Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati

SECONDO RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE DEGLI IMMIGRATI IN ITALIA

 

SECONDA PARTE

INSERIMENTO ED ESCLUSIONE: UN ANNO DOPO

 

CAPITOLO 2.2

 

L'ABITAZIONE

 

1. Alla ricerca di una nuova edilizia sociale

Nuovi dati di ricerca continuano a documentare la gravità del problema casa presso gli immigrati. Localmente vengono anche segnalate alcune novità, che complicano ulteriormente la questione e sollecitano un nuovo impegno per le politiche. Il Rapporto statistico dell'Osservatorio Ismu‑Provincia di Milano per il 1999 conferma per l'area milanese un quadro fortemente problematico: persistono estese aree di disagio, persistono le difficoltà che gli immigrati incontrano nell'affrontare il problema casa. Il Rapporto registra anche due novità. La prima è l'aumento di situazioni di precarietà per gruppi di immigrati ‑ gli asiatici in particolare ‑ in passato poco esposti a questo problema. «Questa tendenza, apparsa nel 1998 soprattutto in relazione all'affacciarsi per la prima volta dei cittadini asiatici nei centri di accoglienza, sembra oggi manifestarsi nell'aumento dei senza fissa dimora». La seconda novità è il peggioramento delle condizioni abitative nei comuni esterni al capoluogo: «mentre nel capoluogo si registra un aumento delle sistemazioni in affitto a scapito delle sistemazioni più precarie, nei restanti comuni emerge significativamente il ruolo dei centri d'accoglienza» [AA. VV. 2000, 50‑52].

Questi dati segnalano problemi che potrebbero verificarsi anche in altre aree urbane, in particolare per le grandi città del Centro‑Nord. Il primo ‑ già segnalato nel precedente Rapporto della Commissione ‑ sono gli effetti di polarizzazione delle sistemazioni abitative: miglioramento per quote di immigrati stabilizzati da un lato, persistente precarietà per le componenti più deboli e per quelle all'inizio del percorso migratorio dall'altro. Un secondo dato è l'inizio di una nuova fase nei percorsi di inserimento, testimoniata ‑ per quanto riguarda l'abitazione ‑ dalla differenziazione tra i diversi gruppi etnici/nazionali, e per gli aspetti più problematici dalle difficoltà di inserimento incontrate da gruppi in precedenza esenti da questo problema. Infine, si sta verificando una riarticolazione territoriale delle presenze residenziali: da un lato una redistribuzione tra centri metropolitani ed aree esterne, influenzate in larga misura dalle opportunità abitative, dall'altro una differenziazione territoriale della qualità delle condizioni abitative ed insediative. Ciò avviene in modi diversi nelle diverse situazioni metropolitane. Nel caso di Milano il diverso andamento tra città e provincia risente probabilmente della riduzione nel capoluogo degli spazi per sistemazioni precarie, forse degli effetti di politiche di controllo che hanno esportato quote di presenze meno stabili nei comuni vicini. Nell'area torinese invece le opportunità abitative offerte dalle aree esterne sono oggi fattori di attrazione per componenti stabilizzate dell'immigrazione e rappresentano un fattore importante della crescita delle presenze sia nelle sub‑aree periferiche sia nei comuni minori dell'area metropolitana [Davico e Mela 1999].

Come le politiche affrontano questi nodi, come si attrezzano per rispondere agli elementi di novità? La domanda mette in gioco, ancora una volta, i limiti delle politiche e interroga sulla portata delle innovazioni in corso nelle politiche generali e in quelle specifiche.

Per quanto riguarda le politiche abitative generali, poco si può aggiungere a quanto rilevato nel precedente Rapporto sulla necessità di innovazione nelle due aree critiche che maggiormente interessano gli immigrati: l'affitto sociale, e le situazioni in cui la povertà abitativa si intreccia con la marginalizzazione o l'esclusione sociale [v. Commissione 2000]. In assenza di significativi avanzamenti per quanto riguarda la seconda area, la scommessa dell'innovazione è in gran parte affidata alla nuova legislazione sull'affitto (legge 431/98), (1) che prevede incentivi fiscali per riportare nel mercato alloggi sfitti e per moderare i canoni attraverso forme di contratti concordati, e istituisce un fondo per la concessione di contributi integrativi alle famiglie con redditi modesti che pagano affitti elevati in proporzione al reddito. E' ancora presto per avere una idea della sua efficacia. Ancor meno sono disponibili elementi sufficienti per valutare per quali tipi di problemi e di figure e in quali contesti territoriali essa ha probabilità di contribuire a risolvere i problemi abitativi degli immigrati. Per il­ momento rimangono le perplessità a suo tempo espresse sulle possibilità di raggiungere pienamente gli obiettivi propriamente sociali che la legge si prefigge. In ogni caso la riforma difficilmente potrà avere effetti sistematici per le situazioni di grave disagio. Il Fondo sociale per il sostegno all'accesso all'affitto (finalizzato al pagamento dei canoni alle famiglie a basso reddito) è una misura la cui efficacia dipenderà dalla scala di applicazione e dal realizzarsi o meno di un diverso quadro complessivo: un livello consistente dell'offerta sociale, in particolare di quella molto economica, un adeguamento dei meccanismi per l'accesso, la messa a punto di un'offerta (abitativa e sociale) che sia coerente con i bisogni dei gruppi a rischio di esclusione. Comunque non sarà possibile affidare al solo Fondo sociale la risposta a questo tipo di problemi. «La nuova legge sui contratti di locazione, mediante il sostegno al reddito, consentirà di rispondere, in qualche misura, alla domanda [sociale] e contribuirà pertanto a creare una situazione meno negativa. Purtroppo non sarà in grado di soddisfare l'elevata domanda di alloggi sociali perché, per ottenere questo risultato, probabilmente occorrerebbe una quantità di risorse troppo elevata con il rischio che si trasformi prevalentemente in un trasferimento di risorse alla proprietà immobiliare senza favorire lo sviluppo del mercato reale dell'affitto [Cnel 2000, 6].

