da "Il Manifesto"

08 Giugno 2001

La culla africana di Adamo

La patria comune. Veniamo tutti dall'Africa e l'abbiamo lasciata non più di centomila anni fa. Su "Science" i risultati degli studi condotti sul cromosoma Y di 12 mila maschi asiatici. Confermano quelli condotti sulle donne che attestavano le radici africane dell'"Homo Sapiens". Un nuovo duro colpo alla tesi dell'origine multiregionale dei nostri antenati

GIANFRANCO BIONDI - OLGA RICKARDS

 

" La nostra specie è giovane e africana", documenta l'ultimo articolo sull'evoluzione umana pubblicato dalla rivista Science, e il dibattito tra gli antropologi riprende quota, ma con una differenza: il drappello dei multiregionalisti si sfoltisce e la sua voce diviene scientificamente sempre più flebile; al contrario, la schiera di coloro che ritengono che gli uomini moderni discendano da una piccola popolazione che vivena in Africa poche decine di migliaia di anni fa si ingrossa e assume il timbro poderoso della voce di chi colleziona una verifica sperimentale dopo l'altra. Almeno da quando, pochi anni fa, un esperimento della più giovane delle discipline biologiche, quella molecolare, ha cambiato per sempre il modo di fare ricerca in paleontologia umana. E' stato il 1987 a rappresentare per l'antropologia un vero e proprio spartiacque: fino a quella data l'origine africana e recente della nostra specie era un'ipotesi e dopo è divenuta un fatto. Il merito va a Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson, dell'università di Berkeley, che hanno fornito la prima e inequivocabile prova molecolare dell'evento. Finalmente, il percorso iniziato a metà '800 con Darwin per togliere ogni suggestione e inquietudine alle domande "chi siamo?" e "da dove veniamo?" sembrava giunto al termine: per merito della ricerca scientifica avevamo ricevuto identità e "patria". Gli studiosi californiani avevano scelto un tipo particolare di Dna per affrontare il problema, il Dna mitocondriale che si trasmette solo per via materna, e la sua analisi in 147 persone provenienti da tutti i continenti aveva permesso di ricostruire quello che è diventato il più famoso degli alberi dell'evoluzione umana. L'albero si divideva in due rami principali, il primo collegava tra loro solo un certo numero di africani e il secondo tutti coloro che provenivano dal resto del mondo più gli africani rimasti. Per la maggioranza degli scienziati, una simile topologia sosteneva con assoluta evidenza l'idea che la culla di tutti noi fosse l'Africa. Le nostre radici insomma, come si ricavava dal primo ramo, erano in quel continente: lì, una piccola popolazione di una specie pre-sapiens si era evoluta nell'umanità attuale. E, stando a quanto indicava il secondo ramo, i suoi discendenti (le linee africane presenti nei vari raggruppamenti non africani) avevano poi invaso il resto del mondo dando origine nel tempo alle diverse popolazioni locali. Queste ultime finirono per sostituire completamente gli uomini più arcaici che erano arrivati in Eurasia a seguito della prima migrazione avvenuta circa due milioni di anni fa: quella dell'Homo ergaster (da cui si erano evoluti l'erectus in Asia e l'heidelbergensis e il neanderthalensis in Europa). Una volta risolto il "dove", tutto l'interesse fu concetrato sul "quando", ovvero sulla nostra data di nascita. Una questione, per la verità, non troppo difficile da affrontare. Era ben noto all'epoca che le differenze nel Dna degli individui sono determinate dalle mutazioni, che avvengono assolutamente a caso e si accumulano nella doppia elica a un ritmo piuttosto costante, almeno per gruppi simili di animali. Ora, tenuto conto di una tale proporzionalità con il tempo, se si conosce quel "ritmo", quel ticchettio dell'orologio molecolare, basta contare quante mutazioni diversificano due Dna per risalire al momento della loro separazione dall'antenato comune. Il ragionamento fu applicato al primo ramo dell'albero e il risultato