Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati

SECONDO RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE DEGLI IMMIGRATI IN ITALIA

 

SECONDA PARTE

INSERIMENTO ED ESCLUSIONE: UN ANNO DOPO

 

CAPITOLO 2.3

 

LA SALUTE

 

Introduzione

Nel capitolo dedicato alla salute del «Primo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia» è già stato richiamato il quadro normativo di interesse sanitario ed evidenziata una particolare attenzione dedicata al fenomeno immigratorio nella recente pianificazione sanitaria nazionale (vedi il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998‑2000).

E' stato illustrato il profilo di salute degli stranieri immigrati nel nostro Paese, così come emerge dalla letteratura scientifica e dai dati sanitari disponibili, sia di fonte pubblica che prodotti da alcuni maggiori centri di volontariato sanitario. Alla luce di tali informazioni, sono stati individuati i principali fattori di rischio fisico e psichico per la salute degli immigrati. Particolare rilevanza è stata data al tema dell'accessibilità ai servizi sanitari pubblici, ritenuta veicolo fondamentale ai fini di una reale integrazione, e discusse le condizioni ed i requisiti per realizzare una piena accessibilità ed una reale fruibilità dei servizi stessi (obiettivo quest'ultimo che necessita di una particolare attenzione agli aspetti comunicativi, antropologici e culturali dell'assistenza, nonché a quelli squisitamente organizzativi). Utilizzando i risultati preliminari di una ricerca finanziata dalla Commissione, sono state inoltre presentate e brevemente discusse le normative specifiche prodotte da regioni e province autonome che prevedessero disposizioni ed interventi di natura socio­sanitaria rivolti ad immigrati e zingari (rom e sinti). Vista l'importanza di questo monitoraggio ed i ritardi registrati in alcune realtà regionali, la Commissione ha finanziato la prosecuzione di questa ricerca, di cui in questo capitolo si riporteranno alcuni nuovi risultati.

Si è infine cercato di suggerire alcuni indirizzi di riferimento per future scelte politiche a sostegno dei processi di integrazione degli immigrati, tra cui si ricordano: uno sforzo di coordinamento interistituzionale; un impegno a sostenere la ricerca scientifica del settore ed il miglioramento dei sistemi e flussi informativi (raccolta, elaborazione e diffusione di dati attendibili); l'adozione di iniziative mirate di informazione dell'utenza e di formazione e sensibilizzazione degli operatori della salute; un impegno a perseguire comportamenti incongrui e discriminatori all'interno della pubblica amministrazione e a contribuire ad una corretta informazione della popolazione italiana combattendo pregiudizi ed allarmi scientificamente infondati.

Successivamente alla pubblicazione del primo rapporto della Commissione, nel luglio del 2000 è stata presentata la Relazione sullo stato sanitario del Paese per il 1999, che contiene uno specifico capitolo dedicato alla salute degli stranieri. Esso, avvalendosi di ulteriore documentazione scientifica, conferma pienamente la lettura data dalla Commissione e sottolinea alcune aree maggiormente critiche (salute della donna, salute del bambino, tubercolosi, prostituzione, salute dei detenuti stranieri ... ).

Il presente contributo intende affrontare, seppure sinteticamente, alcuni aspetti critici che concorrono in modo determinante alla qualità della vita degli immigrati presenti in Italia. Come si evincerà facilmente, tale approccio rimanda in molti casi ad una lettura trasversale del Rapporto, nella misura in cui si rende evidente che le politiche del lavoro, dell'istruzione, della casa (e più in generale le politiche urbanistiche) così come altri interventi di natura sociale e l'organizzazione dei servizi di pubblica utilità, condizionano in modo rilevante la salute psico‑fisica ed ambientale degli individui e quindi le loro possibilità di integrazione.

 

1. Infortunistica sul lavoro

Il quotidiano «La Stampa» del 18 novembre 2000 ha riportato, nella cronaca di Torino, la notizia della morte in ospedale dopo tre giorni di coma di uno straniero africano, non identificato, che era stato verosimilmente lasciato da altre persone in condizioni già gravi in una piazza vicino a dei cassonetti. Al momento del ritrovamento, lo straniero aveva «accanto al capo, ancora legato dal laccio, un casco giallo da lavoro, del tipo usato nei cantieri ed ai piedi portava scarpe alte, proprio del tipo che viene comunemente calzato da chi lavora sulle impalcature... le mani, il vestito, le macchie e i colori sui tessuti offrono altri elementi» che corroborano l'ipotesi che si tratti di un incidente mortale sul lavoro accaduto ad un soggetto clandestino.

Tale notizia, che si accompagna a molte altre analoghe riportate dai mezzi di comunicazione, racchiude in qualche modo emblematicamente tutti gli elementi che fanno di quest'ambito uno dei più preoccupanti per la salute e l'integrazione sociale degli immigrati: violazione delle norme sul lavoro regolare; inosservanza delle norme sulla sicurezza nel lavoro; mancata denuncia; omissione di soccorso... Solo i fatti più gravi, ed in particolare gli incidenti mortali, riescono in qualche modo ad emergere, gettando improvvisa luce su un'area di mancata tutela dei lavoratori, di cui gli immigrati, in quanto più socialmente fragili (e spesso ricattabili soprattutto se clandestini) sembrano essere particolarmente vittime. E' infatti ampiamente ipotizzabile che in caso di infortunio gli stranieri che chiedono assistenza sanitaria, in particolare rivolgendosi al Pronto Soccorso, tendano, rispetto agli italiani, a riferirlo di meno al contesto lavorativo in cui è maturato, impedendo così che, attraverso la denuncia obbligatoria, si possa avere una realistica percezione del fenomeno e si possano avviare i previsti controlli istituzionali volti a prevenirne il riaccadimento.

Dai dati preliminari sui ricoveri acuti effettuati durante il 1998 su stranieri in tutti gli Istituti di ricovero presenti in Italia (che saranno oggetto di un rapporto che il Ministero della Sanità si accinge a presentare nel dicembre 2000 e di cui si riparlerà più avanti) è emerso che i «traumi» rappresentano il 17,5% delle cause di ricovero in degenza ordinaria per i non residenti ed il 10,5% per i residenti. Probabilmente in questi ricoveri (percentualmente superiori a quelli effettuati sugli italiani) si «annidano» anche casi gravi di infortuni sul lavoro non denunciati.