La costruzione di politiche abitative socialmente più efficaci è affidata essenzialmente alla capacità di innovazione delle Regioni e dei Comuni e degli operatori del terzo settore. Nonostante i limiti del contesto (limiti istituzionali e limiti culturali), interessanti esperienze sono in corso, in particolare nelle regioni che possono contare su un quadro normativo e strumentale più adeguato, e su di un tessuto locale ‑ sociale, associativo, istituzionale ‑ in grado di fornire all'innovazione attori appropriati.

Anche la nuova legge nazionale sull'immigrazione assegna un ruolo fondamentale alle Regioni, agli Enti locali e al settore non profit per quanto riguarda l'offerta abitativa. Questa previsione incontra gli sforzi che molte Regioni e Comuni stanno facendo da tempo, nel tentativo di produrre una nuova «edilizia sociale», dopo la conclusione dell'esperienza storica dell'Edilizia Residenziale Pubblica.

In questa congiuntura le esperienze in corso affrontano, spesso con notevoli dosi di innovatività, i nodi strutturali che la costruzione di una nuova edilizia sociale comporta: come indirizzare ad usi sociali risorse private, come strutturare un robusto settore non profit, come ridefinire nel nuovo quadro il ruolo dell'ente pubblico locale, eccetera. Dal punto di vista organizzativo l'innovazione riguarda la possibilità di coinvolgere nella produzione sociale operatori e risorse differenti, e la costruzione di soggetti operatori locali che siano in grado di comporre e gestire risorse differenti e di realizzare offerte flessibili, adeguati alla nuova complessità della domanda.

Dal punto di vista degli strumenti e delle tipologie, l'innovazione risponde al criterio ‑ largamente condiviso e in qualche misura fatto proprio dalla L. 40 ‑ di produrre una gamma di offerta ampia e differenziata, in grado di rispondere ai diversi tipi di bisogni abitativi. L'orientamento prevalente tuttavia rivela una particolare attenzione per offerte «intermedie», sia nel senso di offerte rivolte a popolazioni portatrici di «normale» (non estrema) domanda sociale, sia nel senso (nel caso degli immigrati) di funzioni di transizione da strutture di accoglienza a sistemazioni ordinarie [Criel 2000, 9].

 

2. Azioni locali innovative

Le iniziative in corso riguardano sia l'offerta ordinaria (2) sia la ricerca di nuove tipologie abitative e di nuovi modelli di produzione sociale. In questa seconda area possiamo registrare interessanti sviluppi di quelle esperienze locali innovative che nel corso degli anni '90 avevano offerto forti stimoli all'innovazione e anticipato, sotto diversi aspetti, le linee di un possibile nuovo modello di politiche abitative sociali [Commissione 2000].

Le iniziative più recenti cercano di tenere conto delle trasformazioni in corso nelle condizioni contestuali (le trasformazioni della domanda e delle risorse disponibili, con il venire meno delle fonti pubbliche tradizionali) e di superare i limiti delle esperienze innovative sviluppate nel decennio precedente [v. Commissione 2000]. Esempi interessanti (senza alcuna pretesa di esaustività) sono:

‑ lo sviluppo di azioni immobiliari sociali, innovative rispetto a quelle che si sono cristallizzate negli anni '90. Tra le difficoltà che molti operatori oggi denunciano è il venire meno delle risorse su cui avevano contato in precedenza. A Milano diverse associazioni lavorano da qualche anno sul patrimonio marginale di edilizia pubblica, ottenendone la gestione per un certo numero di anni in cambio di ristrutturazioni, finanziate con fondi privati (in particolare di fondazioni bancarie) [Antoniazzi 2000]; (3)

‑ azioni di riqualificazione in quartieri‑problema. Il trattamento delle dimensioni spazio‑territoriali, attraverso politiche d'area, è un aspetto interessante della problematica residenziale, soprattutto in quartieri degradati o con problemi di relazione tra immigrati e autoctoni. In queste situazioni la riqualificazione può utilmente coniugare l'azione immobiliare con lo sviluppo sociale locale, secondo la logica del «progetto locale integrato». Iniziative in questo senso sono state avviate da amministrazioni comunali (ad esempio nei quartieri di San Salvario e Porta Palazzo a Torino: v. Bocco 1997); nell'ambito di alcuni progetti Urban in città del Meridione [Cremaschi 2000] eccetera;

‑ esperienze di recupero/riqualificazione del patrimonio esistente. Le potenzialità del recupero e della riqualificazione sono spesso indicate tra quelle più interessanti per una nuova politica abitativa sociale (anche la L. 40 prevede contributi regionali per opere di risanamento igienico‑sanitario di alloggi da destinare a stranieri). Le formule possibili sono varie: il recupero del patrimonio privato marginale attraverso convenzioni che graduino le facilitazioni al proprietario a seconda dei gradi di socialità contrattati (come in Francia); l'autorecupero o il sostegno pubblico al recupero realizzato mediante autocostruzione (come nel Regno Unito); il riuso del patrimonio comunale non residenziale. Si tratta però di strade finora poco battute in Italia. Ora nuovi incentivi in questa direzione sono offerti da alcune leggi regionali. Nuove iniziative sono programmate da alcune amministrazioni comunali (ad esempio Firenze e Palermo) [Granata e Novak 2000];

‑ esperienze di coordinamento a livello regionale/locale. Un grosso limite delle iniziative locali è la loro frammentazione, la mancanza di strutture di connessione che aiutino ad aumentarne l'efficacia. Di qui l'interesse di esperienze che si propongono di aggregare e coordinare in un territorio diverse azioni, diversi attori. Un esempio è il Coordinamento Veneto d'Accoglienza. Esso comprende sei cooperative e tre associazioni di volontariato, e si propone di realizzare uno scambio di esperienze e di informazioni, e di operare come strumento di connessione con altri enti pubblici e privati [Trabuio 2000]. (4)

