Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati
SECONDO RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE DEGLI
IMMIGRATI IN ITALIA
APPROFONDIMENTI
CAPITOLO 3. 1
IL MERCATO
DEL LAVORO
3.1.2 IMMIGRATI E LAVORO INDIPENDENTE
1. Le ragioni di un
fenomeno crescente
In tutte le economie
occidentali si sta verificando una cospicuo inserimento degli immigrati nelle
attività indipendenti e micro‑imprenditoriali, specialmente nei servizi e
nelle aree metropolitane.
Le ragioni di questo fenomeno
possono essere ricondotte all'interazione tra tre fattori. Il primo è
rappresentato dalle sollecitazioni provenienti dal versante della domanda: in
economie post‑fordiste instabili, frammentate, orientate prevalentemente
verso i servizi, cresce non solo la richiesta di lavoro povero in posizioni
subalteme, ma anche lo spazio per piccole imprese e lavoratori autonomi
disposti a entrare in attività che generalmente presentano basse soglie
all'ingresso, modeste dotazioni tecnologiche, scarsi margini di profitto, alti
rischi di insuccesso, in cui la competitività si basa in ampia misura sulla
capacità di tener bassi i costi, per primo quello del lavoro, sui lunghi orari,
sulla versatilità e la disponibilità verso le esigenze dei clienti. Le metropoli
«globali» studiate da Sassen (1997) forniscono molteplici esempi di questa
imprenditorialità povera che risponde alle esigenze di servizi personalizzati e
ad alta intensità di lavoro, che servono alla manutenzione delle infrastrutture
(servizi di pulizia, sorveglianza, manutenzione), oppure rispondono alle
richieste delle fasce professionali ad alta qualificazione che proprio nelle
metropoli si concentrano e sono composte in ampia misura da singoli e famiglie
in cui entrambi i coniugi sono impegnati nel lavoro extradomestico: dalla
manutenzione dell'abitazione (imbianchini, idraulici, falegnami, ecc.) alla
sostituzione di molte attività un tempo svolte dalle mogli‑madri e ora
acquistate sul mercato (gastronornie, lavanderie, ristoranti, caffetterie,
ecc.), al piccolo commercio, ai servizi di taxi. Ora, la piccola borghesia
indipendente autoctona, o derivante da precedenti generazioni di immigrati
ormai integrati, non riesce a riprodursi in maniera sufficiente per dare
risposta a queste domande: attività che per i padri rappresentavano un
avanzamento di status sociale, non sono più tali per i figli, che perseguono
aspirazioni di mobilità sociale piuttosto mediante l'istruzione. Nel lavoro
autonomo tende a riprodursi quella segmentazione del mercato del lavoro con cui
Piore (1979) aveva spiegato l'ingresso degli immigrati nel lavoro dipendente:
le attività più faticose, meno redditizie, più precarie, collegate ad uno
status sociale inferiore, e tuttavia ineliminabili, tendono ad essere devolute
agli immigrati, per i quali rappresentano comunque, almeno in una prima fase,
opportunità da cogliere.
Qui si inserisce il secondo fattore, l'offerta immigrata di lavoro autonomo. Per varie ragioni, dalla scarsa competenza linguistica, al difficile riconoscimento dei titoli di studio, alle discriminazioni più o meno esplicite, per i lavoratori stranieri è arduo migliorare la propria condizione occupazionale nel lavoro dipendente, attraverso le normali carriere gerarchiche. Le aspirazioni di mobilità sociale tendono quindi a riversarsi nel lavoro autonomo. Negli insediamenti più maturi, inoltre, la presenza di comunità nazionali numerose e spazialmente concentrate, genera una serie di domande, riferite alla fornitura di prodotti e servizi che rispondono a tradizioni e specificità culturali (dal cibo, alla musica, ai giornali), dettami religiosi (cibo kasher per gli ebrei, macellerie apposite per i mussulmani ... ), esigenze di mediazione con la società ricevente (traduzioni, interpretariato, servizi professionali, ecc.). Ma l'accesso al lavoro autonomo non è soltanto il coronamento dei sogni di miglioramento sociale. Per immigrati che non trovano sbocchi nel mercato del lavoro generale, può rappresentare una forma di auto‑impiego, precario e poco redditizio, ma in grado comunque di generare un minimo di reddito. Jones e McEvoy (1986) parlano in proposito di «rifugiati del mercato dei lavoro». In alcuni contesti, come quello australiano, è stato rilevato che i gruppi nazionali più propensi al lavoro autonomo sono ancora oggi quelli che non vengono da paesi anglofoni: la maggiore difficoltà a farsi assumere come dipendenti li ha spinti storicamente a intraprendere, spesso dapprima all'interno della comunità di appartenenza e poi nel mercato aperto (Evans, 1989; Le, 2000). E'in ogni caso sempre discussa e di ardua distinzione la mescolanza di forme di auto‑impiego di rifugio con esperienze di micro‑imprenditoria competitiva.
Le comunità immigrate hanno
in questi processi un ruolo che non si esaurisce in quello di acquirenti dei prodotti/servizi
forniti dagli imprenditori coetnici. Le reti di mutuo aiuto che tanta
importanza rivestono nel promuovere l'arrivo di nuovi migranti nell'accoglierli
e nell'aiutarli ad inserirsi nel mercato del lavoro (Ambrosini, 1999), sono in
vario modo anche una risorsa per lo sviluppo di attività indipendenti. Le
imprese «pioniere» che riescono a insediarsi diventano un'incubatrice di altre
imprese, a vantaggio anzitutto di familiari e parenti. Informazioni utili,
opportunità formative, capitali, accreditamento, fluiscono attraverso i canali
comunitari, le istituzioni promosse dagli immigrati (associazioni, circoli,
centri religiosi, scuole, ecc.), le imprese «etniche» già operanti. Tuttavia, i
diversi gruppi nazionali mostrano una capacità molto disuguale di sviluppare
attività autonome. Fattori come la composizione socio‑professionale alla
partenza, i livelli di istruzione, l'anzianità migratoria, il grado di
solidarietà interna, contribuiscono a costruire queste differenze. Recenti
ricerche hanno sottolineato che, nel caso americano, si possono osservare
gruppi nazionali con alti tassi di imprenditorialità, tanto da diventare datori
di lavoro di immigrati di altre provenienze, e gruppi che restano in larga
maggioranza formati da lavoratori salariati (Light, Bernard, Kim, 1999).