In altri casi è possibile che, a parità di livello di gravità dell'infortunio, si tenda maggiormente a sottovalutarlo, evitando l'assistenza immediata ed aumentando il rischio di conseguenze irreversibili (è per esempio il caso dei traumi cranici causanti emorragie silenti nell'immediato ... ).

Nello scorso luglio l'Inail (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) ha presentato il suo Primo Rapporto Annuale, ricco di dati e informazioni relativi all'anno 1999. Purtroppo manca in esso qualsiasi riferimento agli infortuni sul lavoro in lavoratori stranieri (di cui pure, dalla sola metà di marzo a quella di luglio, l'Osservatorio occupazionale dello stesso Ente ha registrato più di 83.000 «nuove» assunzioni di lavoratori non comunitari (1) ). Se pure, per i casi di denuncia, viene raccolto il paese di nascita dell'infortunato (ma non la cittadinanza), ciò non ha dato luogo nel Primo rapporto Inail ad una disaggregazione dei dati per i lavoratori stranieri. Si aggiunga, e ciò vale anche per eventuali sottostime sui casi italiani, che i dati Inail comprendono solo gli infortuni con prognosi/astensione dal lavoro superiore a tre giorni: ma, «ai fini della prevenzione, è importante conoscere e contare anche questi infortuni perché in alcuni casi possono essere il segnale della presenza di rischi gravi, oppure, come nel caso del settore sanitario, possono provocare danni seri anche con lesioni banali (punture da aghi)». (2) Le poche ricerche disponibili, più spesso condotte in aree con alta intensità industriale o artigianale, sembrano confermare i rischi di una sovraesposizione professionale per la salute negli immigrati.

Nel settore conciario del territorio corrispondente alla Ulss 5 ovest‑vicentino, la percentuale degli infortuni sul lavoro registrati nel 1996 tra gli stranieri sembrerebbe superiore a quella registrata tra gli italiani (il condizionale è dovuto all'incertezza numerica tanto dei lavoratori stranieri quanto dei lavoratori complessivamente impiegati in questo settore). Emerge però chiaramente che quasi la metà (20 su 44) degli infortuni gravi (con prognosi uguale o superiore a 30 giorni) registrati nello stesso anno nel settore conciario hanno colpito lavoratori stranieri.

Le ipotesi esplicative più plausibili di questa situazione sembrano essere: che «i lavoratori stranieri vengono impiegati nelle aziende e/o nelle mansioni più pericolose» e/o che «i lavoratori stranieri si infortunano più frequentemente e riportano lesioni più gravi perché non sono stati adeguatamente informati e addestrati sui rischi delle varie macchine e mansioni» . (3)

Inoltre, fanno notare altri: «mentre l'immigrato lavora, i pensieri che si affollano attorno a problemi che sembrano senza soluzione, possono far mancare la concentrazione necessaria e predisporre l'accadimento dell'evento infortunistico». (4)

Difficile valutare quanto, in termini di causalità, incida, anche sulla componente lavoratrice straniera il cosiddetto fenomeno dell'autosourcing, cioè lo spostamento del lavoro fuori delle aziende con la creazione di numerosi segmenti di lavoro decentrato che secondo alcuni, pur garantendo talvolta più alta qualità, «può rappresentare quella parte di lavoro più rischiosa e insalubre». (5)

Coerente con quanto sinora evidenziato è la previsione contenuta nel Piano sanitario regionale dell'Umbria valido per il triennio 1999‑2001, di «verificare l'applicazione della normativa vigente in materia di sicurezza e diritto del lavoro a tutti i lavoratori immigrati».

 

2. Salute e contesto abitativo

In altra parte del Rapporto sono stati illustrati i diversi nodi problematici attualmente connessi all'offerta abitativa per gli immigrati e si è sottolineato il nesso tra esclusione abitativa ed esclusione sociale. Non si ritiene necessario soffermarsi sulle evidenti ripercussioni che queste forme di esclusione possono avere sulla salute degli individui. In una sezione specifica viene poi toccato il tema, particolarmente grave, del contesto abitativo dei rom e sinti.

E' forse utile fermare l'attenzione sul fatto che, tra i diversi fattori che concorrono allo stato di salute delle persone non vi è solo, in una prospettiva dicotomica, quello della presenza o meno dell'alloggio, ma giocano sicuramente un ruolo anche altri aspetti. Un primo aspetto riguarda la stabilità abitativa: chiunque di noi abbia fatto l'esperienza di cambiare più volte alloggio ( e magari la città o il paese di domicilio) in un arco limitato di tempo, sa quanto tale costrizione possa essere stressante: l'estrema mobilità territoriale che, ancora in questa fase, accompagna il fenomeno immigratorio in Italia ‑ strettamente collegata alla ricerca di lavoro ‑ causa evidentemente la necessità di cambiare frequentemente anche alloggio. Un altro aspetto riguarda la collocazione spaziale ed urbanistica della dimora: città o paesi, quartieri più o meno periferici e/o degradati (che spesso gli immigrati condividono con le fasce più disagiate della popolazione italiana), presenza di verde urbano e spazi ricreativi, in particolare per i bambini; anche tale aspetto non può essere ignorato, in particolare per la valutazione e l'interpretazione della salute mentale dei soggetti. Altri aspetti, su cui ci si soffermerà, attengono la qualità dell'abitazione e della situazione alloggiativa complessivamente intesa. Da molto tempo il mondo sanitario (ed in particolare quello igienistico) ha acquisito infatti la consapevolezza che l'abitazione, in cui si spende parte rilevante del proprio tempo, può presentare una serie di fattori di rischio per la salute fisica e psichica degli esseri umani. Ecco perché delle adeguate politiche di integrazione non possono trascurare la dimensione abitativa al fine di garantire che essa presenti quelli che potremmo chiamare dei requisiti minimi di adeguatezza. Ci si riferisce in particolare alla presenza di servizi igienici e alle caratteristiche microclimatiche dell'abitazione: umidità, ricambi d'aria, luminosità e, più in generale, qualità dell'aria dell'abitazione, parametri da commisurarsi alla densità abitativa (che spesso nel caso degli immigrati è superiore a quella degli italiani).

