PALEOLOGIA
La madre della nostra madre
 
REBECCA CANN *
da "Il Manifesto" del 30 Marzo 2000

H o avuto una visione. Sono in una sala da conferenze affollata e l'oratore comincia a parlare: "Grazie per essere intervenuti quest'oggi. Ho qualcosa di molto importante da comunicarvi. Avevo torto. L'ipotesi multiregionale è morta, i biologi molecolari avevano ragione e prometto che in futuro non respingerò mai più con arroganza un'idea che non riesco a capire". Ma simili scuse non verranno mai presentate, né mi aspetto che il dott. Milford Wolpoff riconosca che il dibattito sul capitolo relativo all'origine dell'uomo moderno è ormai chiuso.

Per troppo tempo la paleoantropologia è stata ostaggio di forti personalità, culti e credi. I convegni scientifici erano più simili a campi di battaglia o rappresentazioni teatrali che a conferenze, dove l'assassinio del protagonista veniva calorosamente applaudito dal pubblico divertito. Le fondazioni e le società scientifiche incoraggiavano questo processo, perpetuando nel pubblico l'idea che i paleoantropologi lavorano isolati, in condizioni fisiche terribili e rischiando ogni momento la vita, mentre gli antropologi molecolari trovano sempre davanti a loro un cammino facile e confortevole. In laboratorio non ci si sporca, non ci si ammala, non si rischia la vita, né ci si contagia con parassiti tropicali. Perché bisognerebbe dar loro retta? In verità, la raccolta dei fossili è fatta per lo più da squadre locali che lavorano in condizioni ambientali terrificanti. Così come i laboratori devono essere ben puliti per rendere minima la possibilità di contaminazione dei campioni e il personale è quotidianamente esposto a sostanze altamente nocive.

Ora la vendetta è stata consumata. La notizia dell'estrazione del Dna da un secondo fossile di neandertaliano, e la sua collocazione al di fuori della diversità umana attualmente osservabile, ci dice che l'ipotesi dell'origine africana della nostra specie è corretta e che gruppi isolati di uomini arcaici, come neandertal, non hanno avuto rapporti speciali né con le popolazioni moderne europee né con nessun altro uomo moderno. Ma perché questa idea aveva offeso così tanta gente, compresi degli specialisti esperti nel comprendere e studiare le distinte forme che hanno affollato la storia evolutiva della nostra specie? Mi sono posta questa domanda per oltre 20 anni e sono giunta alla conclusione che non esiste una buona spiegazione. Sicuramente la tecnologia ci può far sentire incompetenti quando tentiamo di utilizzare un nuovo strumento. Ogni qualvolta compro un nuovo computer per il laboratorio mi accorgo che sono gli studenti più giovani quelli in grado di farlo funzionare al meglio. Questa situazione è esattamente identica all'innovazione culturale osservata dai primatologi negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: i piccoli e i giovani insegnavano alle loro madri i nuovi trucchi e le madri quindi li trasmettevano a tutta la colonia. I maschi adulti erano gli ultimi a imparare. Tuttavia, l'istintiva resistenza alle nuove tecnologie non può essere l'unica e totale risposta al perché alcuni paleoantropologi e genetisti si rifiutarono di vagliare le informazioni sul Dna delle popolazioni umane con lo stesso rispetto dato alla descrizione di un nuovo fossile.

Io credo che il problema sia collegato a un marcato sessismo nello screditare l'innegabile e positiva influenza che madri e sorelle hanno sulla sopravvivenza dei loro parenti più stretti. Se la prima proposta di un'origine africana della nostra specie si fosse basata sui geni del cromosoma Y, che vengono ereditati per via paterna, invece che su quelli trasmessi unicamente dalla madre, come sono i geni mitocondriali, sono sicura che sarebbe stata facilmente accolta e non ridicolizzata. Ognuno sa che il padre combatterebbe fino alla morte per proteggere la propria famiglia, questo è il senso comune.

Il dibattito politico attuale circa l'intervento delle Nazioni Unite per prevenire il genocidio nel mondo, e il ruolo che i paesi occidentali dovrebbero giocare nella politica globale a questo proposito, è il frutto di un'esternazione di stereotipi biologici inconsci che ci portano a considerare certe popolazioni come acqua stagnante a livello culturale, come predisposte alla violenza ed incapaci di controllare le emozioni a livello razionale. In altre parole come tagliate fuori dal corso centrale della vita umana. La scienza ci dice che non c'è una giustificazione biologica per questa visione, ma la scienza nell'ultimo millennio è stata usata più per aumentare la miseria dell'uomo che per favorirne la salute e il benessere. Ora noi scienziati ci troviamo di fronte alla sfida di utilizzare queste nuove conoscenze sulla nostra storia evolutiva recente per insegnare la tolleranza e l'accettazione della diversità.

* Università delle Hawaii a Manoa