Va infine ricordato il terzo fattore, rappresentato dai sistemi normativi dei paesi riceventi, che possono essere più o meno aperti al lavoro autonomo degli immigrati. Storicamente, gli Stati Uniti e altri paesi anglosassoni, più orientati al liberismo economico, hanno offerto contesti più favorevoli agli immigrati interessati a sviluppare iniziative di lavoro indipendente. Altre società ospitanti, come quella tedesca, in linea con una maggiore regolazione statale delle attività economiche e delle professioni, sono state relativamente più generose sul piano dei diritti sociali, ma anche più rigide sotto il profilo delle autorizzazioni a entrare nel mercato del lavoro autonomo (Morokvasic, 1993). Nell'ultimo decennio, una serie di vincoli si sono allentati e il lavoro indipendente degli immigrati tende a crescere anche in questi paesi.
2. Una tipologia
dell'imprenditorialità immigrata
E' il caso a questo punto di
tentare di mettere un po' di ordine nel complesso fenomeno dell'imprenditoria
scaturita dall'immigrazione, in parte legata ad espressioni culturali
provenienti da mondi diversi da quello occidentale; in parte derivante da
sforzi di auto‑impiego, in parte derivante da processi di promozione
sociale prettamente individuali e non collegati all'offerta di prodotti
culturalmente caratterizzati. (1)
Ampliando uno spunto di Ma Mung (1992), possiamo allora distinguere:
a) Imprese tipicamente
«etniche», che rispondono alle esigenze peculiari di una comunità immigrata
ormai sufficientemente insediata in terra straniera, fornendole prodotti e
servizi specifici, non reperibili nel mercato «normale». L'alimentazione è il
settore che più immediatamente fa riferimento a questo tipo di impresa. Nel
caso italiano, il mercato è ancora ristretto e soprattutto disperso: in genere
la nascita di queste imprese è favorita dalla concentrazione urbana e da una
certa stabilizzazione delle popolazioni immigrate. Anche in Italia però
cominciano a svilupparsi attività come quelle dei negozi che offrono carne
macellata secondo i dettami della religione islamica.
b) Una variante dell'impresa
etnica che conviene considerare a parte è quella che può essere definita
impresa «intermediaria», specializzata nell'offrire alla popolazione immigrata
prodotti e soprattutto servizi non tipicamente etnici, ma che necessitano di
essere mediati e «tradotti» attraverso rapporti fiduciari per poter essere
fruiti: sono così definibili svariate attività professionali (legali, mediche,
di consulenza) svolte da professionisti immigrati a profitto dei connazionali,
e alcune attività di servizio rivolte ai circuiti interni al gruppo immigrato
(un esempio è l'agenzia di viaggi; un altro il credito e i servizi finanziari;
un terzo la vendita di giornali, libri, video‑cassette in lingua
originale). Una variante di impresa intermediaria può essere costituita
dalle attività commerciali rivolte al mercato dei paese d'origine, in cui gli
immigrati possono sfruttare la loro duplice appartenenza e i legami intessuti
sia con il paese ospitante, sia con la patria d'origine. c) Un terzo caso è
quello delle imprese che possiamo definire «esotiche», che offrono prodotti
derivanti dalle tradizioni culturali del paese d'origine ad un pubblico di
consumatori sempre più eterogeneo, sofisticato e sensibile all'attrattiva della
diversità e dell'inusualità. La ristorazione, l'alimentazione e lo spettacolo
appaiono gli esempi più diffusi a livello internazionale, e anche nelle
metropoli italiane cominciano ad acquisire visibilità e rilievo. Per analogia,
possiamo inserire in questo spazio anche le attività commerciali di
importazione di prodotti culturalmente caratterizzati fabbricati nel paese di
provenienza, venduti alla clientela del paese ricevente.
d) Il quarto tipo è quello dell'impresa
«aperta», che meno si identifica con le radici etniche, tende a non esibirle
all'esterno e a competere su mercati concorrenziali, specialmente nelle grandi
aree metropolitane, (più mobili, cosmopolite, soggette ad un maggiore turn‑over
delle attività indipendenti), in settori labour intensive (pulizie, trasporti,
edilizia nei servizi; abbigliamento, pelletteria nell'artigianato) e in ambiti
che presentano minori barriere finanziarie, tecnologiche e regolamentari. Qui
il riferimento all'origine straniera talvolta viene a cadere, in altri casi si
esplica sul versante dell'organizzazione interna e delle risorse più o meno
informali (informazioni, capitali, relazioni fiduciarie con clienti e
fornitori, e soprattutto lavoro subordinato a basso costo ed elevata
flessibilità) che svolgono una funzione essenziale nel rendere competitiva
l'azienda in mercati solitamente affollati. Queste stesse risorse tendono a
compensare gli svantaggi di partenza (scarsa conoscenza della lingua, delle
leggi, della cultura della società ospitante), le difficoltà di accettazione da
parte della clientela, i problemi di accesso al credito e i fenomeni
discriminatori che danneggiano l'imprenditoria immigrata da paesi meno
sviluppati. Questo tipo, particolarmente interessante in un paese come il
nostro, per via dello scarso consolidamento di minoranze immigrate e dell'ampia
diffusione delle piccole imprese, può essere ulteriormente disaggregato in due
sottotipi: le imprese del terziario di servizio e le attività industriali, spesso
collegate a processi di decentramento produttivo. Le prime di solito si
rivolgono direttamente al consumatore (i tipici esempi sono quelli del piccolo
commercio, del taxi, e simili); le seconde si posizionano invece su un segmento
di un processo produttivo più complesso, di cui non sempre controllano lo
sbocco finale.
e) Infine, non può essere
dimenticato il tipo dell'impresa‑rifugio, che però è difficilmente
identificabile con una collocazione precisa rispetto al prodotto e al mercato.
Vi appartengono imprese marginali riferibili a diversi settori, sia orientate
verso il gruppo etnico, sia rivolte al mercato aperto. In Italia la modesta
anzianità dei flussi migratori e le rigidità normative hanno finora impedito un
facile accesso di immigrati deboli nel lavoro autonomo, tranne che in attività
informali: il commercio ambulante abusivo è stato per anni la più appariscente
manifestazione di un terziario residuale in cui cercano rifugio i segmenti
deboli di alcuni gruppi immigrati (Catanzaro, Nelken, Belotti, 1997).