Anche in questo caso vi è purtroppo una carenza di studi che riportino informazioni sulla popolazione immigrata. La sola disponibilità di dati a carattere regionale o nazionale sull'indice di sovraffollamento abitativo (che è dato dal numero di persone che vivono in un'abitazione diviso il numero dei vani disponibili) permetterebbe di fare interessati considerazioni. Infatti, quanto più questo indice è alto, tanto maggiore è il disagio sia fisico.che psichico degli abitanti. Si ritiene che un indice superiore a 2 cominci ad associarsi ad un certo rischio per il benessere psicologico. Da un'indagine del 1998 sulla condizione abitativa di alcune migliaia di stranieri intervistati, riportata nella Prima parte del presente Rapporto, sembrerebbe che il problema dell'affollamento abitativo abbia diversa consistenza tra una comunità e l'altra di immigrati, ma anche all'interno della stessa comunità da una regione all'altra. Malgrado le scarse informazioni, è evidente a tutti che, in particolare nelle grandi aree urbane, non è infrequente trovare situazioni di pesante sovraffollamento abitativo (frutto, tra l'altro, di ignobili speculazioni di alcuni proprietari), che arrivano a contemplare una turnazione oraria sullo stesso posto letto nell'arco della giornata. Per valutare correttamente le diverse situazioni, si dovrebbe forse tenere in considerazione anche quella che era l'«abitudine abitativa» precedente l'emigrazione: il sovraffollamento sarà infatti tanto più accettato psicologicamente, quanto più usuale nella propria esperienza di vita.

Una dignitosa situazione abitativa è funzionale anche al buon esito del ricongiungimento familiare, letto nel senso della possibilità di ridisegnare nuove e funzionali dinamiche familiari che vedano la presenza di bambini (e spesso l'assenza dei nonni) e che siano in grado di sostenere una sufficiente armonia intrafamiliare pur in presenza di altre difficoltà connesse all'inserimento sociale.

Ancora una volta si segnala l'opportunità di effettuare studi e rilevazioni che consentano di valutare e monitorare i determinanti sulla salute legati alla condizione abitativa ed i loro effetti.

 

3. Salute riproduttiva: il caso dell'IVG

Negli ultimi anni le donne sono divenute sempre più protagoniste del fenomeno migratorio, sia in qualità di «pioniere» in nuovi tentativi di migrazione, sia per effetto di ricongiungimenti familiari (che come visto, nel 1999, hanno rappresentato circa il 35% dei nuovi permessi di soggiorno, se si escludono quelli concessi a persone provenienti da paesi dell'Unione Europea).

In numeri assoluti, le donne straniere sono attualmente poco meno di 600.000, mentre i minori stimati dall'Istat (la cui difficile quantificazione è dovuta al fatto che non sono titolari di permessi propri ma vengono registrati su quelli dei genitori) sono circa 230.000.

Tradizionalmente, chi si occupa di salute e immigrazione tende a enfatizzare l'area, o settore, «materno‑infantile»: tale approccio, per quanto giustificato, rischia, da una parte, di mettere in ombra tutti gli aspetti di salute della donna in quanto tale, a prescindere dalle sue possibilità procreative e dal suo ruolo di madre, e, dall'altra, di minimizzare gli aspetti di salute propri del bambino dopo la fase neonatale. Gli eventi gravidanza e parto, per quanto di estremo interesse, non esauriscono infatti gli ambiti che meritano un'attenzione specifica. Ne è esempio il tema degli infortuni domestici in bambini stranieri, cui si guarda con una certa preoccupazione, anche se, purtroppo, non disponiamo ancora di dati affidabili, che solleva un problema più ampio di tutela infantile ed in particolare di custodia nei luoghi di vita che investe anche le figure genitoriali paterne, laddove presenti.

Come ampiamente sottolineato nel Primo Rapporto della Commissione, il punto di vista epidemiologico risente attualmente di una sostanziale scarsezza di informazioni valide, che dipende, in parte, dei fatto che nel nostro paese la «cultura del dato» in generale sta muovendo ancora i primi passi, e dall'altro che in molti casi non è attualmente possibile disaggregare i dati per nazionalità (cittadinanza piuttosto che paese di nascita) e sesso. Le fonti disponibili sono sia istituzionali che non istituzionali (in particolare del privato sociale), con una certa difficoltà a disporre di dati correnti. Poiché l'immigrazione, tutto sommato, è in Italia un fenomeno piuttosto recente, le patologie maggiormente analizzate sono state quelle di tipo acuto, di natura sia infettiva che non infettiva, e scarsissime sono (per entrambi i sessi) le informazioni riguardanti patologie cronico‑degenerative (in particolare BPCO, patologie cardiovascolari e tumorali); per lo stesso motivo non vi sono stati, se non in Piemonte, studi sulle cause di mortalità in stranieri. Da un punto di vista metodologico si aggiunge il cosiddetto «problema dei denominatori», causato sia dalla componente clandestina, che, in quanto tale, non è quantificabile, sia dall'incertezza sul numero di minori (di cui si è detto).

Per quanto riguarda le donne protagoniste della prima generazione, quella che ha materialmente «effettuato» la migrazione, vale il cosiddetto «effetto migrante sano». Si tratta, come noto, di un'autoselezione operata nel paese di origine degli individui in possesso di buona salute ed efficienza fisica e con adeguate capacità caratteriali, nel nostro caso quelle donne che cioè massimizzano la possibilità di successo del progetto migratorio. Ciò non vale in assoluto per le donne ‑ ed eventuali bambini, ‑ che si siano ricongiunti con l'uomo marito/padre, né per le profughe, le sfollate e le richiedenti asilo, giunte in Italia per un pericolo imminente di vita e non per una scelta (per quanto condizionata che sia anche nelle altre immigrate); parimenti non è applicabile alle donne Rom e Sinti.