‑ progetti per il coinvolgimento dei datori di lavoro nella realizzazione di alloggi per immigrati. A questo tema molta attenzione è stata rivolta dal gruppo di lavoro del Cnel. «Sembra crescere il numero di datori di lavoro disponibili a concorrere, in un ambito di concertazione con le istituzioni e le forze sociali locali, anche con quote di finanziamento diretto, alla realizzazione di alloggi da destinare agli immigrati e alle loro famiglie. Questo rappresenta indubbiamente una novità importante che richiede però l'individuazione di nuovi modelli d'intervento» [Cnel 2000, 8]. Lo stesso Cnel ha elaborato una proposta che prevede diverse possibilità di coinvolgimento dei datori di lavoro. (5)

Dalla riflessione sugli avanzamenti in corso emergono due principali problemi. Il primo è il notevole divario regionale nella sperimentazione di nuove strade. Come osservato nel precedente Rapporto, la varietà regionale riflette sia le differenze di problematiche migratorie e alloggiative, sia le differenze di quadri istituzionali e di risorse operative. Nel secondo senso è la differenza tra aree dove l'iniziativa ha potuto contare su di una articolata presenza di associazioni e di amministrazioni dinamiche, e aree dove l'assenza di politiche locali e di normative regionali adeguate costituisce un contesto particolarmente sfavorevole. Le innovazioni sopra citate riguardano soprattutto alcune regioni del Centro‑Nord, e hanno anche una specifica congruenza con le condizioni di inserimento degli immigrati in questi contesti territoriali. Il coinvolgimento dei datori di lavoro, come anche la forma che assumono molte azioni immobiliari sociali, sembrano rispondere in modo particolare alle esigenze di aree in cui la domanda alloggiativa immigrata è costituita soprattutto da lavoratori stabili e la difficoltà a trovare alloggio rischia di ostacolare l'inserimento lavorativo e sociale della manodopera immigrata.

Il secondo problema è la particolare attenzione che le esperienze innovative rivolgono alla domanda intermedia o a strati medio‑bassi: che sono le situazioni più facilmente compatibili con il nostro quadro istituzionale e con il quadro ideologico­-culturale che sovrintende alla produzione di politiche abitative e alla sua innovazione (una ideologia che estende e confonde in una generica accezione di «sociale» problemi diversi e non trattabili allo stesso modo). Rimane comunque una evidente sproporzione tra la capacità innovativa che istituzioni e forze sociali mostrano in quest'area di problemi rispetto all'area «più sociale»: dove permane una evidente prossimità alla tradizionale visione assistenziale. E' importante sottolineare, perché il punto rivela un particolare deficit della cultura dell'innovazione, l'incertezza che caratterizza i tentativi di innovazione per l'intervento abitativo connesso alla marginalità: una incertezza che ha portato quasi di regola a riproporre vecchie ricette, che risentono della tradizione assistenziale, della incapacità storica di progettare per i poveri soluzioni propriamente abitative, o che rivelano la difficoltà culturale di concepire uno spazio abitativo quando il riferimento non è quello della casa convenzionale [Tosi 2000].

Per quanto riguarda le politiche specifiche, interessa vedere i comportamenti delle Regioni nell'utilizzo dei finanziamenti previsti dalla L. 40. Per il 1998, secondo quanto risulta da una indagine Cnel, c'è stata una decisa prevalenza della destinazione Centri di (prima) accoglienza rispetto alle misure per l'accesso all'abitazione. Alcune Regioni (tra cui Emilia‑Romagna, Lombardia, Liguria) hanno dato assoluta priorità alle misure di accoglienza o a misure «straordinarie».

Non è facile valutare questa preferenza per misure di accoglienza o straordinarie. Essa mette in gioco due diversi tipi di spiegazioni:

‑ può indicare la persistenza delle ragioni a favore di interventi di emergenza piuttosto che strutturali, di offerte temporanee piuttosto che permanenti, e di interventi separati dal corpo principale delle politiche abitative, secondo la linea tradizionale nelle politiche dell'accoglienza [Tosi 2000]. Anzi il nuovo clima ideologico e politico, che tende a ridurre lo spazio per l'accesso degli immigrati a misure comuni, potrebbe rafforzare le pressioni in questo senso. Da questo punto di vista, il fuoco su misure di accoglienza potrebbe addirittura annunciare un arretramento rispetto alle esperienze degli ultimi anni '90, un ritorno a quell'approccio «emergenziale» che costituiva il limite principale delle politiche scaturite dalla L. 39/1990;

‑ per un altro verso l'investimento su strutture di accoglienza potrebbe essere una scelta razionale: risponderebbe ad una domanda specifica dell'immigrazione, per demandare invece la soluzione dei problemi più propriamente abitativi agli strumenti delle politiche generali. In sintonia con il principio, da più parti enunciato, di ricercare la soluzione dei problemi abitativi degli immigrati nelle politiche generali o ordinarie, lasciando alle misure ad hoc i problemi per cui si ravvisi una specificità forte o un ordine di svantaggi evidente.

Questa seconda spiegazione solleva però diversi interrogativi. Il primo riguarda l'adeguatezza del sistema generale dell'offerta abitativa, la sua capacità di rispondere ai diversi tipi di domanda sociale. Ora anche se alcune delle Regioni che hanno privilegiato l'accoglienza o l'intervento straordinario hanno sistemi di edilizia sociale migliori della media delle regioni italiane, siamo ben lontani dall'adeguatezza se si intende quantità sufficiente e gamma di soluzioni in grado di consentire percorsi abitativi soddisfacenti. In questo senso l'accento su misure straordinarie non sarebbe che l'ennesima opzione per una politica dell'emergenza, o la presa d'atto di una emergenza, costituita dall'insufficienza delle politiche abitative sociali. Indicherebbe che il generale sistema di housing non è all'altezza della domanda, né per quanto riguarda l'offerta d'urgenza né per quanto riguarda il normale affitto sociale. Quindi anche che strutture di accoglienza vengono offerte al posto di case.