La tipologia può essere
esposta in forma più rigorosa mediante il seguente schema, che incrocia
prodotto e mercato, collocando in una posizione trasversale l'impresa‑rifugio.
mercato |
prodotto |
|
|
etnico |
non etnico |
etnico |
A) impresa etnica |
B) impresa intermediaria |
|
E) impresa rifugio |
|
non etnico |
C) impresa esotica |
D) impresa aperta |
3. Casi italiani
Gli italiani come emigranti
si sono segnalati nel mondo per una notevole propensione alla piccola
imprenditoria. Negli Stati Uniti sono stati a lungo il gruppo più
intraprendente, dopo gli ebrei originari dell'Europa orientale, finché
integrandosi nella società americana non hanno cominciato ad affermarsi in
altri settori, diminuendo l'orientamento verso il lavoro autonomo e lasciando
spazio a gruppi di arrivo più recente. Tuttavia nel nostro ordinamento è
rimasta una traccia di questa storia di migranti‑aspiranti imprenditori
attraverso una serie di accordi internazionali che consentivano di avviare
attività economiche ai cittadini provenienti dai paesi in cui tale facoltà era
accordata agli italiani: sostanzialmente, si trattava dei paesi verso i quali di
dirigeva l'emigrazione italiana. Questa preclusione (la clausola della
reciprocità) ha impedito per anni agli immigrati di vari paesi di tentare
l'avventura del lavoro autonomo.
La legge 40 ha parzialmente
risolto questa situazione, ormai palesemente ingiustificabile, consentendo agli
immigrati regolari di aprire ditte individuali e di diventare soci di imprese
cooperative, conservando il vincolo della reciprocità per le società di
capitali. Non si tratta ancora di una liberalizzazione, ma di una soluzione intermedia,
che incanala gli immigrati verso i segmenti più modesti delle attività
imprenditoriali. La normativa (D.Lgs. n. 286/1998) mantiene poi una serie di
vincoli alla possibilità di ingresso e soggiorno per l'esercizio di lavoro
autonomo.
Va tenuto conto in proposito
delle peculiari caratteristiche socio‑economiche del nostro paese:
l'Italia è il paese OCSE con il più alto tasso di lavoro indipendente (28%
circa), e quindi costituisce un contesto strutturalmente favorevole alla microimprenditorialità:
interi settori produttivi sono composti in grande maggioranza da piccole e
piccolissime imprese. Per contro, la numerosità dei lavoratori indipendenti
nazionali si traduce in un cospicuo peso politico e in una corrispondente
capacità di lobbying, che tende a frenare l'ingresso di nuovi competitori. La
vicenda della liberalizzazione del commercio al dettaglio, sancita da una legge
di riforma nazionale ma impaludata dalla regolamentazione regionale e locale,
può essere in proposito istruttiva.
In questi ultimi due anni è
comunque aumentato rapidamente il numero di immigrati iscritti alle Camere di
Commercio come titolari di imprese, anche se permangono vincoli come quello
degli esami di abilitazione per le licenze commerciali, che rappresentano
ovviamente una barriera molto più insidiosa per cittadini stranieri
svantaggiati sotto il profilo della competenza linguistica, nonché le
limitazioni rappresentate dal funzionamento del sistema creditizio.
Mancano però purtroppo dati
nazionali che consentano di quantificare il fenomeno. Le stesse rilevazioni
locali disponibili si basano sul luogo di nascita dei titolari di ditte
iscritte alle Camere di Commercio, includendo così i cittadini italiani nati
all'estero, mentre ignorano gli immigrati che operano sul mercato insieme al
coniuge italiano o in società con italiani. Nell'impossibilità di presentare un
quadro nazionale attendibile, daremo conto di alcune situazioni locali.
3. 1. Il caso di
Roma
Il primo caso da considerare
è quello di Roma, per la quale tuttavia gli unici dati disponibili sono quelli
riportati nel Dossier statistico del 1997 della Caritas di Roma. Alla fine del
1996, risultavano iscritti alla Camera di Commercio di Roma come titolari di
attività autonome 11.850 cittadini stranieri. Il dato però comprendeva anche i
paesi sviluppati e, come sempre, i cittadini italiani o di origine italiana
nati all'estero. In effetti, 4.235 erano europei, 1.316 nati in Libia, 520 in
Etiopia/ Eritrea. Il dato complessivo risulta quindi spurio e riconducibile
solo con una certa approssimazione all'imprenditoria immigrata.
In sintonia con le principali
esperienze internazionali, le attività registrate si concentravano per il 77,4%
nel terziario (36,4% nel commercio), mentre nel 21,4% classificato come
appartenente al settore industriale quasi la metà (9,4% sul totale) era
riferita all'edilizia e costruzioni. Un dato rilevante, in una città turistica
come Roma, era l'elevata incidenza dell'imprenditoria di origine straniera nel
settore alberghiero e della ristorazione, con 413 imprese iscritte, e punte di
concentrazione tra i cinesi (96 unità) e gli egiziani (84).
Quanto alle provenienze, la
presenza degli operatori provenienti da paesi sviluppati condiziona la
ripartizione: l'Europa occupa il primo posto, con il 35,7%; l'America detiene
una quota del 14,9% (1.764 soggetti); il Nord‑Africa rappresenta tuttavia
una porzione importante del totale, con il 23,5% (2.789 soggetti); il resto
dell'Africa incide per l'8,9% (1.056 soggetti); l'Asia per l'8,9% (1.764
soggetti). Tra i gruppi nazionali, espunti alcuni dati atipici come quello
libico, spiccano gli egiziani, con 812 imprese registrate, i cinesi, con 520, i
tunisini, con 468, gli argentini con 438, i somali, con 236, i venezuelani con
253, i brasiliani con 199, gli iraniani con 194 mentre molto modesto risultava
l'apporto, al momento della rilevazione, di marocchini e senegalesi, titolari
rispettivamente di 122 e 20 imprese.
Il più recente dossier
statistico 1999, sempre curato dalla Caritas di Roma, parla di quasi 250 ristoranti
ed esercizi commerciali che propongono nella capitale prodotti alimentari con
caratteristiche etniche: macellerie, salumerie, pasticcerie, frutta e verdura,
vino e birra. I ristoranti censiti sono 147, con una peculiare presenza
asiatica (63 esercizi, pari al 42,9%, di cui 40 cinesi). (2) Gli esercizi commerciali, i ristoranti e i bar
con titolari stranieri si concentrano in modo particolare nel quartiere
dell'Esquilino, vicino alla stazione Termini. Qui il mercato di piazza Vittorio,
con la sua offerta di vari prodotti etnici, esercita un'attrazione nei
confronti di altre zone della città (Caritas di Roma, 1999, pag 337).
