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da "Il
Manifesto"
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18 Aprile 2001 Le quasi-caste d'America A Cincinnati la polizia uccide l'ennesimo giovane nero e scattano scontri e coprifuoco. A New York la sinistra marxista americana si interroga su se stessa. Due eventi che si incontrano. Parla Cornel West, autore di "La razza conta" e "Il secolo afroamericano", membro del "Dream team" della cultura nera americana che negli anni si è riunito a Harvard MARCO D'ERAMO - INVIATO A NEW YORK Il completo a tre pezzi su un corpo magrissimo, con la zazzera dei capelli afro alta su un viso lungo e una barba corta, una sciarpa attorno al collo, Cornel West sembra la parodia di un poeta romantico dell'800. E questo professore di Harvard coltiva con cura la sua immagine bohémienne. Nel '91 scrisse un libro sugli intellettuali neri con un'anticonformista afro-americana della cultura femminista, bell hooks (Breaking Bread. Insurgent Black Intellectual Life). Nel '93, un anno dopo la sommossa di Los Angeles, aveva destato molto scalpore il suo Race Matters (che può essere tradotto in due modi: "Questioni di razza", oppure "La razza conta"). Nel libro prendeva posizione sul problema nero sia contro l'eurocentrismo, cioè contro la cultura "Dewm" (acronimo di dead european white men), sia contro l'afrocentrismo. Allora Henry Louis, Jr. Gate lo chiamò ad Harvard a fare parte di quello che, con riferimento alla squadra olimpica Usa di basket, viene chiamato il Dream Team (la "squadra di sogno") della cultura nera statunitense. Con Gate ha pubblicato nello scorso novembre The African American Century. How Black Americans Have Shaped Our Country ("Il secolo afroamericano. Come i neri statunitensi hanno plasmato il nostro paese"). Avevo incontrato Cornel West per la prima volta nel gennaio 2000 a Chicago dove era venuto per parlare ai ragazzi di un liceo ricchissimo (29 milioni di lire l'anno la retta già alle medie). Si era esibito in un'oratoria da pastore battista del sud, giocando con gli accenti e i decibel. Qui a New York invece, nella convention degli accademici marxisti (la Conference of Socialist Scholars) il suo eloquio è molto più bostoniano e sommesso, e nell'intervista addirittura sussurra. Cosa pensa di quel che è successo a Cincinnati in questi giorni? Il problema è il sistema della giustizia criminale negli Stati uniti. Cincinnati è solo la punta dell'iceberg. E' l'iceberg è che c'è una guerra in corso contro i giovani neri, i giovani bruni (i latinos, ndr), i govani poveri. Il problema è che negli Stati uniti d'America la vita di un nero non ha lo stesso valore di quella di un bianco. E i neri di Cincinnati ne hanno avuto abbastanza. Quattro neri uccisi dalla polizia di Cincinati da novembre, cinque da settembre, quindici dal 1995, ecco il prezzo medio della vita di un nero. E questo pone il problema dello stato in America: il sindaco più progressista, il governatore più liberal avrebbero forse agito diversamente? Non è Clinton, il miglior presidente che abbiamo avuto, ad aver indurito il regime di polizia e ad aver preso di mira la gioventù nera? Per giorni e giorni il New York Times ha nascosto la rivolta di Cincinnati a pagina 12, a volte in taglio basso. La stampa segue l'agenda ("ordine del giorno") del potere. E oggi l'agenda la stabilisce Bush ed è basata sulla denegazione, sul negare i neri, i poveri, i lavoratori, ma soprattutto i neri, perché hanno votato in massa contro di lui. Così oggi il mondo nero è totalmente isolato. Siamo di nuovo in guerra ora, non c'è dubbio. Sette anni fa, in "Race Matters", lei fu molto critico con la borghesia nera. Negli ultimi anni sono usciti molti libri sull'argomento, per esempio quello di McCoyPortillo "Black Fences": sette anni dopo ha cambiato idea o no? Sono ancora molto critico, perché abbiamo una leadership così mediocre estratta dalla middle class nera, che non vuole dire, né dirsi, la verità sulla reale natura del potere