da "Il Manifesto"

13 Febbraio 2001

EDITORIALE

Invenzioni dei gagé

MARCO REVELLI

In ogni periferia metropolitana, ai confini di ogni città, vicino a una discarica, a un cimitero, a uno scarico industriale, quasi sempre sotto la massicciata di una tangenziale o di uno svincolo autostradale o di una ferrovia, o anche sulle sponde di un torrente o di un canale, là dove la comunità urbana finisce e accumula i propri rifiuti solidi e umani, si trova un "Campo". Una terra di nessuno dal nome sinistro (per lo meno nella memoria europea), prodotto di una sorta di geografia del rifiuto che finisce per accumulare uomini, donne, bambini - tanti, tantissimi bambini - là dove la resistenza dei residenti è minore, il rifiuto meno gridato, l'abitabilità e il valore delle aree ridotti al minimo. Sono i monumenti post-moderni all'esclusione, che le nostre amministrazioni comunali - spesso senza distinzione di colore politico - sono andate costruendo a perenne monito circa la loro cultura dell'accoglienza. "Il campo non appartiene alla nostra cultura. Il campo è un'invenzione di voi gagè", la frase è invariabilmente ripetuta a Tor de' Cenci come all'Arrivore, alla Giudecca come a Caivano, o a Parma, a Brescia, a Milano. E non c'è nulla di più vero: nei "campi" i rom e i sinti non ci sono entrati di propria volontà. Vi sono stati costretti, a forza, senza che nessuno ascoltasse le loro ragioni, senza che neppure li si interpellasse. Perché quella era la strada amministrativamente e politicamente più semplice (un unico grande contenitore, un'unica delibera, un solo comitato di protesta da fronteggiare, una sola "area maledetta" da sorvegliare). E perché nessuno si è chiesto mai veramente chi fossero e cosa pensassero coloro che erano destinati a esservi "stoccati" come merci avariate, o rifiuti tossici. Erano figure e culture eterogenee, di religioni differenti (cattolici, ortodossi, islamici), con provenienze differenti (nomadi stabilizzati da tempo in Italia, come buona parte dei sinti, e poi profughi dalle tante terre di conquista di questa fine secolo, bosniaci, croati, kosovari...), con storie e tradizioni eterogenee. Sono stati trattati come materiali inerti e omogenei, indifferenti ai problemi di convivenza. In realtà, se qualcuno si fosse preoccupato di ascoltarli, avrebbe saputo fin dal primo colloquio che l'unità fondamentale di riferimento per queste culture è la famiglia allargata: 30, talvolta 40 persone che conservano rapporti stretti di mutuo appoggio e di cooperazione. La sistemazione ideale sarebbe dunque il cascinale, il piccolo insediamento nel quale il gruppo può gestire la propria autosussistenza. Non il campo di massa, che esaspera tutte le tensioni, vera e propria "bomba sociale" per chi vi abita e per chi vi confina. Ma neppure, in molti casi, l'appartamento d'edilizia popolare. Piuttosto il villaggio, congruente con le abitudini e la cultura di chi è destinato a viverci. Là dove si è praticata questa via, dove si è avviata una qualche forma di co-progettazione o di progettazione partecipata, con il coinvolgimento degli utenti, i risultati sono stati estremamente positivi. A Roma, in via dei Gordiani, dove gli architetti e i pubblici amministratori avevano lavorato a stretto contatto con la comunità rom, era stato progettato un insediamento modello, destinato a offrire una sistemazione civile, prima che il rancore metropolitano, le speculazioni dei fascisti, le paure elettorali di Rutelli affossassero (spero temporaneamente) l'impresa. E' quella la via da praticare, sia per chi si batte per le ragioni dell'accoglienza, ma anche per chi si preoccupa per le questioni della sicurezza. Non serve molto: apertura all'ascolto, disponibilità a guardare oltre i luoghi comuni, un pizzico (ma ne basta proprio poca) di fantasia. Molti, tra gli "operatori di strada" già le posseggono. A quando politici e amministratori?