3.2. Il caso di
Milano
Una seconda realtà locale da considerare è quella milanese. Già nei primi anni '90 una ricerca‑pilota di Baptiste e Zucchetti (1993) aveva rilevato, sulla base dei dati relativi alle iscrizioni alla Camera di Commercio, un'insospettabile densità di attività economiche avviate da cittadini extracomunitari. Nel 1999 e nel 2000, il rapporto Milano produttiva ha attualizzato l'analisi, limitandola peraltro alle ditte individuali (Bernasconi, 1999; Terraneo, 2000). Emerge così un vistoso incremento dell'imprenditoria straniera, più che raddoppiata nel volgere di sette anni, ma esplosa soprattutto dopo la legge 40. La graduatoria conferma il primato dei due principali gruppi di immigrati impegnati in attività autonome, gli Egiziani e i Cinesi. Il tasso di incremento dei secondi è stato peraltro triplo di quello dei primi, più solidamente insediati, e ha comportato nel 2000 il sorpasso al vertice della graduatoria, confermando così il dato impressionistico di un ormai proverbiale orientamento ad intraprendere dell'immigrazione cinese. Molto significativo è però anche il progresso fatto registrare da gruppi rimasti finora ai margini del lavoro autonomo regolare, noti soprattutto come ambulanti poveri e spesso abusivi: i marocchini, passati da 70 ad oltre 300 ditte individuali hanno fatto segnare l'incremento più cospicuo in termini percentuali, e i senegalesi, che partendo da valori molto bassi sono cresciuti di 3,5 volte, superando le 100 unità. Gli immigrati di alcuni altri paesi, per i quali i confronti non sono possibili in mancanza del dato di partenza, presentano valori particolarmente elevati, se rapportati al basso numero di residenti: si tratta soprattutto degli argentini (3) e degli iraniani. Un'altra componente è quella dei gruppi stagnanti , che si caratterizzano per modesti tassi di incremento del lavoro indipendente: i tunisini, che partivano da basi discrete, sono stati superati dai marocchini e presentano un tasso di incremento più basso rispetto agli altri principali gruppi nordafricani; i somali partivano da basi molto modeste e, pur crescendo, perdono alcune posizioni e vedono allargarsi lo scarto rispetto a gruppi con maggiori propensioni a intraprendere. Si notano infine i gruppi che stentano a farsi strada nel lavoro autonomo, rappresentati in particolare dai filippini: primo gruppo a Milano città per numero di residenti (oltre 16.000 iscritti all'anagrafe a fine '99) e per tasso di occupazione regolare, ma pressoché assenti dalla graduatoria delle ditte individuali, al punto che il tasso di imprenditorialità (rapporto tra numero di ditte individuali e totale dei residenti) è nell'ordine dello 0,3%, contro il 13,2% dei Cinesi e l'12,3% degli iraniani.
Tab. I. Inzinigrati titolari
di ditte individuali in provincia di Milano: confronto 1993/2000 per alcuni
paesi
Paese |
1993 |
1999 |
2000 |
Var. in v.a. |
Var. in % |
Tasso di micro- imprendit. |
Egitto |
631 |
966 |
1.153 |
+522 |
+82,7 |
7,8 |
Cina |
340 |
889 |
1.212 |
+872 |
+256,5 |
13,2 |
Marocco |
70 |
226 |
325 |
+255 |
+364,3 |
2,8 |
Tunisia |
134 |
162 |
200 |
+66 |
+49,2 |
7,2 |
Senegal |
28 |
95 |
126 |
+98 |
+350,0 |
4,6 |
Somalia |
27 |
43 |
48 |
+21 |
+77,8 |
3,1 |
Filippine |
20 |
45 |
55 |
+35 |
+175,0 |
0,3 |
Totale paesi confrontabili |
1.250 |
2.426 |
1 3.119 |
+1.869 |
+149,5 |
a. d. |
Fonte: Milano produttiva, 1999
su dati ISMU e Camera di Commercio; Milano produttiva 2000, su dati Camera di
Commercio
Tab. 2 Immigrati titolari di
ditte individuali in provincia di Milano: confronto 1999/2000 per altri paesi
Altri paesi |
1999 |
2000 |
Var. in v.a. |
Var. in % |
Tasso di micro- imprendit |
Argentina |
230 |
242 |
+12 |
+5,2 |
27,7 |
Ex Jugoslavia |
227 |
241 |
+14 |
+6,2 |
8,6 |
Iran |
147 |
155 |
+8 |
+5,4 |
12,3 |
Etiopia / Eritrea |
132 |
144 |
+12 |
+9,1 |
5,2 |
Perù |
119 |
178 |
+59 |
+49,6 |
2,1 |
Romania |
111 |
139 |
+28 |
+25,2 |
5,4 |
Brasile |
107 |
120 |
+13 |
+12,1 |
4,7 |
Albania |
65 |
92 |
+27 |
+41,5 |
1,6 |
Altri paesi (4) |
2.382 |
2.626 |
+244 |
10,2 |
a.d. |
Totale generale |
5.946 |
7.056 |
+1.110 |
+18,7 |
4,7 |
Fonte: Milano produttiva, 1999
su dati Fonte: Milano produttiva, 1999 su dati ISMU e Camera di Commercio,
Milano produttiva, 2000, su dati Camera di Commercio
Le attività più
rappresentate, tra le ditte individuali con titolari stranieri, sono quelle
riferite all'edilizia, con 1.155 ditte, pari al 16,4% del totale; la
«confezione di articoli di vestiario e accessori», con 597 unità (8,5%), gli
intermediari del commercio, con 505 unità (7,1%); i servizi di pulizia, con 490
unità (6,9%); il commercio ambulante, con 421 unità (+47,2% rispetto al '98), i
trasporti con 365 unità (5,2%). Si tratta perlopiù, in sostanza, di attività
che rientrano nel basso terziario e nei servizi di manutenzione che concorrono
al funzionamento della vita quotidiana della metropoli milanese, con l'aggiunta
di alcune attività manifatturiere ad alta intensità di lavoro, come le
confezioni, a cui si può aggiungere la pelletteria, con 241 ditte (3,4%). Ne è
una riprova anche la concentrazione in Milano città. Un caso a parte è quello dell'intermediazione
commerciale, in cui però il 40% dei titolari (dato 1998) proviene dall'Unione
europea. In generale, le iniziative degli immigrati dai paesi non occidentali
si concentrano nei segmenti poveri del mercato, mentre gli imprenditori provenienti
da paesi sviluppati si insediano nei comparti più remunerativi.
I dati disponibili
documentano anche alcune specializzazioni nazionali. Marocchini e senegalesi
si orientano soprattutto verso il commercio ambulante. Gli iraniani, componente
numericamente modesta ma molto intraprendente, si concentrano per il 70% nel
conunercio dei tessuti (dato 1998). Anche i latino‑americani, fatta
eccezione per gli argentini, operano soprattutto nel basso terziario (servizi
di pulizia, di trasporto su strada, di corriere espresso, in minor misura di
commercio ambulante) e nell'edilizia.