delle corporations sulla nazione, sulle sue connessioni col capitale globale, non vuole dire la verità su quanto il suprematismo bianco incide ancora oggi in profondità sulla società americana, compreso all'interno dei neri stessi. Noi non abbiamo una leaderhip coraggiosa nella borghesia nera, la nostra è pavida. Abbiamo attivisti di base di straordinaria qualità, ma per loro è difficilissimo emergere a livello nazionale. Anch'io faccio parte della middle class, non per le mie origini, ma per il mio lavoro, la mia posizione d'insegnante. C'è sempre una parte della borghesia che vuole farsi carico, vuole testimoniare, che è solidale con i poveri, ma questa parte è sempre meno numerosa nei nostri giorni. L'ideologia reaganiana si è fatta un varco anche tra i neri: non che siano diventati reaganiani, non si sono spinti così lontano, nella stragrande maggioranza, quasi all'unanimità, votano democratico, ma c'è un conservatorismo nero che cresce in continuazione. Sempre in "Race Matters" lei è stato molto critico con l'hip hop, con la cultura commercializzata dell'underclass nera. Sono sempre molto critico nei confronti di chi riproduce gli stereotipi suprematisti bianchi, le immagini razziste: perché l'hip hop non è monolitico, è molto variegato, e al suo interno ci sono gruppi molto progressisti (e qui Cornel West si lancia in una lista di sigle e marchi che non conosco, ndr). Fra due mesi uscirà un Cd che parla di Malcolm, Martin, della lottà per la libertà. L'hip hop è come ogni altra forma culturale che contiene elementi progressisti, ma il mercato fa suoi solo gli elementi più xenofobici, razzisti, misogini, omofobici. L'aspetto più stupefacente è che la musica dei ghetti neri poveri viene comprata soprattutto dagli adolescenti bianchi dei suburbi ricchi. E' una vecchia storia che si ripete dal blues al jazz fino a oggi. Dipende da parecchi fattori. Da un lato, i giovani bianchi ritengono che i neri siano più vitali, più vibranti, una roba buon selvaggio alla Rousseau. Dall'altro i neri sono associati con la trasgressione, l'illegalità, e ai giovani bianchi piace tanto. Infine, a dire la verità, i giovani bianchi sono repressi e trovano qui un modo di sfogare la repressione. Vi sono due interpretazioni estreme della posizione dei neri nella società americana. Per schematizare, vi è una posizione alla Julius Wilson che considera il problema nero una pura questione di classe, che dipende dal posto occupato nella produzione e nella distribuzione della ricchezza. All'altro estremo (e Gunnar Myrdal è più vicino a questa) i neri sono considerati una casta, un destino iscritto nella propria nascita a cui non si può sfuggire. Come in India ci sono paria ricchi che restano paria e bramini poveri che restano bramini, così negli Usa un bianco povero resta bianco e un nero ricco resta nero. Dove si situa lei tra questi due estremi? Il fattore di classe pesa un sacco, e da questo punto di vista il lavoro di Julius Wilson è davvero illuminante. Ma il retaggio del suprematismo bianco è così pesante che la classe è reclusa nella prigione della razza e del genere. Perciò direi che non è una pura società di casta, ma è caste-like, di tipo castale. La casta rende quasi impossibile sfuggire al proprio destino, mentre nella società americana vi sono dei rarissimi, esilissimi varchi per effettuare una sortita dal proprio destino sociale originario. Hai persone come Colin Powell... In India ci sono ministri intoccabili. Ma è un retaggio del passato. Quel che è interessante negli Usa è che il sistema castale non è un retaggio premoderno ma è un prodotto della modernità. Un sistema di casta come conseguenza postmoderna della lotta di classe? Sono d'accordo. E' per questo che parlo di cast-like. Tocqueville scriveva che nessun nero è mai arrivato in America dall'Africa di sua spontanea volontà. Questo è stato vero per un secolo e mezzo, ma da circa quindici anni non è più vero perché vi è una crescente ondata migratoria dall'Africa, da