Un secondo interrogativo riguarda l'accesso che gli immigrati hanno alle misure ordinarie. Come osservato nel precedente Rapporto a proposito dell'accesso all'edilizia pubblica, su questo non è facile dare una risposta, se non altro per la varietà delle situazioni locali, che impedisce qualunque generalizzazione. Comunque, se si considera la diversa incidenza del disagio grave tra gli immigrati e gli autoctoni, è evidente che le ricorrenti polemiche sui privilegi di cui godrebbero gli immigrati nell'edilizia pubblica sono in generale infondate [Commissione 2000]. Semmai, se qualche principio generale è rintracciabile, questo dovrebbe aver giocato a sfavore degli immigrati: si pensi che lo sfratto ha costituito finora il più sistematico dei criteri di priorità nell'accesso all'edilizia pubblica. Quello che appare evidente, ancora una volta, è la inadeguatezza, oggi, del nostro sistema di definizione delle priorità e dei meccanismi per l'accesso (il sistema «a punteggi»), anche sotto il profilo della capacità di legittimazione delle assegnazioni.

D'altra parte il conflitto su questo tema ha carattere ideologico, e non si sviluppa certo sulla base di un'analisi comparativa dei bisogni degli immigrati e degli autoctoni. L'idea che gli immigrati siano favoriti discende spesso da quella di una naturale priorità degli autoctoni nell'accesso. Quello che probabilmente sta avvenendo oggi è da un lato una progressione della gestione dell'edilizia pubblica in direzione di una più esplicita «logica dei diritti», confortata anche dalle previsioni della L. 40; dall'altro un acuirsi ‑ nel nuovo clima ideologico‑politico ‑ di posizioni di rifiuto, di delegit­timazione del diritto di accesso per gli immigrati. Anche da questo punto di vista quindi si può pensare che misure specialistiche/di emergenza rispondano in qualche misura all'esigenza politica di distrarre la domanda immigrata dall'offerta normale o comune. Questo accresce ulteriormente la discrepanza tra situazioni locali: riflettendo non tanto le differenze nella composizione locale dei bisogni, quanto le differenti preoccupazioni e preferenze ideologiche delle amministrazioni.

 

3. Esclusione abitativa, esclusione sociale

Nel gennaio di quest'anno otto persone senza dimora sono morte di freddo a Roma, due a Torino, due in Liguria. Queste morti hanno avuto grande rilievo sulla stampa. Il governo ha deciso di spendere 30 miliardi di lire per azioni urgenti. Da parte loro amministrazioni locali e organizzazioni di volontariato hanno intensificato i loro sforzi per fornire aiuti di emergenza.

Questi tragici avvenimenti sono stati l'occasione per una nuova attenzione, da parte dell'opinione pubblica e delle istituzioni, alla questione dei senza dimora. Non altrettanta attenzione è stata prestata alla consistente presenza di immigrati tra i nuovi senza dimora, anche se nel caso specifico il concorso di immigrati ‑ «irregolari» in particolare ‑ è stato registrato dalla stampa. La consistente presenza di immigrati tra i senza dimora ‑ una identificazione che significa marginalizzazione e nello stesso tempo estrema esclusione abitativa ‑ è un fatto tutto sommato nuovo e dovrebbe sollevare una serie di domande ‑ immediate, urgenti: se le situazioni di emarginazione sono in crescita tra gli immigrati, quanto conta nei processi di emarginazione lo status di irregolare o di clandestino; che ruolo vi svolge la variabile abitativa: per sollevare quindi, di nuovo, il problema dell'efficacia delle nostre politiche abitative e di quelle sociali e delle nostre politiche dell'integrazione.

Nel loro insieme gli immigrati non sono «poveri», ancor meno sono caratterizzati da «povertà estrema», se con questo termine si intende la perdita/assenza di legami e di risorse personali che denota la cronicizzazione di situazioni di emarginazione. Parlando in generale, nell'esperienza migratoria sono compresenti un rischio oggettivo elevato, costituito dalla precarietà (lavorativa, abitativa ... ) che normalmente caratterizza l'inizio del percorso; e nello stesso tempo un sistema di risorse, di dotazioni individuali, di motivazioni e di risorse culturali, favorevoli all'inserimento, e che comunque rendono gli immigrati poco esposti a processi di marginalizzazione. Certamente, vi sono differenze a seconda dei profili culturali, dei contesti di insediamento ecc. Ma si può dire che, per quanto riguarda l'esperienza storica fino ad oggi, anche nel nostro paese, il passaggio dalla precarietà iniziale all'inserimento è stato il percorso dominante.

Nel determinare i percorsi, c'è un ruolo importante delle circostanze esterne, tra cui le politiche. Tra le politiche, quelle abitative hanno una grande incidenza, dato il peso che le variabili abitative hanno nel determinare le evoluzioni dei percorsi individuali. La responsabilità delle politiche abitative d'altra parte è direttamente indicata dall'ampiezza del disagio e dell'esclusione abitativa tra gli immigrati, e dal fatto che questi problemi colpiscano anche immigrati regolari e immigrati che lavorano.

In effetti l'incidenza di situazioni di marginalità sociale e abitativa è elevata, più di quanto ci si aspetterebbe sulla base delle «dotazioni» individuali degli immigrati.

Alcuni dati.

Delle 1.007 persone entrate in contatto nel 1999 con l'Ospedale San Gallicano in Roma, il 68,8 per cento erano stranieri, il 42,8 provenienti da paesi del Terzo Mondo o dell'Europa dell'Est, di cui solo il 13 per cento con permesso di soggiorno. Dei 4.000 senza dimora di Milano, secondo gli operatori della Caritas, metà sono stranieri (e tra essi molti irregolari). I clienti delle mense, dove non chiedono documenti, vedono una presenza di stranieri tra l'80 e il 90 per cento degli utenti. Secondo recenti stime comunicate dal Ministero degli Affari Sociali, gli stranieri sarebbero il 35 per cento dei 70‑80 mila senza dimora che hanno contatti con i servizi pubblici o del volontariato; a questi si devono aggiungere 30‑40.000 «invisibili», che non hanno cioè contatti con servizi o associazioni: tra questi gli stranieri sarebbero almeno il 60 per cento.