Tra le iniziative degli
immigrati provenienti dall'Europa orientale, numericamente esigue, l'aspetto
più interessante è la maggiore incidenza delle attività professionalmente
qualificate. Per i titolari nati nei territori della ex‑Jugoslavia è però
impossibile distinguere italiani, profughi dell'immediato dopoguerra e veri e
propri immigrati. Tra le ditte con titolare rumeno, compaiono attività
commerciali diversificate, dal commercio all'ingrosso, agli intermediari del
commercio, alle tintorie, ai bar, nonché un certo numero di servizi di
carattere tecnico, informatico, e comunque di livello medio‑alto. L'edilizia
occupa un ruolo significativo ma non centrale, con 26 ditte iscritte (dati
1998: Bernasconi, 1999).
I cinesi hanno due fondamentali specializzazioni. La prima è quella manifatturiera, che comprende oltre il 60% delle ditte individuali registrate, suddivise a sua volta nella confezione di articoli di abbigliamento e nella lavorazione delle pelli. Nel primo caso, si trattava nel 1998 di 360 unità, pari ai 4/5 delle ditte individuali con titolare straniero registrate nel comparto e al 16% del totale, comprese quindi le ditte con titolare italiano; nel 1999 si è registrato un incremento del 40,8%, che ha portato il totale a 507 ditte. Nel secondo caso, le ditte registrate nel '98 erano 223, e totalizzano addirittura il 96,9% sul sub‑universo delle ditte individuali con titolare straniero operanti nel comparto, e il 27,4% del totale. Nel 1999 il dato è rimasto invece sostanzialmente fermo (+5,8%). La seconda specializzazione, più nota e visibile all'estemo, è quella della ristorazione, con 122 ditte, pari alla metà di quelle con titolare straniero nel 1998, salite a 155 nel '99 (+27%). Sono poi cresciute notevolmente, nel '99, le attività commerciali, all'ingrosso, ambulanti, oppure al dettaglio in esercizi specializzati. Come in altre metropoli del mondo, i cinesi, la cui presenza a Milano rimonta a vari decenni addietro, tendono a concentrarsi in un quartiere ben determinato, attorno a via Paolo Sarpi, caratterizzandolo sempre più come una piccola Chinatown.
Infine, gli egiziani sono, oltre che un gruppo numeroso, anche un caso rappresentativo dell'iniziativa economica degli immigrati che, insediandosi anzitutto nei segmenti meno remunerativi del mercato metropolitano, tentano di muovere verso ruoli più qualificati: pur rimanendo nello stesso settore produttivo, il passaggio da dipendente a titolare riveste questo significato. I settori prevalenti sono infatti quello dell'edilizia (31,2% delle ditte individuali con titolare nato in Egitto) e delle pulizie (21,5%; nel '98 erano la metà di tutte quelle con titolare straniero). Ma l'aspetto più visibile e interessante è l'apertura, nel giro di una decina d'anni, di una sessantina di ristoranti e pizzerie (a cui ne andrebbero aggiunti altri, intestati a società, mogli italiane, soci e prestanome), che pone gli egiziani al secondo posto dopo i cinesi nell'offerta di ristorazione «etnica». Un'altra nicchia in cui gli egiziani stanno entrando è quello dei prodotti di panetteria: 15 ditte nel 1998, ma è molto probabile che nell'ultimo anno siano aumentate. E' un tipico comparto in cui le condizioni di lavoro disagiate, gli orari gravosi e la concorrenza delle grandi strutture distributive scoraggiano il ricambio dell'offerta imprenditoriale nazionale, mentre i consumatori italiani restano in buona parte affezionati all'idea del pane artigianale confezionato e venduto sotto casa; per gli immigrati che hanno appreso il mestiere, a volte in patria, a volte in Italia, questo contesto può rappresentare un'opportunità di promozione sociale. Gli egiziani sono anche protagonisti dell'offerta di prodotti e servizi destinati a rispondere ai bisogni specifici delle popolazioni immigrate: l'esempio tipico è rappresentato dalle macellerie islamiche, che hanno registrato recentemente un piccolo boom a Milano, con più di 50 esercizi attivi, fino a suscitare reazioni preoccupate da parte degli operatori italiani del settore. L'integrazione degli immigrati, una relativa stabilizzazione abitativa, i ricongiungimenti familiari, sono destinati a far lievitare una domanda di prodotti di questo tipo, che nelle esperienze internazionali è spesso identificata come la molla originaria per lo sviluppo dell'imprenditoria immigrata.
Vanno poi ricordate le
attività di intermediazione del commercio (38 ditte individuali), e quelle
operanti in servizi tecnici e professionali qualificati (dall'informatica alla vendita e riparazione
di computers, fino alle agenzie pubblicitarie e ai sondaggi di mercato), anche
se al crescere della qualificazione aumenta la probabilità che si tratti in
realtà di cittadini italiani nati in Egitto. (5)
Va infine segnalato che il
Dossier statistico 1999 della Caritas di Roma, sulla base della guida redatta
dal giornale Terre di mezzo, segnala la presenza a Milano di 337 ristoranti
etnici, di cui più della metà (172) propongono cucina cinese.
3.3. Il caso di
Torino
Un'altra analisi locale
riferita ad un contesto metropolitano riguarda Torino. Una prima indagine, su
dati aggiornati al 1992, ha rilevato l'iscrizione presso la Camera di
commercio, di 1400 imprese con titolare nato in Africa o nel Vicino Oriente
(con esclusione dei Cinesi), poi ridotte a 619 casi dopo il controllo dei
nominativi (Santi 1995). Un'indagine più recente, su dati del dicembre 1998, ha
rilevato l'iscrizione di 3.878 titolari di impresa, di cui però 1.260
provenienti dall'Unione europea e 432 da altri paesi a sviluppo avanzato
(Conticelli, 2000). Il complesso dei titolari di imprese provenienti dall'Est
europeo e dai paesi in via di sviluppo ammonta quindi a 2.179 soggetti, al lordo
di cittadini italiani ed europei occidentali nati in questi paesi. La ricerca
ha poi approfondito la componente delle imprese ubicate a Torino città, e con
titolare nato in uno dei primi 20 paesi nella graduatoria dei gruppi nazionali
immigrati residenti in città. Rapportato con il numero dei residenti, ne
risulta un tasso di lavoro autonomo pari al 6,5%, superiore quindi a quello
milanese. Un altro dato interessante è la presenza di una quota significativa
di donne, pari al 28,9%.
