specialemente dei rumeni e dei bosniaci. "O il Comune sistema tutti o nessuno - spiega - in via Novara ci andranno in pochi. Spostano per selezionare. Tra chi è esculso, alcuni se ne vanno ma molti sono decisi a restare e tanti rischiano l'espulsione, noi siamo dalla parte di chi il permesso di soggiorno non ce l'ha. La legge separa le famiglie, le comunità e le etnie creando una tristissima guerra fra poveri". All'ingresso del campo kossovaro ci accoglie uno di loro con il permesso di soggiorno in tasca, parla a titolo personale, parole degne di un Borghezio: "Io non lavoro perché non mi piace, è giusto che gli altri (che non hanno i documenti) vengano espulsi, e poi bevono le birre, lasciano in giro le lattine, che li rimandino a casa loro".

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