Sia in valori assoluti che per incidenza sul complesso degli immigrati, i valori sono decisamente esigui, e tali da non mettere in discussione quanto sopra detto sulla normalità dei percorsi positivi, della progressione verso l'inclusione, presso gli immigrati ‑ poche decine di migliaia di persone, meno del 3 per cento del totale degli immigrati. E di questi solo una parte è coinvolta in processi di marginalizzazione, corrisponde cioè alla figura del «senza dimora» in senso proprio. Il punto tuttavia merita attenzione, perché rivela elementi di rischio nei nostri processi integrativi.

Non tutti gli immigrati senza casa sono coinvolti in processi di marginalizzazione. Come più volte rilevato [v. Tosi 2000], l'interazione tra esclusione abitativa ed esclusione sociale/marginalizzazione sociale presenta presso gli immigrati tratti abbastanza diversi da quelli della popolazione locale. Da un lato nei loro percorsi l'esclusione abitativa ha un ruolo importante. Mentre per gli italiani oggi i percorsi che iniziano con la perdita di casa non sono predominanti, per gli immigrati i percorsi di emarginazione partono spesso da situazioni di esclusione abitativa. Una perdurante mancanza di casa può accelerare le derive verso l'esclusione sociale, può marginalizzare.

D'altra parte essere senza casa per un immigrato può significare cose diverse. Una situazione puntuale di homelessness è difficilmente interpretabile, il suo significato è indicato piuttosto dalla sua collocazione nel percorso, se nella fase di arrivo o dopo un certo periodo di permanenza. Ci sono le situazioni in cui la mancanza di casa significa marginalità sociale: situazioni di esclusione più o meno cronicizzate, che indicano di solito il fallimento del progetto migratorio [Carchedi e altri 1999], e si manifestano nella presenza di una precarietà multipla, non semplicemente abitativa. In altri casi invece l'esclusione abitativa può riflettere una situazione critica temporanea, una temporanea estrema compressione del bisogno abitativo, soprattutto nelle fasi iniziali del percorso di inserimento. Per gli immigrati vi è una elevata probabilità che l'esclusione abitativa si verifichi senza che si riscontrino elementi forti di marginalità, e ancora più frequentemente senza quei tratti di destrutturazione che caratterizzano i senza dimora: sono semplicemente persone povere senza casa. Per loro la mancanza di casa può essere niente più che uno stadio verso l'inserimento nella società.

Entrambi i processi meritano attenzione, perché rivelano punti di particolare debolezza dei nostri processi integrativi e delle nostre politiche. Naturalmente conta anche il livello delle «dotazioni» personali: da questo punto di vista la comparsa di nuove figure, spesso dotate di risorse (motivazionali, educative ecc.) più modeste rispetto a quelle tipiche delle fasi precedenti [Zanfrini 1997] può costituire un rischio. Ma è significativo che in Italia la precarietà abitativa estrema colpisca gli immigrati in misura probabilmente maggiore di quanto non avvenga in altri paesi. In quasi tutti i paesi europei gli immigrati sono pesantemente coinvolti in problemi di disagio abitativo, invece le situazioni variano per quanto riguarda il loro coinvolgimento nell'area della homelessness, e ciò può essere in gran parte spiegato dalle differenze delle politiche, quelle abitative e quelle dell'immigrazione.

 

4. Homeless irregolari, homeless regolari

Quali sono i fattori delle precarietà abitativa, quali situazioni e figure vi sono più esposte? La domanda non ammette una singola risposta, e mette in gioco ordini diversi di fattori. In particolare, diversi a seconda che si tratti di provvisoria difficoltà all'interno di un percorso in crescita oppure di un percorso di emarginazione vera e propria, esito di un fallimento del processo e del progetto migratorio. Tra i fattori ci sono certamente quelli relativi allo status giuridico e alla precarietà che vi si associa: vale la pena di soffermarcisi, dato che la focalizzazione ossessiva sul problema degli «irregolari» rischia di produrre fraintendimenti su questo punto.

Quasi sempre quando viene sgomberato un insediamento abusivo, quando un incendio colpisce un capannone in cui si sono rifugiati degli immigrati, si scopre ‑ con apparente sorpresa ‑ che tra gli ospiti vi sono anche immigrati regolari e immigrati che lavorano. Alla sorpresa si sovrappone ‑ come è evidente dai resoconti che ne fa la stampa ‑ il tentativo di ridimensionare il significato di queste presenze, di elaborarlo per ricondurlo ad un preciso sistema categoriale: un sistema costruito su due equazioni, tra irregolarità dell'occupazione dell'immobile (abusivismo) e irregolarità della presenza; e tra entrambe le irregolarità da un lato e dall'altro fenomeni di devianza e di criminalità. (6)

Tutti i rapporti dell'Osservatorio Ismu‑Provincia di Milano documentano con chiarezza sia la relazione tra qualità delle sistemazioni abitative da un lato e regolarità della presenza, stabilità, inserimento lavorativo dall'altro; sia il fatto che questa relazione è parziale. Nel 1999 tra gli immigrati «residenti» (una tipologia «interpretabile come espressione del più ampio livello di stabilità»), il 3,8 per cento a Milano, l'11,3 per cento in provincia risultano in sistemazioni precarie; la percentuale sale all'11,7 e 33,1 per cento per i «regolari non residenti» («da intendersi come condizione di tipo semistabile»). (Per dare un'idea: tra gli «irregolari rispetto al soggiorno» la percentuale è del 30 per cento sia in città che in provincia). In provincia la percentuale di sistemazioni precarie è aumentata tra il 97 e il 99 per tutti i tipi di status.

Dunque sono vere entrambe le cose. C'è una relazione tra irregolarità e homelessness (in entrambi i significati del termine): la irregolarità delle presenza è un fattore importante tra quelli che portano all'esclusione. Ma la relazione è parziale: in situazioni di precarietà abitativa, anche estrema, si trovano anche quote significative di immigrati regolari e stabili. Entrambe le cose interessano. La prima è la più ovvia; la seconda è la più interessante per le politiche. Soltanto a causa delle identificazioni ideologiche sopra accennate, questa seconda faccia del problema non viene ricono­sciuta.

