da "Il Manifesto"

02 Febbraio 2001

Le vite spostate

GIOVANNA BOURSIER

CINZIA GUBBINI ROMA

Via Candoni e Muratella sono due campi-nomadi romani. Il primo è quello dove qualche settimana fa morì l'ennesima neonata rom. Il secondo è un luogo orribile, pieno di topi e di insetti stranissimi, dove sono stipate quasi 500 persone, in gran parte di origine bosniaca, moltissimi profughi della ex-Jugoslavia. Via Candoni doveva sostituire Muratella. Nei piani della giunta Rutelli una volta svuotato, ripulito e riattrezzato con gli ormai famigerati containers, doveva diventare il luogo dove convogliare i rom dei due campi messi insieme (ovviamente solo quelli regolari) per lasciare spazio a Muratella - a sua volta riallestito - a una parte dei rom cacciati con la chiusura del campo Casilino 700. E' il solito, complicatissimo, gioco di pieni e di vuoti. Risultato? Alla fine nei 67 nuovi containers di via Candoni sono stati mandati i rumeni di Casilino 700 e a Muratella adesso ci vivono in troppi, "centinaia", e implorano chiunque si avvicini "di non vivere più con topi e fango", "di avere l'acqua" e "i documenti", senza "il terrore di essere cacciati dalla polizia". Insomma, un altro contesto al limite e un film già visto: tra poco il nome Muratella sarà la nuova "vergogna di Roma", e istigherà campagne "per la sicurezza e l'igiene" contro centinaia di persone. Che nel loro paese non possono tornare. Muratella è sulla via Portuense. All'ingresso un cartello: "Lavori per smaltimento rifiuti speciali, anche tossici e nocivi, stoccati nell'area in località Infernaccio e bonifica ambientale del sito". Si entra da un cancello, poi è tutto in salita. La strada, delimitata da rigagnoli di acqua melmosa, fiancheggia le baracche e le roulottes, stipate sulla sinistra. C'è puzza, immondizia e fango. E' il campo che, nell'ultimo anno a Roma, ha contato il maggior numero di decessi di neonati: quattro, tutti morti "per rigurgito". I rom sono convinti che uno spirito maligno giri per il campo a rubare bambini. Qualcuno giura addirittura di averlo visto. Nonostante ciò di giorno il campo è vitale, proprio grazie ai bambini. Ci accoglie Valentino, che sorride in mutande: "vado alla materna". Arrivano altri ragazzini e tutti chiedono un posto a scuola, lasciapassare per una vita decente. Assalgono gli operatori dell'Arci per sapere se possono andarci. E si muovono scalzi, ma tranquilli, tra lamiere, carcasse di automobili e immondizia. "Io a scuola ci vado già - sorride Cead - faccio le medie e mi trovo bene". E' nato a Vlasenica. Ha 13 anni. Abita in una roulotte che non vuole farci vedere, si vergogna. Ci dormono in undici. "I miei genitori fanno manghel - vanno a mendicare, ndr - ma vorrebbero un lavoro. Ai rom nessuno lo dà". Tra un po' Cead andrà anche in palestra, "a fare karate, mi hanno iscritto quelli dell'Arci che vengono ogni mattina a prenderci per la scuola, anche se io prendo il treno perchè non voglio fare tardi". Mentre racconta, sua nonna, Nejia, lava i lunghissimi capelli di Mira. Lo fa con la pompa e la piccola infila la testa in una specie di tombino. L'acqua è gelata ma non è il peggio, "è anche piena di sanguisughe". Ovviamente non si può bere e così tutti, ogni giorno, fanno la spola a una fontanella vicina, o si arrangiano comprando casse di acqua minerale. I bagni, invece, sono due o tre gabbiotti chimici, per tutti gli abitanti. La maggior parte dei rom di Muratella viene da Bijeljina, una città bosniaca a un pugno di chilometri dal confine serbo, conquistata dalle armate federali già nel '92. Sono arrivati in Italia tra il '92 e il '93. Ma c'è anche qualcuno di Vlasenica, anch'essa ormai parte integrante della Repubblica Srpska. Come Medo, che è qui in zona da sempre. Ha una roulotte che divide col resto della famiglia: "Siamo dieci, con figli e nipoti", e mostra sconsolato materassi ammassati che di notte si distribuiscono sul pavimento. C'è anche la grande stufa di ghisa e, naturalmente, tappeti per terra e alla pareti. Medo ha in mano "la striscia", il cedolino dell'interminabile sanatoria del '98: "Aspetto sempre una risposta, e poi chissà se questo basta per andare nel nuovo campo". Vicino a lui Negip, classe 1931. E' arrivato in Italia nell'82 e nel '92 gli è scaduto il soggiorno: "non me l'hanno più rinnovato". Indossa il tipico cappello musulmano. E' di Sarajevo, ne parla con le lacrime agli occhi, ma non ha soldi per tornarci. Ha un cancro alla gola e ha venduto la casa in Bosnia per curarsi. Non ha assistenza sanitaria: "Non so come fare, una volta venivano quelli della Croce Rossa, ore più nessuno". Huse, invece, il soggiorno ce l'ha. E anche il passaporto. Li mostra insieme a un certificato del Comune di Roma, "Ufficio Immigrazione", ottobre 1999, che ordina il trasferimento imminente al campo attrezzato di via Candoni e specifica le modalità di accesso. Ma Huse sa che "non è più vero". Ha tre bambine e una bella moglie, Jana, che viene da Praga e che fino a poco tempo fa lavorava in fabbrica. Si sono sposati in comune, due anni fa. Lui è nato a Priedor, 50 chilometri da Banja Luka, "dove c'erano i campi di concentramento". Ha girato tutta l'Europa dell'est. Ama molto Budapest e Praga, dove ha conosciuto Jana. Finché entrambi avevano un lavoro sicuro, affittavano una casa al mare: "Pagavamo 600 mila lire al mese. Ci piaceva e eravamo amici dei nostri vicini italiani che venivano spesso a mangiare da noi. Ma poi l'abbiamo dovuta lasciare. Chi ce la fa con tre bambine, la scuola e il resto?". Huse e Jana sono ossessionati dalla pulizia, e mentre ci offrono il caffè sotto una specie di gazebo attaccato alla roulotte, si dilungano su come sia possibile tener pulito in un posto simile. Starli a sentire equivale e fare un salto nella storia dello sgretolamento della Yugoslavia. "Io sono scappato - racconta Huse - ma molti miei familiari sono stati massacrati. Mi nascondevo. Dormivo fuori, sulla neve. Essere musulmano significava essere condannato a morte". Poi tace. Alla fine aggiunge, mentre accarezza i capelli della figlia: "Non è possibile dimenticare".

3 - continua. Le precedenti puntate il 4 e 18 gennaio 2001