Rispetto alle provenienze, il
gruppo più numeroso risulta essere quello tunisino, con 326 imprese, pari al
20,6% dei totale e una presenza distribuita in quasi tutti i settori di
attività. Prevale comunque il commercio, e in particolare il commercio
all'ingrosso (50 imprese), dove questa componente rappresenta un terzo del
complesso degli operatori stranieri. Discreta è però anche la penetrazione
nell'industria meccanica e della lavorazione dei metalli (19 imprese), un dato
che distingue nettamente i titolari nati in Tunisia dal resto della popolazione
considerata. Ancora una volta sorge però il dubbio di una distorsione del dato,
causata da una presenza non quantificabile di italiani nati nel paese
nordafricano.
Seguono in graduatoria i
cinesi, con 276 imprese, 127 delle quali appartenenti al comparto dei pubblici
esercizi (56,4% del totale delle imprese con titolare straniero ) e 108 (56,8%)
all'industria manifatturiera. Ancora una volta, i cinesi ribadiscono le
specializzazioni nella ristorazione e in alcune attività manifatturiere, mentre
a Torino è poco rilevante l'intrapresa nel settore commerciale.
Al terzo posto, e questo dato appare peculiare del caso torinese, si trova il gruppo marocchino, con 160 casi, concentrati in modo particolare nel settore delle costruzioni, dove rappresentano più del 28% delle imprese con titolare nato all'estero. L'apparente anomalia si spiega con la consistenza dell'immigrazione marocchina nel capoluogo torinese, dove rappresenta il 30% dei residenti, un valore ben superiore a quelli rilevabili a Roma e a Milano. Schmidt di Friedberg (1999) ha fatto notare che in alcuni casi, come quello della macellazione rituale, i marocchini stanno occupando a Torino nicchie economiche che a Milano sono invece appannaggio degli egiziani: non sarebbero quindi tanto peculiarità culturali ascritte, quanto piuttosto i sistemi di opportunità, risorse e vincoli incontrati nel luogo di insediamento a incidere sugli investimenti imprenditoriali degli immigrati.
Il quarto gruppo è quello
egiziano, con 141 imprese, con punte di specializzazione nei pubblici esercizi
(28 casi), nell'edilizia (23), nei trasporti (15), nei servizi alle persone e
alle imprese.
Anche a Torino, la piccola
comunità iraniani si segnala per un'elevata propensione al lavoro autonomo (72
imprese iscritte) e una specializzazione nelle attività commerciali (22 imprese
nel commercio al dettaglio, 18 in quello all'ingrosso).
Va inoltre rilevata, nel caso torinese, una tendenza alla concentrazione urbana in alcuni quartieri popolari tradizionalmente vivaci sotto il profilo commerciale e oggi abitati e frequentati da immigrati: la zona di Porta Palazzo e quella di San Salvario. Quell'addensamento che appare foriero di marginalità e propizio alle attività illegali, è anche un fattore che favorisce lo sviluppo di imprese e attività commerciali che rilanciano e diversificano la tipica vocazione economica di questi quartieri.
Ritroviamo quindi alcune
costanti nelle analisi dei dati relativi alle iscrizioni alle Camere di
Commercio: nelle tre città considerate il fenomeno appare in netta crescita; si
diffonde soprattutto in alcuni settori (terziario povero, ristorazione,
edilizia, commercio); vede come protagonisti alcuni gruppi nazionali, che
tendono a caratterizzarsi per alcune specializzazioni abbastanza identificabili.
Ci ripromettiamo di approfondire queste considerazioni nel paragrafo
conclusivo.
3.4. Il caso
dell'area pratese
Oltre ai tre casi
metropolitani illustrati, vale la pena di accennare ad un'esperienza
imprenditoriale diversa, non inserita nel contesto di una grande città e non
riferita al settore dei servizi: quella cinese dell'area di Prato. Qui la
peculiarità dell'iniziativa imprenditoriale consiste nell'inserimento in
un'economia distrettuale in cui, non senza contrasti, i cinesi stanno sostituendo
l'offerta di lavoro autonomo nazionale nelle fasce basse della filiera delle
confezioni. I dati delle iscrizioni alla locale Camera di Commercio lo
confermano, rivelando un'altissima concentrazione (al limite del 90%) nel
settore dell'abbigliamento.
Imprese cinesi in provincia di
Prato: distribuzione per settori, 1999
Settori |
v.a. |
% |
Industrie tessili |
51 |
4,40 |
Confezione di articoli di
vestiario |
1.016 |
87,74 |
Fabbricazione di articoli da
viaggio |
10 |
0,86 |
Commercio all'ingrosso e
intermediari |
21 |
1,81 |
Commercio. al dettaglio |
24 |
2,07 |
Ristoranti |
16 |
1,38 |
Bar |
3 |
0,26 |
Altro |
17 |
1,47 |
Totale |
1.158 |
100,00 |
Nota: sotto la voce «Ditte
cinesi» tutte quelle con titolari o detentori di altre cariche sociali di
origine cinese.
Fonte: CCIAA Elaborazione:
Centro Ricerca e Servizi per l'Immigrazione dei Comune di Prato. (6)
L'imprenditoria cinese è
quella che più assomiglia alle esperienze nord‑americane di ethnic
business; ma è anche quella che maggiormente riflette gli aspetti ambigui e le
conseguenze indesiderabili dello sviluppo dell'imprenditoria etnica. Sarebbe
sbagliato costruire un'immagine dell'imprenditoria cinese a partire dalla
cronaca nera, ma i risultati di ricerca confermano la presenza di alcuni nodi
problematici. Questi riguardano in parte il versante per così dire interno
della comunità immigrata: la scarsa o nulla tutela del lavoro dipendente;
l'alimentazione di un'immigrazione clandestina, che rischia di pagare
l'ingresso in Italia con la segregazione e lo sfruttamento; le infiltrazioni
malavitose; l'utilizzo di lavoro minorile; le conseguenze psicologiche e
sanitarie di un'intensissima applicazione al lavoro. Altri problemi rimandano
al rapporto tra le iniziative imprenditoriali cinesi e gli operatori italiani.
Particolarmente nei confronti dell'imprenditoria cinese si sono infatti levate
voci di protesta per la concorrenza sleale sviluppata ai danni delle piccole
imprese italiane operanti in settori come le confezioni e la pelletteria. Qui
infatti condizioni sub-standard all'interno consentono di offrire prezzi
competitivi all'esterno.