Un primo commento riguarda le politiche, quelle specifiche per gli immigrati e quelle generali. L'attenzione deve rivolgersi, ancora una volta, alla debolezza delle nostre politiche abitative dal punto di vista sociale: l'estrema ristrettezza di un'offerta di affitto accessibile, e l'insufficienza delle politiche mirate rivolte all'area della povertà (che si è accompagnata fino ad oggi ad una relativa debolezza delle politiche contro la povertà e ad una grande disparità regionale nella messa in opera di interventi in questo campo). In discussione è soprattutto la scarsa capacità preventiva di un sistema che adotta una accezione di «sociale» che da un lato è troppo ampia, poco selettiva; dall'altro è troppo centrata su situazioni di crisi, situazioni di deriva conclamate. Questo ci riporta, per quanto riguarda gli immigrati, alla distinzione tra situazioni di homelessness che si situano in percorsi positivi, di inserimento, e homelessness come esito di processi di marginalizzazione sociale. In definitiva, sul piano delle politiche, si conferma la necessità da un lato di politiche «più sociali», che predispongano un'offerta molto economica e leghino più efficacemente politiche abitative e politiche di lotta contro l'esclusione sociale; dall'altro la necessità di una più attendibile articolazione dell'offerta sociale. (7)

Il carattere processuale delle determinanti dell'emarginazione fornisce anche un criterio metodologico per le politiche: l'importanza di fare riferimento ai percorsi entro cui il disagio si colloca. Laddove discorsi e politiche procedono per riferimenti a figure del disagio o a categorie statiche di destinatari, l'efficacia delle politiche dipende invece dalla capacità di rapportarsi ai percorsi: cosa la casa «fa», come entra nel percorso di inclusione o esclusione, in quello specifico momento: come si collega alle diverse strategie; in quali fasi del percorso evolutivo; come interagisce con altri disagi, con altri handicap eccetera.

I fattori che fanno inclusione/esclusione non sono dei «dati», bensì costituiscono dei processi: l'attenzione deve quindi rivolgersi alle condizioni che determinano l'evoluzione dei percorsi, le opportunità che l'immigrato incontra nel suo percorso e riesce a fare interagire con i suoi progetti e le sue dotazioni: tra cui le politiche.

In questa luce, la homelessness degli immigrati irregolari va bene intesa. Insistere sulla relazione tra irregolarità e problemi di sicurezza, tra irregolarità e criminalità, oppure anche tra irregolarità e non inserimento, non aiuta a capire. Essere irregolari è un fattore di rischio, non è una condizione, un dato che operi «naturalmente» nel condurre alla devianza o nel determinare il fallimento di un percorso di inserimento. Anche i percorsi nella irregolarità possono essere esenti da tratti di marginalità sociale, e a maggior ragione di devianza. D'altra parte la storia reale dell'immigrazione è fatta in gran parte da percorsi di successo iniziati nella irregolarità.

Questo ridimensiona di molto la possibilità di legare le prospettive di inserimento a condizioni semplici che possano essere fissate fin dall'inizio del percorso. Le perplessità non riguardano soltanto l'accento naturalistico sui confini tra regolare e irregolare, ma anche l'efficacia dei controlli all'ingresso, in particolare l'efficacia preventiva delle condizioni materiali previste per gli ingressi, le regolarizzazioni, i ricongiungimenti.

Ovviamente questo genere di condizioni non prevengono in alcun modo la crescita dell'area della criminalità organizzata: ma la loro efficacia è molto limitata anche nel confronti del rischio di estensione dell'area dell'emarginazione. L'opposta opinione rischia di confondere le cause con gli effetti. Indicazioni importanti in questo senso sono venute dall'esperienza dei ricongiungimenti familiari. In questo caso il requisito della disponibilità di un alloggio «adeguato» ha sollevato in effetti obiezioni non solo di principio ma anche relative all'efficacia. La ricerca sulle condizioni materiali del ricongiungimento familiare svolta per questa Commissione da A. Lostia [1999] ha fornito un dato interessante. «Per una casa «idonea» il mercato degli affitti delle grandi città impone costi poco affrontabili da un immigrato che debba mantenere la famiglia e mandare denaro al paese d'origine. Capita allora che, appena la moglie e i figli sono arrivati in Italia, il nucleo lasci l'appartamento che gli è valso la dichiarazione d'idoneità e torni alla soffitta». Questo dice anche che, se queste condizioni non garantiscono percorsi positivi, possono invece intralciare i percorsi di inserimento, addossando alla famiglia immigrata costi abitativi non necessari.

 

Riferimenti bibliografici

 

AA. VV.

2000 L'immigrazione straniera nell'area milanese. Rapporto statistico dell'Osservatorio Fondazione Cariplo‑ISMU‑Provincia di Milano, Milano.

 

Antoniazzi, S.

2000 La Fondazione San Carlo, in «La nuova città», 7, pp. 54‑55.

 

Anci    

1999 Indagine conoscitiva sulle attività dei comuni in favore dei cittadini extracomunitari, Roma.

Bernardotti, M.A., Mottura, G.

1999 Il gioco delle tre case. Immigrazione e politiche abitative a Bologna dal 1990 al 1999, Torino, L'Harmattan Italia.

 

Bocco, A.

1998 Il caso di San Salvario a Torino, Atti del convegno «Abitanti e cittadini. Immigrazione, partecipazione e riqualificazione urbana», Torino, Avventura urbana, pp. 58‑62.

 

Buizza, C., Cominelli, C.

2000 Questione abitativa e immigrati nel territorio bresciano, Brescia, Osservatorio sull'immigrazione in provincia di Brescia, Università Cattolica di Brescia.

 

Carchedi F. e altri

1999 Povertà e immigrazione, in Mingione, E. (a cura di) (1999), Le sfide dell'esclusione: metodi, luoghi, soggetti, Bologna, Il Mulino, pp. 219‑250­

 

Cnel

2000 Politiche abitative sociali e per immigrati, a cura di W. Reggiani, Roma, Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro ‑ Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri. Gruppo di lavoro Politiche per l'abitazione. Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati

2000 Primo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, a cura di Giovanna Zincone, Bologna, Il Mulino.

 

Coses

1999 ‑ L'immigrazione extracomunitaria nel Veneto degli anni '90, Venezia, Osservatorio Regionale Immigrazione Veneto, Agenzia per l'impiego del Veneto.