Una fonte di informazioni sempre più utilizzata è quella ospedaliera, relativamente ai ricoveri di natura acuta (sia in degenza ordinaria che in day hospital) per come sono ricostruiti attraverso la scheda di dimissione ospedaliera (SDO). Come anticipato, il Ministero della Sanità sta lavorando ad un rapporto (che sarà probabilmente presentato entro il dicembre 2000), sulle caratteristiche degli oltre 238.000 ricoveri effettuati su non‑italiani (sia residenti che non residenti, di cui l'85% stranieri secondo la definizione della legge 40/98, cioè cittadini di paesi non appartenenti all'Unione Europea) nel 1998, da cui stanno emergendo, riguardo alle donne, dati piuttosto preoccupanti sull'abortività volontaria. Escludendo le straniere provenienti da Europa occidentale, nord‑America, Giappone ed Oceania, l'aborto indotto (cioè l'IVG) rappresenta infatti il 56% di tutti i ricoveri in day hospital per le straniere non‑residenti ed oltre il 27% per quelle residenti, mentre nelle italiane costituisce meno dei 4% di questi ricoveri. Per i ricoveri in degenza ordinaria (cioè superiori ad un giorno) l'aborto indotto rappresenta oltre il 2% di tutti i ricoveri per le straniere non‑residenti e l'1,7% per quelle residenti, mentre nelle italiane costituisce meno dello 0,5% di questi ricoveri. Ciò sembra rimarcare, da un lato, quanto sia precaria la cultura contraccettiva delle donne immigrate, e, dall'altro, quanto molte di loro preferiscano ridurre al minimo tempo indispensabile il rapporto con le strutture sanitarie pubbliche.

Tali inquietanti dati sono tra l'altro coerenti con una rilevazione ad hoc curata dall'Istat. (6) Da quest'ultima è ad esempio emerso che i tassi di abortività (cioè il numero di IVG effettuate ogni 1000 donne di un certo gruppo di età, in questo caso tra i 18 e i 49 anni) stimati per le donne con cittadinanza straniera è di 28,7 per mille nel 1998 (27,4 per mille nel 1995; 29,1 per mille nel 1996; 26,4 per mille nel 1997), valori di circa tre volte superiori a quelli osservati tra le cittadine italiane, i cui tassi nella stessa fascia di età risultano pari, negli stessi anni, a circa il 9 per mille. Va detto che i tassi sulle straniere sono stimati, in quanto è stimato il denominatore (quantità di donne straniere residenti in Italia nello stesso anno di età compresa tra i 18 e i 49 anni, calcolato sulla base dei permessi di soggiorno in quella fascia d'età e sull'assunto che circa il 95% di queste richiede la residenza). Questi risultati sono comunque un segno inequivoco del disagio sociale spesso vissuto dalle giovani donne immigrate. Quello delle IVG è sicuramente un grave problema di sanità pubblica. Contrariamente alle italiane, nelle donne straniere è emerso un trend decrescente passando dalle età più giovani a quelle più avanzate.

In generale, le donne straniere ricorrono agli ospedali in larga misura per problemi legati all'ostetricia e alla ginecologia (complessivamente quasi il 60% in uno studio condotto su oltre 2.300 pazienti ricoverate in un ospedale romano tra il 1990 e il 1995). In un altro studio di analoghe dimensioni effettuato in una Divisione di Ostetricia e Ginecologia di Reggio Emilia i ricoveri di donne straniere sono passati dall'1,6% nel 1980 al 9,3% nel 1995.

Sotto un aspetto che potremmo definire psico‑sociale, va rimarcato come spesso la maternità ed il parto siano vissuti dalle donne immigrate in solitudine, quasi diventando una «malattia». Il senso di inadeguatezza insito nell'essere straniera e potenziato dal «vissuto malato» del partorire e nascere in solitudine (senza la famiglia allargata) e in ospedale, le difficoltà di comprensione linguistiche e culturali da parte degli operatori sanitari, la necessità di riprendere quanto prima a lavorare, possono inoltre contribuire alla mancanza o all'interruzione precoce dell'allattamento materno, sovvertendo spesso molti dei costumi dei paesi di origine.(7)

Una ricerca condotta dall'Istituto Superiore di Sanità in ordine all'accessibilità e utilizzazione dei servizi da parte delle donne immigrate in corso di gravidanza e riportata nella Relazione sullo stato sanitario del Paese 1999 ha evidenziato una grave «sottoesposizione assistenziale» delle donne straniere rispetto alle italiane, nella misura di un ritardo sia sotto l'aspetto del numero di visite ed accertamenti (in particolare ecografie) sia sotto quello della loro idonea tempistica (ritardo di oltre 1 mese sul primo controllo); complessivamente nel primo trimestre di gravidanza ben il 42,5% delle immigrate non si era sottoposto ad alcun controllo, contro il 10,7% delle italiane! Quasi il 70% delle italiane ha effettuato quattro o più prelievi per analisi del sangue durante la gravidanza, contro meno dell'11 % delle immigrate (l'8% di esse non si è sottoposta ad alcuna analisi). Le italiane hanno effettuato in media 4,8 ecografie a testa, contro l'1,7 delle immigrate.

Da un'altra ricerca condotta sul parto dall'Osservatorio epidemiologico del Lazio (oggi Agenzia per la Sanità) per gli anni 1982‑1992, è invece emersa in tutti i gruppi etnici esaminati una maggiore incidenza di basso peso alla nascita (sotto i 2,5 Kg), con una differenza statisticamente significativa rispetto alle residenti italiane per le madri zingare (19,5%), dell'estremo oriente (11,8%) e dell'Africa centrale (10,7%). Anche nella ricerca emiliana già citata la percentuale di bambini con basso peso alla nascita era superiore negli stranieri (11,5%) rispetto agli italiani (7,4%). Gli small for age, ossia i piccoli per l'età gestazionale, riguardavano il 10,6% delle immigrate contro il 4,6% della popolazione locale.

 

4. La salute dei bambini

Negli ultimi dieci anni si è verificato un progressivo incremento delle nascite di bambini con genitori stranieri. In alcuni grandi ospedali del centro e del Nord‑Italia oltre il 10% dei nati ha uno o entrambi i genitori stranieri (non U.E.), mentre nei punti nascita del sud i neonati figli di immigrati rappresentano in media circa il 5%.

