da " La Repubblica"

07 dicembre 2000

Italia tra clandestini e lavoratori in nero

di GIOVANNA ZINCONE

"LAVORATORI sì, clandestini no". E' un'affermazione che si pensa e si comunica con facilità, senza troppe resistenze ed intoppi emotivi. E, però, questo, che appare come un proposito giusto, semplice e virtuoso, si scontra con numerosi ostacoli. Innanzitutto si basa su un presupposto infondato e cioè che i clandestini, o gli immigrati comunque privi di un titolo di soggiorno ancora valido, non siano lavoratori. E' evidente, invece, che in larga misura lo sono. Se ne accorgono gli ispettorati del lavoro quando fanno le loro indagini e scoprono che un buon numero di immigrati, una cifra che oscilla a seconda degli anni dal 30% a più del 55%, lavora in nero e che una parte di loro non è in regola neppure con il permesso di soggiorno. Che i clandestini siano nella loro maggioranza lavoratori lo si capisce dando un sguardo ai dati delle ultime sanatorie del 1996 e del 1998: con questi provvedimenti più di 350.000 persone sono emerse dalla clandestinità. Entrambi i decreti imponevano come requisito l'occupazione, l'avere cioè un datore di lavoro che si dichiarasse disposto ad assumere. Nella stragrande maggioranza dei casi, ovviamente, l' immigrato già lavorava per il dichiarante. Nel 1998 si è ammesso come requisito anche il lavoro autonomo. Quindi tutti quei clandestini erano anche lavoratori, per forza di cose, in nero. D'altronde, è proprio l' ampiezza relativa del settore informale in Italia a costituire un magnete, una ragione di forte attrazione per l'immigrazione clandestina ed irregolare. Anche per questo è difficile esaudire la giusta richiesta del Presidente Ciampi di alzare un muro contro la clandestinità. Un immigrato, che paghi un costoso e rischioso trasporto o che si procuri attraverso impiegati corrotti un visto turistico facile, deve avere davanti a sé una fondata speranza di guadagno. Infatti, solo se potrà trovare lavoro, nonostante sia privo di permesso di soggiorno, riuscirà a ripagare il debito contratto abbastanza in fretta e potrà mettere da parte qualche risparmio da inviare a casa. Si è calcolato che i clandestini dalla Cina ci mettano in media circa due anni a ripagare il debito, mentre un passaggio dall'Europa dell'Est si ripaga molto più in fretta, naturalmente con quello che si guadagna in nero. Perciò in Germania, in Francia ed in Spagna il contrasto dell' immigrazione clandestina non ha usato soltanto strumenti di repressione del contrabbando di persone, come il famoso super radar di Gibilterra, ma ha mirato diritto al cuore dell'economia sommersa. E' questo, però, un cuore capace di sfuggire agli attacchi. Chi ha cercato di indebolirlo ha ottenuto sì qualche successo, ma nulla di straordinario. Il fatto è che il lavoro nero non rappresenta un tratto deviante in molti dei nostri sistemi produttivi, ne costituisce al contrario un elemento costitutivo. Un elemento che si rafforza a fronte della maggiore concorrenza internazionale prodotta dalla globalizzazione. Il lavoro nero è un pezzo della risposta all'inasprimento della concorrenza. Si colloca dentro quello specifico pezzo che mira a ridurre i costi e aumentare la flessibilità di uso della forza lavoro. Quindi lo si può combinare, in misura più o meno sostanziosa, sia con l'introduzione di tecnologie che sostituiscano lavoro umano, sia con la delocalizzazione, cioè con lo spostamento di fasi della produzione in paesi dove il lavoro costa meno, è meno sindacalizzato ed è meno regolato. Normalmente, il lavoro nero, sia esso erogato da immigrati o da cittadini, si combina comunque con una scomposizione della grande azienda, con un ricorso più ampio al subappalto, con il fiorire di piccole imprese più idonee a sfuggire ai controlli. I governi reagiscono a questa illegalità economica diffusa sia con strategie repressive, sia con forme varie di legalizzazione dell'esistente, sia con tentativi di rendere meno ampio lo stacco tra i costi di un lavoratore in bianco e i costi di un lavoratore in nero. In Germania è stato legalizzato quello che prima avveniva di straforo: piccole imprese edili polacche possono lavorare in subappalto, con lavoratori frontalieri, che hanno quindi l'obbligo di rientrare in patria quasi tutte le sere. In fondo, l'esperimento del Patto per Milano seguiva la via di ridurre il distacco tra costo del lavoro nero e costo del lavoro regolare: permettendo salari più bassi per le fasce deboli, immigrati inclusi, pensava di renderle appetitose legalmente. Il tentativo ha avuto - come si sa - scarso successo. Le proposte di emersione del presidente di Confindustria si muovono all'incirca sulla stessa linea. Si tratta di una linea non assurda dal punto di vista teorico. Ma il fatto è che, per quanto si renda flessibile e poco costoso per legge il lavoro regolare, esso non potrà mai raggiungere in concreto la convenienza del lavoro informale, non potrà per esempio prevedere doppi turni, inadempienza del riposo notturno o festivo e simili. Il caso americano lo dimostra chiaramente: l'ampia flessibilità del lavoro regolare si accompagna ad un abbondante ricorso al lavoro nero. Se vogliamo lavoratori immigrati regolari e non clandestini, dobbiamo ridurre il peso dell'economia informale. E se vogliamo ridurre il peso dell'economia informale, dobbiamo ripensare il nostro modello produttivo nel suo insieme. Non guardare soltanto agli Stati Uniti, che pure hanno molto da insegnarci, ad esempio, per la loro capacità di investire nella ricerca applicata, o per la loro apertura alle intelligenze che vengono da fuori. Dobbiamo guardare anche a modelli europei. I paesi scandinavi, ad esempio, hanno pochi irregolari. Questi stati non sono soltanto inflessibili nella repressione della clandestinità, ma controllano l'espansione del settore informale, almeno per quanto riguarda il primo lavoro. In una Comunicazione della Commissione europea del 1998 si stimava che l'economia sommersa concorresse al produzione del prodotto interno lordo per il 20-26% in Italia, per il 2-4 % in Finlandia e per il 4-7 % in Svezia. Solo la Grecia ci supererebbe con una stima intorno al 29-35%. Certo la rilevazione dell'economia informale è sempre approssimativa, è però noto che i sistemi economici scandinavi ricorrono poco al lavoro nero immigrato. Essi compensano la perdita di questo vantaggio competitivo con forti investimenti in infrastrutture e nella formazione del capitale umano, con un deciso sostegno alle aziende insediate sul loro territorio. Certo, alcuni di questi paesi hanno una collocazione geografica meno difficile della nostra. Ma il loro vero vantaggio strategico è un altro: possono contare anche su operatori politici ed economici più consapevoli e meno contraddittori. Da noi, invece, una parte non trascurabile della classe politica ed imprenditoriale si illude di poter godere dei vantaggi economici del lavoro nero immigrato, eliminando la spiacevolezza politica degli ingressi clandestini. Si illude, ed illude cittadini italiani e potenziali elettori. Il sereno obiettivo "lavoratori sì, clandestini no", in Italia non è praticabile, se e fino a quando, lentamente e faticosamente, non si cambierà il nostro modello produttivo. Un modello basato su basse qualifiche, lavoro nero, poca cura della formazione e pochi investimenti infrastrutturali, in particolare al Sud. Fino ad allora avremo immigrati clandestini e lavoratori in nero, due facce della stessa medaglia.