 

Cremaschi, M. (a cura di)

2000 Il PIC Urban. Sei casi di studio, in «EuroPass», 2, 22.

 

Davico, L., Mela, A.

1999 Aspetti spaziali dei nuovi fenomeni migratori in Piemonte, in «Sociologia urbana e rurale», 59, pp. 33‑76.

 

Della Campa, M., Ghezzi, M., Melotti, U. (curatori)

1999 Vecchie e nuove povertà nell'area del Mediterraneo. Situazioni e politiche sociali a confronto, Milano, Edizioni della Società Umanitaria.

 

Fondazione CARIPLO‑I.S.MU.

1999 Quinto Rapporto sulle Migrazioni. 1999, Milano, Franco Angeli.

 

Granata, E., Novak, C.

2000 Abitare e insediarsi: centri storici e quartieri di edilizia popolare. Schede su alcuni casi italiani, Milano,

Ismu.

 

Gregoretti, L.

1999 Dall'accoglienza all'abitare. La condizione abitativa degli immigrati nel Friuli‑Venezia Giulia, Gorizia, Ermi (Ente Regionale per i Migranti Friuli-­Venezia Giulia).

 

Lostia, A.         

1999 Uniti e divisi. Le condizioni materiali del ricongiungimento familiare, Roma, Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Working paper n. 4.

 

Tosi, A.

2000 L'inserimento urbano degli immigrati, in Immigrati, territorio e politiche urbane. Il caso italiano, a cura di P. Crosta, A. Mariotto, A. Tosi, Dossier di ricerca per Migrazioni. Scenari per il XXI secolo, Roma, Agenzia romana per la preparazione del Giubileo, vol. II, pp. 1219‑1294.

 

Trabuio, M.

2000 Un coordinamento regionale per l'alloggio sociale in Veneto, in «La nuova città», 7, pp. 48‑53.

 

Zanfrini, L.

1997 Leggere le migrazioni, Milano, Ismu e Franco Angeli.

 

Note:

 

1) Misure complementari sono previste dal progetto di legge N. 6926, che prevede un «programma sperimentale per la riduzione del disagio abitativo», con «la finalità di incrementare l'offerta di alloggi da destinare alla locazione permanente a canone concertato e di rispondere alle esigenze abitative delle categorie sociali deboli»; e un «programma innovativo in ambito urbano», «finalizzato, prioritariamente, ad incrementare la dotazione infrastrutturale dei quartieri degradati di comuni e di città metropolitane e che preveda, al contempo, misure ed interventi per incrementare l'occupazione e per favorire l'integrazione sociale».

Oltre e più che da responsabilità delle politiche specifiche, le difficoltà abitative degli immigrati derivano dalla debolezza storica delle generali politiche abitative sociali: poche abitazioni in affitto economico, poca edilizia sociale e poco razionalmente organizzata, pochi interventi alternativi mirati alle fasce deboli. Un ruolo pesante ha avuto lo scarso rinnovamento delle politiche dopo che, dagli anni '70, fenomeni consistenti di disagio sono riemersi anche nel nostro paese. Le nostre politiche risultano oggi largamente inadeguate, proprio per le due aree che maggiormente interessano gli immigrati: il mercato (sociale) dell'affitto, e le situazioni in cui il disagio abitativo si intreccia con il rischio di povertà e di esclusione sociale. Le innovazioni essenziali dovrebbero dunque muoversi in queste due direzioni: sviluppare un mercato (sociale) dell'affitto; e introdurre politiche più mirate e più solidamente intrecciate con le politiche di lotta contro la povertà. Per il secondo tipo di problemi il nostro paese non ha a tutt'oggi introdotto novità paragonabili a quelle politiche «molto sociali» che in altri paesi rappresentano da anni un campo importante delle politiche abitative.

 

2) Una linea interessante è la realizzazione di alloggi ordinari in locazione permanente o temporanea con canoni definiti. «Fra le diverse strade che le regioni possono percorrere, volte anche ad ottenere il massimo rendimento possibile dalle risorse pubbliche da investire per realizzare alloggi a favore di cittadini con redditi medio‑bassi, appare molto interessante quella caratterizzata dall'erogazione di contributi, in conto capitale, a soggetti operatori, pubblici o privati del terzo settore, per la realizzazione di alloggi da affittare in modo permanente, a canoni non superiori al 4 ‑ 4,5% del costo convenzionale di costruzione, oppure a soggetti pubblici o privati convenzionati con il comune, per la realizzazione di alloggi a carattere temporaneo, con canoni calmierati rispetto a quelli di mercato e con possibilità di vendita, dopo un determinato numero di anni, riservando un diritto di prelazione, in primo luogo, per l'inquilino» [Cnel 2000]. In questa linea si è mossa ad esempio la Regione Emilia-­Romagna.

 

3) Così il responsabile della Fondazione S. Carlo, che è stata l'iniziatrice di questa esperienza, descrive l'operazione e i vantaggi. «L'idea decisiva è stata la constatazione che l'Istituto delle case popolari, che gestisce più di 100.000 alloggi, aveva nel suo patrimonio almeno 3.000 alloggi vuoti o perché troppo piccoli (monolocali o bilocali) o perché in condizioni molto degradate e da ristrutturare. L'Aler ha debiti per decine di miliardi, il 40% delle case che gestisce non ha l'ascensore, in molti i bagni non ci sono o sono fuori regola. Non ha quindi le risorse per impegnarsi nella ristrutturazione di alloggi particolarmente degradati. Noi abbiamo proposto che ci dessero un certo numero di locali in affitto ‑ abbiamo concordato per sedici anni ‑ e la Fondazione in cambio avrebbe effettuato le ristrutturazioni per poi subaffittare. La ristrutturazione è stata solitamente costosa, ha richiesto mediamente una spesa di venti milioni per alloggio.