Per quanto riguarda la salute dei minori, va in generale osservato che più frequentemente essi fanno parte di una famiglia strutturata, con un progetto di vita definito: potremmo dire che la stessa presenza del bambino può essere assunta, in qualche misura, come un indicatore di integrazione (ciò non vale, ovviamente, per i «minori non accompagnati», fenomeno preoccupante che sta purtroppo registrando un progressivo aumento). Come già altrove affermato, molto importante, anche in un'ampia ottica di tutela della salute psico‑fisica del minore, è il suo inserimento scolastico, storicamente facilitato dal fatto che, forse per primo, il mondo della scuola ha adottato politiche di apertura (anche della componente irregolare). Parimenti importante è quello dell'habitat di vita, punto che, come argomentato in altra sede del presente Rapporto, è spesso dolente per le persistenti difficoltà di attuare delle efficaci politiche alloggiative per la popolazione immigrata. Con preoccupazione va guardata l'abitudine di alcune comunità di immigrati (in particolare quella filippina) di riportare nel proprio paese di origine i bambini ancora molto piccoli affidandoli alle cure dei nonni: questo fenomeno, anche se in parte spiegato dalle necessità lavorative della coppia genitoriale, provoca un distacco di cui è difficile intuire le conseguenze sul piano dello sviluppo psico‑affettivo.

La Società Italiana di Pediatria ha costituito a metà degli anni '90 un gruppo, il «Gruppo di Lavoro Nazionale per il Bambino Immigrato», che in questi anni ha raccolto dati epidemiologici relativi ai punti nascita, agli accessi ai Pronto Soccorso ed ai ricoveri ospedalieri dei bambini stranieri, particolarmente utili a valutare la salute, le patologie e gli eventuali rischi sanitari dei bambini stranieri presenti in Italia.

In particolare, una ricerca multicentrica effettuata in diversi ospedali italiani ha valutato lo stato di salute di oltre 8.000 neonati di diversa etnia e quasi 7.000 bambini italiani di controllo. I genitori stranieri dei neonati provenivano, nel 17% dei casi, dall'Est Europa; nel 31%, da Paesi arabi del Medio Oriente e del nord‑Africa; nell'11%, dall'Africa sub‑sahariana; nel 21%, dall'Estremo oriente e dal sub­continente indiano; nel 13% dall'America Latina; il 7% erano rom e sinti. Quasi un terzo dei bambini africani e americani sono nati mediante taglio cesareo; tra i rom la percentuale di parti cesarei è risultata la più bassa (13%). Per quanto riguarda le patologie neonatali, rispetto ai controlli italiani è stata registrata un'incidenza significativamente più elevata di asfissia nei bimbi africani e nei rom. Latino-americani e rom, rispetto agli altri gruppi etnici, hanno presentato con maggior frequenza di stress respiratorio. Analogamente a quanto segnalato in altri Paesi, i neonati con genitori stranieri presentano maggiori tassi di nati-mortalità e di mortalità neonatale precoce rispetto a quelli con genitori italiani. Da questi dati i Pediatri del Gruppo di Lavoro deducono che non esistono attualmente rilevanti differenze patologiche fra neonati stranieri e italiani, se non per quanto riguarda i problemi di salute collegati ad uno scarso controllo della salute materna e della gravidanza. Obiettivo prioritario deve quindi essere, attraverso un adeguato monitoraggio della gestazione, la

prevenzione delle nascite pretermine e dell'asfissia perinatale, al fine di ridurre la mortalità e la morbilità fra i bambini con genitori immigrati.

Un'altra recente ricerca multicentrica ha studiato i dati relativi ai bambini di origine straniera (immigrati o nati in Italia da genitori provenienti da paesi in via di sviluppo) che si sono presentati per visita urgente presso il Pronto Soccorso pediatrico di diversi ospedali italiani. Su un totale di quasi 88.000 visite effettuate, quelle che riguardavano bambini stranieri sono state pari a quasi il 5%. Per ciascuna di esse sono stati registrati: nazionalità, età e sesso del bambino, ora di accesso, motivo, diagnosi, prestazioni erogate, eventuale ricovero. L'area geografica di origine dei bambini stranieri visitati era rappresentata da: Nord Africa nel 40% dei casi; Africa sub‑sahariana nel 12%; America Latina nell'8%; Asia nel 20%; Europa dell'Est nel 16%; il 4% dei bambini appartenevano a gruppi zingari. In un caso su tre, l'accesso al Pronto Soccorso per visita urgente è avvenuto nelle ore notturne (fra la 20.00 e le 8.00). In circa la metà dei bambini stranieri visitati sono state diagnosticate malattie a carico dell'apparato respiratorio; nel 14% problemi gastroenterici; nel 12% malattie infettive sistemiche; mentre nel 9% dei casi si erano verificati eventi accidentali.

Su un totale di quasi 20.000 bambini ricoverati presso 15 Centri pediatrici di diverse regioni italiane, oltre 1.000 (il 5% circa) erano immigrati o avevano i genitori provenienti da paesi in via di sviluppo: oltre il 36% dal nord‑Africa, l'8% da altri paesi africani; il 26% dall'Est Europeo; il 20% dall'Asia; quasi il 6% dall'America Latina, un solo bambino dall'Oceania; il restante 4% erano bambini appartenenti a gruppi rom e sinti. I bambini stranieri ricoverati non hanno presentato differenze degne di nota rispetto agli italiani. Le patologie che hanno determinato il ricovero riguardavano nella maggior parte dei casi l'apparato respiratorio e quello gastro­intestinale. La durata media della degenza ospedaliera è stata di 5 giorni nei bambini stranieri e di 4 giorni nei controlli. Occasionali sono state le segnalazioni delle cosiddette malattie di importazione (malaria, TBC, HCV, HIV, Leishmaniosi viscerale) presenti sia fra i bambini stranieri che nei bambini italiani ricoverati. Non si sono osservate differenze significative per quanto attiene lo stato di salute generale dei bambini stranieri rispetto a quelli italiani sia per quanto riguarda gli accessi al Pronto Soccorso che per i ricoveri in ospedale.

A differenza della popolazione generale, di solito i bambini stranieri e rom non vengono fatti visitare dai loro genitori in presenza di patologie leggere o all'esordio della sintomatologia. Ciò può comportare dei rischi, perché senza adeguati controlli clinici e/o tempestive cure farmacologiche anche lievi malattie possono a volte presentare serie complicazioni per il bambino, che rischia poi di essere ricoverato in gravi condizioni.