della datazione ci ha rivelato quanto fossimo giovani come specie: esistiamo da non più di 200.000 anni. La datazione dell'altro ramo invece, quello non africano, ci ha permesso di risalire al momento in cui abbandonammo la terra d'origine per la seconda volta: circa 100.000 anni fa. L'ipotesi evolutiva che abbiamo appena illustrato, detta "fuori dall'Africa", è ormai nota presso il grande pubblico con il nome di "Eva africana" proprio perché descrive la nostra storia al femminile, per via materna, e ha accreditato le idee di quei paleoantropologi che erano giunti alle medesime conclusioni basandosi esclusivamente sullo studio dei fossili. Così, il modello dell'origine unica, recente e africana dell'Homo sapiens, ovvero noi stessi, è riuscito a segnare un punto a suo favore sulla tesi alternativa, il multiregionalismo, propugnata principalmente da Milford Wolpoff dell'università del Michigan. Per essa, come Wolpoff va affermando ormai da molti anni, gli uomini sarebbero usciti dall'Africa una sola volta, due milioni di anni fa, e quella forma arcaica si sarebbe poi evoluta indipendentemente in ogni continente del Vecchio Mondo nell'umanità attuale. Il punto debole di un simile impianto teorico sta nel fatto che una storia vissuta separatamente in ogni area geografica, e tanto lunga, avrebbe dovuto dare origine a diverse specie di sapiens, ma su un punto l'accordo era ed è generale: l'uomo moderno appartiene a una sola specie. Per superare l'ostacolo, i continuisti sono stati costretti ad immaginare che gli antichi uomini dell'Africa, dell'Asia e dell'Europa mentre evolvevano autonomamente verso ciò che sarebbe diventato sapiens si mescolavano tra loro. Un'invenzione senza dubbio arguta per trasformare tre storie in una sola, ma nessuna ricostruzione paleodemografica è stata in grado di fornirgli il supporto necessario: quell'antichissima umanità avrebbero dovuto muoversi sul pianeta come neppure noi facciamo oggi. La critica dei continuisti all'"Eva africana", comunque, ha posto sul tappeto alcune questioni alle quali è stato indispensabile fornire una risposta sperimentalmente adeguata. Intanto, nessuno poteva assicurare che la ricostruzione al femminile della nostra evoluzione fosse veramente rappresentativa dell'intero fenomeno; e poi, essi ritenevano che ci fosse una progressione continua nell'anatomia dei fossili orientali di Homo (dai reperti di Pechino e Java di oltre mezzo milione di anni fa fino agli attuali cinesi e, giù giù, agli australiani) e che la medesima congruenza morfologica fosse riscontrabile anche in quelli europei, per cui i neandertaliani dovevano essere stati gli antenati diretti delle attuali popolazioni che abitano le contrade d'Europa: i loro geni, in sostanza, sarebbero mescolati ai nostri in quello che è il genoma dell'uomo moderno. A partire dalla metà degli anni '90 del secolo appena trascorso, in molti laboratori sparsi un po' in tutto il mondo gli antropologi molecolari hanno iniziato a studiare l'evoluzione dei sapiens al maschile. E per farlo si sono serviti del Dna del cromosoma Y, quello che ogni padre passa solo ai figli maschi. Chi si aspettava, come Wolpoff, clamorosi rivolgimenti è stato disilluso, perché anche in questo caso la radice del nostro albero filogenetico si è posizionata in Africa e l'origine è risultata addirittura più recente, sebbene del tutto compatibile, di quella mitocondriale: "Adamo" è vissuto tra 50 e 100.000 anni fa. Per il "principio della coalescenza" tutta l'umanità attuale discende da una sola donna per il Dna mitocondriale e da un solo uomo per l'Y, ma è evidente che quei due nostri antenati vivevano con altre donne e con altri uomini, solo che il Dna degli altri si è estinto. Ogni generazione infatti perde l'informazione genetica contenuta nei mitocondri delle donne che non lasciano figlie e quella contenuta nell'Y dei maschi che non lasciano figli dello stesso sesso. Così, tutti noi oggi condividiamo