La Fondazione ha avuto prima trenta alloggi, poi altri venticinque dal comune e poi altri quarantasei dall'Aler; abbiamo adesso circa cento alloggi in vari quartieri. L'affitto che noi chiediamo è comprensivo del canone sociale dell'Aler più il costo della ristrutturazione: un monolocale di 24/25 mq prevede un affitto di 270‑280.000 lire comprese le spese, mentre il bilocale di 42 mq ha un affitto massimo intorno alle 500.000. Queste cifre vanno rapportate a Milano, dove i costi d'affitto sono più del doppio. Abbiamo un elenco lunghissimo di persone che vengono a chiedere alloggio perché è una delle poche offerte economiche a parte il bando per le case popolari al quale partecipano ogni volta circa 2.000 persone per 1.000 ‑ 1.500 case.

Un aspetto da sottolineare è l'economicità di questo intervento. Naturalmente non abbiamo i capitali per fare questi investimenti (ristrutturare 100 alloggi ha richiesto più di due miliardi): i capitali li abbiamo cercati non tanto nel settore pubblico quanto nel settore delle banche, delle Fondazioni bancarie. La Cariplo ha messo a disposizione più di 1 miliardo e mezzo, la Banca popolare alcune centinaia di milioni, altri soldi vengono dalle fondazioni diocesane. Noi pensiamo di andare avanti, perché i due miliardi diventano un capitale di investimento che ritorna. Man mano che vengono pagati gli affitti, recuperiamo in larga misura questo capitale quindi possiamo investirlo in nuove ristrutturazioni. Arrivando a 4‑5 miliardi di capitale è possibile avere un ritorno che autoalimenta il processo.

Ma anche il settore pubblico ha un chiaro interesse: paghiamo affitti e spese dove prima non pagava nessuno, non ci sono morosità perché gli eventuali problemi con gli inquilini li ha la Fondazione e non l'Aler. Infine non va dimenticato che fra 16 anni l'Istituto avrà degli alloggi ristrutturati. Questa nostra esperienza credo che abbia messo in moto un processo: l'Aler ha lanciato un bando per assegnare ad Onlus, a cooperative sociali o a fondazioni alcune centinaia di alloggi, sono stati assegnati così circa trecento alloggi assegnati a vari soggetti con finalità sociali» [Antoniazzi 2000].

 

4) Il Coordinamento Veneto d'Accoglienza si è costituto nel febbraio 1997. «Gli incontri del Cva consentono un continuo scambio di esperienze e di informazioni, in un clima di vera collaborazione. Il Cva si propone come strumento di connessione privilegiato con altri enti pubblici e privati. L'interlocutore principale è la Regione Veneto». «Punto di forza del Coordinamento è la sua capacità relazionale, fondamentale rispetto alle cooperative e alle associazioni che lo compongono, ma ancor più verso l'esterno, in quanto elemento di mediazione visibile e più credibile di quanto possa essere una singola realtà» [Trabuio 2000].

 

5) Le possibilità previste sono: il concorso del datore di lavoro con altri soggetti pubblici e privati alla soluzione del problema alloggi per i propri dipendenti; la concessione di contributi alle imprese per interventi a favore dell'accesso all'alloggio dei lavoratori immigrati; il concorso del datore di lavoro alla realizzazione di alloggi, con propri finanziamenti, che il soggetto operatore dovrà rimborsare in un tempo stabilito.

 

6) Una cronaca di Fabrizio Gatti sul Corriere della sera del 15 gennaio 1999 dà nello stesso tempo un'idea dei sistema di categorie e della realtà di queste sistemazioni abusive. «I numeri: centinaia di agenti e militari mobilitati, 93 stranieri controllati, 62 portati in questura per l'identificazione, 10 rinchiusi nel centro di espulsione di via Corelli, gli altri in regola con i documenti (…) L'ex stabilimento della Magneti Marelli si è trasformato in un accampamento. E' il nascondiglio dei ladri, spacciatori e sfruttatori di ragazze. Ma in una città che, sulla carta, agli immigrati offre soltanto 90 posti di prima accoglienza, i 36 ettari dell'ex Magneti Marelli sono diventati anche il dormitorio di chi non può pagarsi l'affitto di una casa. A differenza di altre retate, gli agenti trovano così coppie di mezza età e qualche signora sola. Vengono quasi tutti dall'Ucraina... Alina, 21 anni, sposata, madre di un bambino di qualche mese ( ... ) «Avevo trovato lavoro con la Caritas. Curavo una signora anziana. Lei è morta e ho perso il lavoro, i soldi, la casa». La segue una professoressa di francese, 51 anni, che parla italiano, russo e moldavo, la sua lingua. E' arrivata in dicembre, conta di rimanere sette, otto mesi: ha trovato subito lavoro come colf ma, per risparmiare, la notte tornava a dormire nei capannoni di via Adriano».

Fin qui la descrizione: che non impedisce ad un abitante di insistere: «I delinquenti se ne sono andati nella notte ( ... ) Qui da anni abbiamo purtroppo sperimentato che l'equazione criminalità e clandestinità è purtroppo vera». L'Amministrazione? Il vice sindaco: «Sgomberi come questo non servono a nulla se non si blocca l'ingresso degli immigrati».

 

7) Come suggerito nel Rapporto precedente, si tratterebbe di offrire un insieme di tipologie che per la maggior parte interessano l'intera domanda sociale, in parte minore sono abbastanza specifiche degli immigrati: un'offerta di emergenza (sistemazioni temporanee per persone che si trovano in particolari/improvvise situazioni di difficoltà); alloggi di transizione; «alloggi di inserimento» (per persone marginalizzate, e per le quali l'offerta di un alloggio è base per un progetto di reinserimento sociale); un'offerta sociale molto economica per persone con debolissima capacità reddituale; un'offerta di tipologie difficili da trovare sul mercato, come le sistemazioni temporanee per popolazioni molto mobili, non necessariamente povere); un'offerta in affitto moderato che realizzi gradi di socialità sul mercato privato, che integri l'offerta pubblica convenzionale superandone le rigidità ecc.