La valutazione dei costi e
dei benefici di queste esperienze dal punto di vista della società ricevente è
comunque articolata: se alcuni operatori, gli artigiani della pelletteria, i
lavoratori a domicilio, i produttori italiani per conto terzi nella filiera
dell'abbigliamento vengono danneggiati, altri traggono vantaggi
dall'inserimento di nuovi produttori a basso costo. In un certo senso,
realizzano alle porte di casa quel decentramento delle produzioni in paesi a
costo del lavoro più basso che sta interessando vari settori manifatturieri ad
alta intensità di lavoro. Così, imprese capofila, grossisti, rivenditori, al
di là degli affittuari a caro prezzo di laboratori e magazzini, ricavano
vantaggi competitivi dai deprecati sistemi di lavoro posti in atto dalle
imprese cinesi.
Particolarmente nel caso
toscano, è stata notata una sorta di complementarietà tra l'inserimento delle
attività cinesi e l'evoluzione di alcuni distretti industriali,
dell'abbigliamento e della pelletteria [Zanfrini, 1998]. Non soltanto certi
aspetti organizzativi consentono di istituire delle analogie tra piccole
imprese distrettuali di prima generazione e nuove iniziative cinesi, come la
sovrapposizione tra famiglia e impresa, la contiguità o al limite la
coincidenza tra la casa e il laboratorio, la flessibilità assicurata
dall'utilizzo di manodopera familiare; ma le imprese cinesi tendono oggi a
compensare il venir meno di alcune risorse sociali che avevano contribuito nel
passato alla competitività del distretto, come la disponibilità dei giovani a
garantire il ricambio dell'imprenditoria artigiana, o l'offerta di manodopera
femminile per il lavoro a domicilio [Campani, Carchedi, Tassinari 1994].
Anziché minare le basi dell'economia distrettuale, i nuovi arrivati sembrano
trovarvi un terreno congeniale all'insediamento, e tendono ad alimentare per
così dire «dal basso», accollandosi le operazioni più gravose, meno
remunerative, e soprattutto meno accette alla forza lavoro, la competitività
complessiva del sistema produttivo locale.
3.5. Il caso
emiliano
Un'altra esperienza locale su
cui è possibile disporre di alcuni dati conoscitivi è quella emiliana. Come nel
caso di Prato, si tratta di un contesto di Terza Italia; ma non si verificano
casi di concentrazione simili a quelli rilevati nella provincia toscana.
L'imprenditoria immigrata in Emilia è più urbana e dispersa.
In Emilia‑Romagna alla
fine del 1986 erano registrati presso le Camere di Commercio 4.649 titolari di
impresa nati all'estero. Un contributo di Pinto e Gaxcia (1999) ne illustra le
caratteristiche. Il fenomeno era maggiormente consistente in provincia di
Bologna (1.069 casi), seguita da Modena (700) e Reggio Emilia (661), le tre
province più interessate dall'immigrazione extracomunitaria.
Esclusi i paesi occidentali,
il contingente di imprenditori più numeroso è fornito dalla Cina (303 imprese),
seguita dalla Tunisia (297), dall'Argentina (295), dalla ex Jugoslavia (233),
dal Marocco (204), dalla Libia 153), dall'Etiopia (115), mentre solo all'ottavo
posto troviamo l'Egitto (103).
L'imprenditoria cinese è
particolarmente attiva a Bologna e a Reggio Emilia, quella marocchina e
tunisina ancora a Reggio Emilia, quella senegalese a Ravenna.
Rispetto ai settori di
attività, in provincia di Bologna emergono due filoni di inserimento. Il primo
è quello della lavorazione di cuoio e pelli e delle confezioni, colonizzato da
operatori cinesi (titolari di 79 imprese su 96 di proprietà estera) che fanno
parte di una filiera che controlla l'intero processo, dalle varie fasi di
lavorazione, alla distribuzione e alla vendita al dettaglio.
Un panorama molto più
diversificato è offerto dal secondo settore, quello edile, per il quale Pinto e
Garcia parlano di strategia di inserimento in un ambito «a bassa resistenza» [
1999: 70]. Ancora una volta, risulta difficile distinguere imprenditori
stranieri e imprenditori di cittadinanza italiana Infatti, al primo posto, con 38
imprese su 190, troviamo il gruppo tunisino; al secondo con 26, quello
argentino: due provenienze in cui non è difficile immaginare siano presenti un
certo numero di imprenditori con cittadinanza italiana. La terza posizione è
occupata poi dai Marocchini, con 19 unità. (7)
Anche a Modena, dove sono
registrate 145 imprese con titolare straniero operanti nel settore edile, la
graduatoria per nazionalità è la medesima: Tunisia, Argentina, Marocco.
Gli approfondimenti
qualitativi effettuati disegnano un profilo dell'imprenditore abbastanza simile
a quello rilevato a Milano e a Torino: eccettuato il peculiare caso cinese, si
tratta di soggetti giunti in Italia da diversi anni, con un buon livello di
istruzione, ben inseriti nel nostro paese, in possesso di un'adeguata
conoscenza della lingua italiana e del mercato locale. Istituzioni e
associazioni sono risultate sostanzialmente assenti dai percorsi di sviluppo
imprenditoriale. Si ha quindi un'ulteriore conferma del fatto che, almeno in
questa prima fase, le esperienze imprenditoriali avviate da cittadini stranieri
hanno ridotte connotazioni etniche e si avvicinano a quelle della popolazione
nazionale; sono frutto più dell'iniziativa individuale che del sostegno
comunitario; rappresentano il coronamento di un processo di integrazione, più
che scaturire dalla marginalità e dalla ricerca di sbocchi occupazionali.
4. Conclusioni:
immigrati in cerca di promozione ed economia italiana
L'analisi svolta conferma,
con riferimento al caso italiano, alcuni tratti delle esperienze di lavoro
indipendente promosse da immigrati identificate dalla letteratura
internazionale.
Si tratta anzitutto di un
fenomeno in crescita, particolarmente nell'ambito delle economie metropolitane
basate sui servizi, con l'aggiunta di alcuni comparti manifatturieri ad alta
intensità di lavoro. Nel caso italiano, le aperture normative si incontrano con
la domanda di mercato, con l'evoluzione del fenomeno migratorio e con una
struttura economica che tradizionalmente lascia ampio spazio alle imprese
minori e al lavoro autonomo.