Sotto il punto di vista della sanità pubblica, date queste premesse, interessa in modo particolare il tema dell'accessibilità ai servizi sanitari pubblici, che è l'obiettivo generale riconoscibile nelle disposizioni sanitarie vigenti e quello della loro organizzazione in funzione di una reale fruibilità per l'utenza immigrata. Tutte le donne e i bambini immigrati regolarmente e stabilmente soggiornanti in Italia (fatta cioè eccezione per i turisti) sono obbligatoriamente iscritti al Servizio sanitario nazionale (8) (ai sensi dell'art. 34 dei D.Lgs. 286/98) ed hanno, quindi, le stesse opportunità assistenziali degli italiani (a partire dal medico di medicina generale e dal pediatra di libera scelta). Ampie garanzie sono state fornite anche agli immigrati irregolari, al punto che alla donna clandestina in gravidanza viene assegnato uno specifico permesso di soggiorno e che le donne non sono comunque espellibili nei primi sei mesi di vita del bambino. La tutela della gravidanza e della maternità e quella del minore (in esecuzione della ratifica della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo) sono inoltre indicate dalla legge attualmente in vigore (vedi l'art. 35 del D.Lgs. 286/98) come aree di particolare garanzia, che prevedono gratuità delle cure.

Va precisato che per i bambini stranieri che afferiscono agli ambulatori di Pronto Soccorso la visita specialistica urgente è esente dal pagamento del ticket. Il Pronto Soccorso pediatrico, a causa della carenza o della scarsa conoscenza dei servizi sanitari territoriali, riveste spesso un ruolo di riferimento per le famiglie straniere e svolge un compito di accoglienza e orientamento all'uso delle strutture sanitarie.

Va sottolineato che il disagio e le difficoltà di inserimento sociale per il bambino straniero e la sua famiglia aumentano in situazioni di bisogno, quali lo stato di malattia o il ricovero in ospedale. In questi casi, all'angoscia per la malattia si somma inevitabilmente una più o meno grave difficoltà di comunicazione che si aggiunge alle abituali difficoltà insite nel rapporto fra operatore sanitario, bambino e genitori. La presenza di persone in grado di facilitare i rapporti tra medico e famiglia del bambino può consentire di superare eventuali difficoltà di comprensione per il medico sui dati clinici del paziente (anamnesi e sintomi riferiti) e per la famiglia sulla diagnosi, le indicazioni terapeutiche e gli elementi prognostici, spesso di non facile comprensione anche per le famiglie italiane.

Si può affermare che le politiche sanitarie delineate dalle disposizioni sanitarie vigenti, in un'ottica di complessiva tutela della salute pubblica, mirano a garantire la verifica e l'eventuale ripristino della salute di tutti i soggetti immigrati presenti (donne e bambini compresi) e, per realizzare tale scopo, hanno eliminato barriere di natura giuridica e cercato di contrastare eventuali barriere di natura economica. Per il contrasto di possibili barriere comunicative e culturali è viceversa necessario un impegno di sensibilizzazione e formazione degli operatori, unitamente ad uno sforzo di informazione e orientamento ai servizi della popolazione immigrata.

 

5. Le politiche locali

La prosecuzione della ricerca da noi commissionata alla Caritas di Roma dal titolo: «Individuazione di politiche locali adeguate per la fruizione dei servizi sanitari da parte degli Immigrati e dei rom e sinti» (che, vista la notevole ampiezza, sarà verosimilmente pubblicata a parte), ha consentito di operare un'analisi comparata dei diversi Piani sanitari regionali alla luce della previsione di azioni/iniziative rivolti alla popolazione immigrata.

Di fronte ad un completamento del corpus giuridico di carattere nazionale con l'emanazione, dopo la legge sull'immigrazione, del suo Regolamento d'attuazione e di numerose circolari esplicative a cura di diversi ministeri, ci si attendeva, come è accaduto con la Legge n. 39 del 1990 (12 Leggi regionali datano proprio quell'anno), un aggiornamento normativo regionale sullo specifico tema. Così non è stato. Indubbiamente il rinnovo dei Consigli regionali ha in generale contribuito a frenare od arrestare i processi locali di contestualizzazione e programmazione degli input nazionali.

 

Tab. 1. Normative regionali con specifica attenzione ad indicazioni di politica sanitaria, di programmazione e di progettualità nei confronti della popolazione straniera

 

Regioni

Legge regionale

Piano sanitario regionale

Altri atti specifici 1999/2000

 

Riferimento giuridico

Politica sanitaria attiva

anni di validità

Programmazione specifica

Informativa

Progettualità

ABRUZZO

n. 10/90

 

1999‑2001

 

 

 

BASILICATA

n. 26/96

 

1997‑1999

 

 

 

P.A. BOLZANO

-

 

2000‑2002

 

 

 

CAMPANIA

n. 33/94

 

1997‑1999*

 

 

 

EMILIA ROMAGNA

n. 14/90

 

1999‑2001

 

 

 

FRIULI VENEZIA GIULIA

n. 46/90

 

2000‑2002

 

 

 

LAZIO

n. 17/90

 

 

 

 

LIGURIA

n. 7/90

 

1999‑2001

 

 

 

LOMBARDIA

n. 38/88

 

Piani di settore

 

 

 

MARCHE

n. 2/98

 

1998‑2000

 

 

 

MOLISE

-

 

1997‑1999

 

 

 

PIEMONTE

n. 64/89

 

1997‑1999

 

 

 

PUGLIA

n. 29/90

 

 

 

 

SARDEGNA

n. 46/90

 

 

 

 

SICILIA

(n. 55/80)

 

2000‑2002

 

 

 

TOSCANA

n. 22/90

 

1999‑2001

 

 

 

PA. TRENTO

L.P. n. 13/90

 

2000‑2002

 

 

 

UMBRIA

n. 18/90

 

1999‑2001

 

 

 

VALLE D'AOSTA

n. 51/95

 

1997‑1999°

 

 

 

VENETO

n. 9/90

 

1996‑1998

 

 

 

 

Note:

* Campania: Piano Sanitario Ospedaliero;

° Valle d'Aosta: prorogato al 2001

Fonte: Area Sanitaria Caritas Roma, 2000

 

Più dinamica è stata la «reazione» all'uscita dei Piano sanitario nazionale 1998-­2000 (D.P.R. 23 luglio 1998) con la proposta e l'emanazione di diversi Piani sanitari regionali. Alcuni di questi hanno recepito gli obiettivi e le azioni individuate a livello nazionale per la tutela della popolazione immigrata ed alcuni si sono «aggiornati» con i dispositivi previsti dalla normativa specifica sull'immigrazione.