solo una coppia di antenati, i quali, per la verità, non sono affatto una coppia come noi l'intendiamo: cioè un "marito" e una "moglie" che accoppiandosi hanno dato alla luce l'intera umanità. I nostri progenitori, pur essendo tali, non si sono mai incontrati. Veniamo ora all'altra questione e consideriamo il modo in cui è stata risolta dagli studiosi delle molecole. In un recentissimo articolo, comparso su Science a metà maggio, anche la pretesa continuità asiatica è stata definitivamente messa in soffitta. Gli scienziati hanno studiato le mutazioni presenti nel cromosoma Y di oltre 12.000 orientali e hanno scoperto che la sequenza antenata del loro Dna si è originata in Africa in un tempo assai prossimo all'attuale: tra 35.000 e 89.000 anni fa, giusto l'età di "Adamo" che conoscevamo. Un bel punto a favore dei fautori dell'ipotesi "fuori dall'Africa", anche se un risultato analogo era già stato ottenuto con il Dna mitocondriale, e quindi si può affermare che uomini moderni di origine africana abbiano colonizzato le terre d'Asia e sostituito le popolazioni più antiche che colà vivevano. Le ricerche molecolari che hanno smentito la nostra discendenza dai neandertaliani sono state addirittura più sensazionali. A partire dal 1997, soprattutto per merito di Svante Päbo dell'Istituto Max Plank, è stato estratto il Dna dalle ossa fossili di alcuni reperti dell'uomo di Neandertal e quello mitocondriale ha dimostrato che noi e loro siamo due specie separate le quali, pur avendo convissuto per oltre 10.000 anni (da 30.000 anni fa quando i neandertaliani si sono estinti a 40.000 anni fa quando comparve in Europa sapiens), non si sono mai incrociate. Il numero di mutazioni che si sono accumulate nel Dna neandertaliano è di oltre tre ordini di grandezza maggiore della variabilità genetica media che si riscontra nelle attuali popolazioni umane e ciò costituisce una prova convincente della loro estraneità alla nostra ascendenza. Cosa permise all'umanità moderna proveniente dall'Africa di affermarsi nel mondo e cosa invece determinò l'estinzione dei neandertaliani è faccenda sulla quale si interrogano gli antropologi ormai da un secolo, senza aver trovato ancora una risposta davvero convincente. Per molti, il linguaggio e una cultura più avanzata potrebbero essere all'origine del nostro successo evolutivo, ma come dimenticare che quegli uomini più antichi di noi producevano strumenti litici abbastanza sofisticati, erano dei cacciatori esperti ed erano stati capaci di affrontare i rigori del grande freddo dell'ultimo periodo glaciale? Nel numero di maggio di Pnas, un gruppo di ricercatori guidati da Erik Trinkaus dell'università Washington di St. Louis ha esplorato una nuova via, forse promettente. Il collagene delle ossa dei neandertaliani sembra testimoniare che essi fossero capaci di soddisfare il loro fabbisogno proteico ricorrendo quasi esclusivamente agli erbivori terrestri, mentre i primi sapiens avevano imparato a consumare una gran quantità di animali acquatici. La dieta quindi, senz'altro più variata, potrebbe aver svolto un ruolo decisivo nell'ultima fase dell'evoluzione umana. Un'altra considerazione che hanno tratto gli antropologi molecolari dall'età tanto "tenera" che ci contraddistingue come specie è che le razze umane non esistono. Non c'è stato il tempo necessario per suddividerci in blocchi dalle storie filogenetiche diversificate; mentre le popolazioni locali hanno avuto tutto il tempo necessario per accumulare le fattezze più utili nei vari ambienti. I tratti che per quasi tre secoli sono stati ritenuti distintivi di storie evolutive separate non sono altro che indici per valutare le diversità ambientali. La confutazione sperimentale del multiregionalismo ha permesso di abbandonare un concetto, quello di razza umana, tanto sbagliato per quanto radicato nel sentire comune: a dimostrazione che il così detto "buon senso" andrebbe sempre preso con qualche cautela.