Si tratta poi, in larga
misura, di imprese inserite nei segmenti più poveri e tecnologicamente
arretrati del terziario, dell'edilizia e in parte dell'artigianato. La domanda
di lavoro precario, scarsamente qualificato, a basso status sociale, che
caratterizza le economie post‑fordiste, non si limita al lavoro
dipendente, ma investe anche il fattore imprenditoriale. Si aprono spazi per
persone disposte a rischiare, a lavorare duramente senza vincoli di orario, a
vedere come un traguardo mansioni considerate mediocri e sempre meno
desiderabili da parte della popolazione nazionale.
L'analisi dei dati conferma
poi le profonde differenze di attitudini imprenditoriali all'interno della
popolazione migratoria. Alcuni gruppi nazionali si segnalano nelle diverse aree
per la capacità di penetrare nel mondo delle attività indipendenti: cinesi,
egiziani, su scala più ridotta iraniani. Altri, come i marocchini, si
caratterizzano per significativi progressi, dopo anni di difficile inserimento
nella società italiana. Altri ancora, come i filippini, stabilmente occupati
come dipendenti, restano sostanzialmente estranei al lavoro autonomo.
Servirebbero ora indagini mirate per approfondire le ragioni di queste
traiettorie diversificate, identificando le risorse e i vincoli che agevolano o
complicano i percorsi imprenditoriali.
Ritornando allo schema presentato al par. 2, si può invece rilevare, in dissonanza rispetto ad una consistente letteratura straniera (e in special modo americana) che le esperienze sviluppate in Italia hanno scarse connotazioni etniche, e si rivolgono essenzialmente alla clientela italiana. Tranne i casi della ristorazione e di altre attività nel settore dell'alimentazione, non inalberano insegne che esibiscono una diversità culturale. Si può però pensare che con l'aumento e la stabilizzazione della popolazione immigrata, siano destinate a crescere le attività riferibili alla parte sinistra dello schema del par. 2, ossia destinate ad una popolazione di connazionali. 1 tipici processi dello sviluppo di attività sorte per servire i bisogni interni delle comunità, che poi si rivolgono al mercato esterno, nel caso italiano hanno scarso rilievo. Al di fuori dei caso cinese, la stessa fisionomia della maggior parte degli imprenditori, così come è stata rilevata dalle poche e pionieristiche ricerche sull'argomento, non appare molto tributaria dell'appartenenza a comunità etniche quasi autosufficienti, quanto piuttosto delle aspirazioni individuali e familiari di mobilità sociale. Si tratta infatti sovente di soggetti con un titolo di studio medio‑alto, arrivati in Italia da diversi anni, con frequentazioni più italiane che interne al gruppo di appartenenza. Più che le reti etniche in senso ampio, sono i più ristretti clan familiari a fornire informazioni, lavoro flessibile e a basso costo, e a volte i capitali necessari [Baptiste, Zucchetti, 1993; Ambrosini, Schellenbaum, 1994]
Qualche riflessione può
infine riguardare le politiche di governo del fenomeno. Aprire spazi
all'imprenditoria immigrata, anzitutto rimuovendo i vincoli ancora esistenti,
dal punto di vista della società ricevente contribuisce ad ampliare l'offerta
imprenditoriale e ad accrescere la concorrenza, con prevedibili ritorni
positivi per il dinamismo del mercato e per le possibilità di scelta dei
consumatori. Dal punto di vista degli immigrati, si tratta di un'opportunità
preziosa di promozione sociale e di riscatto da un destino di subalternità. Ma
se lasciata soltanto all'operare di meccanismi spontanei questa opportunità
rischia di essere colta soltanto dai soggetti più forti, per risorse
individuali e per inserimento in reti relazionali in grado di fornire sostegni
di varia natura. Serve pertanto un'effettiva liberalizzazione di ambiti come il
piccolo commercio. Servono iniziative formative e di consulenza, al fine di
evitare partenze improvvisate e di aiutare gli aspiranti imprenditori a
districarsi nei meandri della normativa vigente e delle procedure necessarie.
Servono interventi sul versante dell'accesso al credito, che penalizza
sistematicamente immigrati non in grado di fornire le tradizionali garanzie
immobiliari. (8)
Occorre però anche riconoscere gli aspetti negativi del fenomeno. La microimprenditoria immigrata può favorire l'immigrazione irregolare, il lavoro nero e a volte anche forme gravi di sfruttamento. Le espressioni pre‑moderne che assumono i rapporti di lavoro, incapsulati in relazioni patrono‑protetto, intessuti di lealtà, deferenza, mutuo sostegno, rischiano costantemente di offrire un terreno propizio a situazioni indesiderabili di gestione dei rapporti interni e di competizione al ribasso sul trattamento del lavoro. Occorrono quindi anche controlli, affinché la concorrenza si svolga su un piano di parità tra le imprese e di rispetto dei diritti riconosciuti a tutti i lavoratori. Il mercato rappresenta un formidabile dispositivo di apertura di opportunità, a patto di essere equamente regolato
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Note:
1) Per una
più ampia discussione della letteratura sull'argomento, mi permetto di
rimandare a Ambrosini, 1995.
2) Il
Dossier fa peraltro riferimento, per questi dati, alla Guida ai ristoranti
stranieri di Roma, pubblicata dal giornale di strada Terre di mezzo.
3) Va
ribadito che per questo gruppo, come in una certa misura per gli Egiziani, e
per altri paesi di antica emigrazione italiana, le fonti statistiche utilizzate
(iscrizioni al registro delle ditte presso la Camera di Commercio) non arrivano
a distinguere la cittadinanza, ma indicano soltanto il luogo di nascita. Il
dato comprende pertanto un numero imprecisato di italiani o discendenti di
emigranti italiani.
4)
Rientrano qui anche i titolari provenienti dai paesi sviluppati, (Unione
europea, USA, Svizzera, ecc.) che formano la grande maggioranza di questo
gruppo
5) Per i
dati qui riportati, si è fatto riferimento al rapporto Milano produttiva 1999
(Bernasconi, 1999).
6)
Ringrazio Anna Marsden per l'aiuto fornito nel reperimento di questi dati
7) Un
approfondimento effettuato a Rimini ha rafforzato queste valutazioni
prudenziali, stimando gli imprenditori di origine italiana in più della metà
del totale.
8) Può
essere segnalata al riguardo l'iniziativa originale della Fondazione S.Carlo di
Milano, che, con l'appoggio di alcune istituzioni creditizie, valuta i progetti
imprenditoriali degli immigrati e accorda piccoli prestiti (nell'ordine di 15
milioni), a tasso molto agevolato, per sostenere l'acquisto di una licenza o
l'avvio di un'attività. In questo modo, nel giro di un anno una cinquantina di
immigrati ha potuto entrare nel mercato del lavoro autonomo.