Segnaliamo i Piani sanitari regionali dell'Umbria (Deliberazione del Consiglio Regionale del 1.3.1999, n. 647 e Atti di indirizzo programmatico generali ‑ Deli­berazione Consiglio Regionale 10.1.2000, n. 767), dell'Emilia Romagna (Deliberazione del Consiglio Regionale del 22.9.1999, n. 1235 con la istituzione di un Gruppo di lavoro «Esclusione sociale» con i primi provvedimenti contro le disuguaglianze ‑ Deliberazione della Giunta Regionale del 1.3.2000, n. 321), della Liguria (Deliberazione Consiglio Regionale del 25.8.2000, n. 8) e della Toscana (Deliberazione Consiglio Regionale dei 17.2.1999, n. 41) che con modalità diverse individuano obiettivi ed azioni perseguibili per garantire ai cittadini stranieri presenti sul proprio territorio regionale l'accesso ai servizi, la fruibilità delle prestazioni e la reale promozione della salute.

In particolare, la Regione Umbria definisce i seguenti obiettivi di salute prioritari:

1) Accessibilità ai servizi

‑ Informare tutti coloro che ottengono il permesso di soggiorno sui diritti di assistenza e modalità d'accesso.

‑ Informare tutti gli immigrati sulla possibilità di accesso ai servizi sanitari.

‑ Garantire in almeno ogni centro di salute di ciascun distretto un punto di accesso «informale» agli immigrati irregolari.

2) Promozione e Prevenzione

‑ Garantire la copertura vaccinale secondo le indicazioni del Programma EPI OMS e del Piano nazionale vaccini.

‑ Attivare interventi di educazione sanitaria sulla prevenzione delle malattie trasmissibili.

‑ Ridurre del 50% la percentuale di abitazioni di immigrati extracomunitari irregolari non dotate di abitabilità rispetto alla base/line del 1999.

‑ Verificare l'applicazione della normativa vigente in materia di sicurezza e diritto del lavoro a tutti i lavoratori immigrati.

3) Assistenza

‑ Garantire l'accesso alla rete dei servizi socio‑sanitari, territoriali ed ospedalieri.

‑ Garantire l'accesso delle donne immigrate alla rete dei servizi consultoriali ed ospedalieri.

‑ Garantire presso ciascun DSM un'area di ascolto per i problemi di salute mentale legati alla condizione di immigrato».

L'Emilia Romagna sottolinea come «l'obiettivo prioritario sia quello di creare le condizioni per un tempestivo accesso ai servizi da parte dei cittadini e delle cittadine stranieri immigrati, regolari e non, tramite azioni concertate dei soggetti pubblici (in primo luogo delle Aziende sanitarie), del privato sociale e del volontariato, che nel settore ha una presenza determinante ed una funzione non surrogabile».

Liguria enfatizza l'importanza di intraprendere alcune azioni strategiche: programmi di formazione del personale sanitario sia relativamente agli aspetti clinici e di prevenzione delle patologie d'importazione, sia agli aspetti di comunicazione nel rapporto interculturale, finalizzati anche all'acquisizione di conoscenze relative alla dimensione salute/malattia sotto il profilo sia antropologico che igienico‑sanitario; sviluppo di strumenti sistematici di riconoscimento, monitoraggio e valutazione dei bisogni di salute degli immigrati, anche valorizzando le esperienze più qualificate del volontariato; indirizzo per interventi di prevenzione collettiva (vaccinazioni obbligatorie ed interventi di profilassi (omissis); indirizzi per la garanzia degli

interventi di assistenza sanitaria estesi ad ogni soggetto presente sul territorio, in particolare per l'accesso tempestivo alle prestazioni sanitarie essenziali e per la tutela della maternità e della gravidanza (…); campagne di educazione sanitaria a supporto dell'uniformità di accesso all'assistenza sanitaria in base alla normativa vigente, per tutti i soggetti immigrati, incluso la copertura vaccinale con gli stessi obiettivi previsti per i cittadini italiani prevedendo l'utilizzo di mediatori culturali».

Infine la Toscana sottolinea come deve essere considerata tra la popolazione assistibile anche la componente di cittadini stranieri extracomunitari comunque presenti sul territorio regionale ... con o senza regolare permesso di soggiorno comprese le popolazioni zingare. In base alle rilevazioni degli stranieri extracomunitari effettuate dalle Questure toscane, viene definito il finanziamento per quota capitaria alle Aziende USL. Inoltre viene affidata ai Consultori con spazi dedicati ai cittadini immigrati il duplice compito di elaborare progetti mirati a specifiche problematiche sanitarie e di assicurare un'informazione ed un'accoglienza linguistico‑culturale consone a questa nuova fascia della popolazione. Rilevante appare la figura del mediatore interculturale su cui la Regione vuole puntare per favorire la creazione di un rapporto relazionale fra l'utenza immigrata e i servizi pubblici. Per le iniziative necessarie a tutelare gli immigrati irregolari almeno per l'assistenza sanitaria di base vengono proposti rapporti con le associazioni del volontariato.

Anche in assenza degli strumenti normativi citati (Leggi e Piani sanitari Regionali) altre Regioni sono intervenute a promuovere azioni di promozione della salute di cittadini immigrati attraverso circolari, note o deliberazioni: segnaliamo in tal senso la Regione Veneto, impegnata soprattutto in una azione formativa degli operatori sanitari ed amministrativi, ed il Lazio, che sta attuando politiche di inclusione nel sistema sanitario sostenendo le Aziende sanitarie nel rimuovere ostacoli interpretativi delle norme.

Questi sforzi comunque ancora oggi non bastano a colmare una diffusa disinformazione ed una lacunosa applicazione della legge.

Da una ricerca in corso sull'applicazione della legge a livello di singole Aziende sanitarie locali su un campione di 54 aziende Usl (27% del totale nazionale) che hanno risposto all'invito di fornire documentazione sulla specifica attività nei confronti della popolazione straniera, è emerso quanto segue: il 35% riferisce di aver attivato servizi per gli immigrati in condizione di irregolarità; il 33% ha realizzato una guida in più lingue o opuscoli informativi; il 31% sta curando la formazione degli operatori ed il 24% ha attivato interventi specifici nel settore materno‑infantile. Solo 4 Aziende Usl su 54 intervengono specificamente sulla popolazione zingara presente nel proprio territorio.