Etiopia, Somalia, Nigeria, Congo: per la prima volta africani giungono negli Usa spontaneamente. In che modo questo può cambiare l'identità nera, la nozione stessa di "african-american" (il termine "afroamericano" è oggi considerato politicamente scorretto)? Una cosa era sentirsi afroamericani quando in giro non c'era nessun africano giunto qui di recente. Un'altra quando uno deve confrontare la propria supposta identità afroamericana con gli africani veri. Tutto dipende da quanto gli africani che arrivano qui interagiscono con la società. Per il momento restano strettamente segregati, stanno per conto loro, tra loro, con pochissimi contatti con l'esterno. Se cominciano a interagire, a sovrapporsi, a lottare insieme, allora metteranno sotto pressione l'identità afroamericana in questo paese. Si dovrà riconoscere che c'è un sacco di diversità, molteplicità, di eterogeneità all'interno del gruppo di origine africana. Tra loro e noi c'è una differenza di civiltà, di rispetto di sé, di amore di sé. Loro non hanno il riflesso condizionato del suprematismo bianco, come invece abbiamo noi neri americani. Noi stiamo ancora combattendo per il rispetto di noi stessi, ognuno di noi deve ancora lottare per riuscire ad amarsi. Dall'altro lato, per loro è qualcosa di totalmente nuovo l'ossessione del denaro e degli affari che invece ci ha inculcato la società americana. Una domanda che la riguarda personalmente. In una pagina celebre Myrdal dice che il problema nero è diventato una prigione per il genio nero. "Non si pretende da uno studioso ebreo di parlare solo di ghetti ebrei, di scrittori ebrei, di canti ebrei, come si fa con gli studiosi neri". Questo è vero solo se pensi che parlando della condizione nera non stai parlando della generale condizione umana. Ma se parli della condizione nera connettendola con l'umanità in senso lato, questo non è più vero. Ma quest'operazione è vietata dalla percezione razzista di coloro che parlano della condizione nera. Tolstoi parla innanzitutto della condizione russa, Dante parla della condizione italiana, ma per loro si dà per scontato che stiano parlando della condizione umana mentre parlano di russi e di italiani. Gli scrittori neri hanno lo stesso problema. Toni Morrison ha lo stesso problema. Però per i neri questa trasposizione non è data per scontata, anzi è negata. Questa è una sfida, perché lo studio della questione nera è stato sospinto ai margini, come se non fosse costitutiva della società, ma accessoria. Ultima domanda: facendo un bilancio, la situazione dei neri oggi è migliore o peggiore di trent'anni fa? Dipende da quali settori dei neri stiamo parlando. Per quelli agiati, per la middle class nera va molto, molto meglio. I poveri stanno peggio. La classe operaia sta peggio. C'è stato un progresso per i benestanti, opportunità senza precedenti. L'amministratore delegato dell'American Express è nero. Trent'anni fa sarebbe stato impossibile. Lo stesso ad Harvard. Ma quando si vanno a guardare i lavoratori, allora va molto peggio, il numero dei poveri è aumentato, la repressione contro i giovani neri e bruni è selvaggia, il livello di carcerazione è alle stelle, la brutalità nei loro confronti - e qui torniamo a Cincinnati da cui siamo partiti - è spietata. Ma questo tipo di esplosione sociale è diverso da quello degli anni '60. Ora è solo espressione di frustrazione, allora era finalizzata, faceva parte di un movimento sociale. E inoltre c'è un problema serissimo di collegamento tra sinistra bianca e sinistra nera. La sinistra nera è toccata molto più da problemi come disoccupazione, violenza, sistema carcerario nella comunità nera, sono temi immediati, tangibili. La globalizzazione, Seattle, sono temi da protesta più per la middle class. Sono più astratti rispetto alla brutalità nella polizia nella strada sotto casa tua. Ma se sinistra nera e sinistra bianca non entrano in contatto, non ci sarà mai una sinistra statunitense. Ma c'è l'ostacolo della leadership nera che è liberal, non è di sinistra. |