13 Dicembre 2001
 
 
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Favole animate sospese tra due mondi
Alla Galleria Sales di Roma le opere di Avish Khebrehzadeh, giovane iraniana costretta all'esilio che torna alle radici della struttura narrativa persiana per poterci raccontare le sue storie. Dove, del rapporto tra occidente e islam, suggerisce conflitti e contrasti in un'atmosfera onirica
ELENA DEL DRAGO

Camminando nello spazio della Galleria Sales di Roma si ha l'impressione di avanzare nell'atmosfera magica di favole lontane. E' di scena infatti Avish Khebrehzadeh, giovane artista iraniana, poco più che trentenne, che è tornata alle radici della struttura narrativa persiana per poterci raccontare le sue storie, corali e solitarie (fino al 10 gennaio 2002, a cura di Agnes Kohlmeyer). Ci sono carte alle pareti di grandi dimensioni, che immediatamente comunicano un desiderio di estrema semplificazione: dalla scelta del supporto, all'essenzialità del segno. La carta è modesta, il colore tenue giallo-verde non è altro che olio di oliva, il disegno è appena visibile.
Sono scene di sospensione, quella di un elefante tra gli alberi, per esempio, quella di una piscina popolata da esseri il cui movimento appare rallentato in attesa che avvenga qualcosa di risolutivo, oppure, ancora, quella di una spiaggia movimentata dal gioco di alcuni bambini. Tutto attorno c'è il mare: "che può essere buono o cattivo, ma che comunque è sempre giusto e affidabile", presente anche nei lavori di animazione. Avish Khebrehzadeh, infatti, crea dai disegni delle sequenze animate, con la stessa atmosfera rarefatta che contraddistingue i primi, ma che permettono uno sviluppo della storia più articolato. Protagonisti esseri indistinti, una marmotta oppure un cane, un piccolo bambino oppure un orso marino, che arrivano con il mare e nel mare spariscono alla fine. Sembrano offrirsi al nostro sguardo per raccontare di una antica armonia tra gli uomini, gli animali e la natura, la stessa riconciliazione atavica sognata dalle fiabe persiane.
Ne "La storia di Laila e Madschnun" di Nizami, per esempio si legge: "Nessuna delle bestie che ha come terreno di caccia la steppa o il deserto ha mai minacciato il Madschnun, per quanto tutti ne fossero sorpresi: gradualmente tutti gli animali si erano abituati, sì, li attraeva. Lo fiutavano già da lontano, volavano, accorrevano, trottavano, strisciavano: i cerchi con cui lo attorniavano si facevano sempre più ristretti. Tra di essi vi erano animali di tutte le specie e le dimensioni e nonostante ciò, miracolo, non si mangiavano a vicenda e perdevano la paura reciproca, quando questo caro sconosciuto si tratteneva in mezzo a loro."
Ci parla anche di una auspicata accettazione della diversità Avish Khebrehzadeh, costretta a lasciare la famiglia e gli affetti in Iran, quando la rivoluzione islamica le aveva impedito di continuare gli studi accademici e di poter dipingere. In esilio a Washington, negli Stati Uniti, dopo un soggiorno europeo, a Roma, continua ad essere divisa tra due luoghi in una condizione di perenne straniamento. Così i piccoli esseri non identificati che si muovono nei video di Avish Khebrehzadeh, sono connotati da una forte insicurezza, dall'impossibilità di essere accettati e dalla solitudine.
In "Itinerant" per esempio, la più cupa, forse, delle storie video narrate nella mostra romana, un uomo trova uno di questi esseri abbandonato su una spiaggia. Indeciso sul da farsi, lo porta in una casa del paese, la casa di Mashti. Qui però questo strano bambino che non somiglia a niente di conosciuto e non si comporta come tutti gli altri, non viene capito. Si pensa che forse sarebbe meglio riportarlo dove è stato trovato, ci si domanda dove siano mai i suoi genitori. Poi effettivamente una coppia arriva, forse a riprendersi questo piccolo essere, viene loro offerta una tazza di tè, ma appena bevuta la bevanda, senza ulteriori indugi, i due scompaiono. Non resta che tornare al mare e affidarsi alla sua forza irrazionale.
I protagonisti di queste animazioni restano così in bilico tra la realtà e un mondo interiore, spesso stridenti, e così facendo l'artista suggerisce delicatamente conflitti non soltanto psicologici, ma anche reali, come quello tra l'islam fondamentalista e la civiltà occidentale (non a caso uno dei protagonisti si chiama Eslam). Sono contrasti appena accennati, delicatamente sfumati in un'atmosfera onirica, antitetici rispetto al lavoro perentorio di un'altra artista iraniana, Shirin Neshat, che da anni evoca la condizione femminile nel mondo islamico, facendo ricorso a tutta la forza visiva dei segni, immediatamente riconoscibili, del vecchio e nuovo Iran. Il velo nero e le decorazioni ad hennè tracciate sulla pelle, sguardi sottolineati dal trucco e una pistola, la delicatezza di una femminilità minacciata dal potere islamico e sottolineata dalla nitidezza degli scatti in bianco e nero: questo il messaggio non equivocabile della Neshat.
Allo stesso modo il lavoro di Khebrehzadeh si differenzia da quello di William Kentridge, al quale inevitabilmente viene accostata da critici e curatori: i disegni animati dell'artista sudafricano, infatti, seppure trasfigurati in un'atmosfera surreale, parlano direttamente della situazione difficile del suo paese alle prese con il passaggio a una situazione politica e sociale post-apartheid. Con Avish Khebrehzadeh invece, l'emarginazione non è connotata in una direzione: l'ambiguità non soltanto del sesso, ma addirittura della specie che caratterizza i protagonisti del suo lavoro, ci porta fuori dalle situazioni reali più immediate, per suggerirne lievemente dinamiche ancestrali.

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