I ricercatori ritengono che le risposte pervenute non esauriscano l'impegno attivo delle Aziende nei confronti degli immigrati, ma che da esse emerga senza dubbio l'urgenza di impegnarsi nell'ambito dell'informazione e della formazione locale per promuovere interventi della salute, tra l'altro previsti per legge.

Appare interessante a questo proposito il lavoro, in fase di pubblicazione, del gruppo « Salute e immigrazione» dell'Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (Cnel): partendo da un'analisi del fenomeno immigrazione in alcune realtà territoriali e tenendo conto delle esigenze degli amministratori di Enti Locali e dei dirigenti delle Aziende Sanitarie, è stato messo a fuoco il tema dell'accesso a servizi come ambito ove fornire proposte operative e percorribili; è stata quindi prodotta una griglia contenente quelle che vengono considerate priorità che potrà essere uno stimolo ed uno strumento per chi si appresta ad individuare une progettualità sul tema.

Questo lavoro ha permesso di individuare le seguenti priorità di impegno operativo a livello locale: formazione del personale; lettura dei bisogni; lettura della domanda; organizzazione dei servizi; flessibilità dell'offerta; lavoro multidisciplinare; lavoro di rete.

In un sistema sanitario in fase di ridefinizione e ricollocamento nelle politiche nazionali e locali di promozione della salute per tutti i cittadini, gli interventi sulle popolazione straniera paiono ancora una volta una preziosa occasione per attivare un percorso di qualità dei servizi e di equità nelle prestazioni a vantaggio di tutti.

 

Conclusioni

A conclusione di questa breve carrellata di aree ed aspetti meritori di politiche specifiche, si intende qui sottolinearne alcuni in forma propositiva, confermando inoltre tutte le proposte già formulate nel Rapporto dello scorso anno.

Un primo aspetto riguarda la necessità di un impegno governativo volto a sollecitare e supportare una riorganizzazione dei servizi sociosanitari che ne massimizzi la fruibilità da parte degli stranieri immigrati. Oltre al dovuto rispetto delle disposizioni vigenti ‑ facilitato dall'emanazione, nel marzo 2000, della Circolare del Ministero della Sanità n. 5 contenente le indicazioni applicative del D.Lgs. 286/98 ‑ si intende far qui particolare riferimento a tutte quelle azioni mirate ad offrire un'assistenza sanitaria attenta alle diversità culturali e linguistiche. Si pensi a tutto quanto è collegato all'ambito delle relazioni con il pubblico straniero (accoglienza, informazione, tutela e partecipazione); si pensi al tema del consenso informato, che sembra essere oggi molto scarsamente o precariamente affrontato dalle strutture sanitarie e che pure ben rappresenta la capacità di riconoscere allo straniero la stessa dignità e gli stessi diritti degli assistiti italiani. Od il tema della considerazione della fede religiosa, della possibilità di praticarne dignitosamente il culto anche nelle strutture sanitarie pubbliche e delle prescrizioni ad essa collegate, come ad esempio quelle alimentari (raramente tenute in considerazione dai responsabili del vitto ospedaliero); fino a tematiche particolarmente delicate, come quelle della malattia terminale e della morte, del suo significato e delle pratiche ad essa connesse (si pensi al rispetto dei criteri che motivano l'accertamento autoptico). Particolarmente utile sembra essere la diffusione ed il confronto circa le esperienze di utilizzo delle figure di intermediazione linguistico‑culturale e la loro sperimentazione in specifici contesti assistenziali. Molto importante è anche un impegno volto a valorizzare i progetti e le iniziative locali già condotte (superiori per quantità e qualità a quanto normalmente si immagini), sviluppatisi in questi anni soprattutto nell'area dei consultori familiari (anche detti materno‑infantili), affinché tutti possano trame confronto e profitto.

Si richiama inoltre all'opportunità di intervenire, in tutti gli ambiti dell'agire pubblico, sul versante di quello che la Commissione ha definito l'interazione con gli autoctoni, in modo da cercare di minimizzare nel futuro il verificarsi di situazioni che, mettendo in profonda crisi l'identità dell'immigrato, si possano tradurre in disagio mentale e, talora, in comportamenti autolesivi o antisociali.

Un ultimo aspetto riguarda l'importanza di condurre in modo continuativo ricerche sulle diseguaglianze nella salute. Occorre infatti verificare se ‑ come successo in altri paesi di stampo occidentale ed evidenziato in modo eclatante a partire dal famoso Black Report britannico del 1980 ‑ anche in Italia le minoranze etniche sembrano «fisiologicamente» destinate a subire quelle che Margareth Whitehead chiama «sistematiche, evitabili e rilevanti disparità nello stato di salute tra differenti gruppi socioeconomici all'interno della popolazione», cioè le «disuguaglianze sociali» nella salute. Non conforta a sufficienza, da questo punto di vista, la considerazione che i sistemi sanitari ispirati al modello Beveridge ‑ qual'è il nostro ‑ sono di per sé maggiormente protettivi delle fasce deboli, in quanto le maggiori evidenze sulle inequalities in health in ambito europeo provengono proprio dal sistema che è più simile al nostro, cioè quello anglosassone, forse proprio a motivo della maggiore attenzione ‑ e quindi capacità di emersione ‑ sviluppata su tale fenomeno.

 

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Note:

 

1) Notizia tratta da Italia Oggi del 28 luglio 2000, pag. 3

 

2) A. Fiorio (SPISAL dei Dipartimento di Prevenzione della ULSS 5 Ovest‑vicentino) nel Convegno «Lavorare in Italia: la salute e la sicurezza dei lavoratori immigrati», Venezia 1998.

 

3) A. Fiorio, ibidem.

 

4) L. Zanier (Patronato ECAP di Zurigo), ibidem.

 

5) A. Dapporto (CGIL Venezia), ibidem.

 

6) L'elaborazione e l'interpretazione dei dati cui ci si riferisce sono state effettuate in collaborazione con l'Istituto Superiore di Sanità.

 

7) da Geraci S. e Marceca M., Donne e bambini immigrati, in «La salute in Italia. Rapporto 1998» a cura di M. Geddes e G. Berlinguer, Roma, Ediesse, p. 51

 

8) Gli studenti e le persone collocate alla pari sono facoltativamente iscrivibili, con quote periodicamente aggiornate, al SSN (con una quota superiore sono assistiti anche i loro figli eventuali).