C' è un punto che non entra nella testa né dei
filoamericani di casa nostra che aspettano di arruolarsi sotto
la bandiera a stella e strisce, né degli antiamericani che
temono che tutti i cittadini statunitensi la brandiscano già
come un'arma. Non è un punto di second'ordine, perché si
tratta della composizione materiale della società americana.
Dove il meticciato e il multiculturalismo sono non da oggi una
realtà, radicata nel territorio e messa a fuoco nella
coscienza collettiva. S'è visto a New York, nella stessa
composizione etnica delle vittime delle Twin Towers. Sulla
West Coast, il laboratorio per eccellenza del
multiculturalismo americano, si vede ancora meglio. Qui, dove
la comunità afghana californiana è numerosissima, è più
difficile pensare di bombardare l'Afghanistan senza ritrovarsi
con la miccia della guerra civile in casa. Qui, dove l'antico
dualismo fra bianchi e neri è stato da decenni sostituito con
l'arcobaleno delle etnie, è più arduo il ricorso alla retorica
occidentalista. Qui, dove nei campus si spacca il capello in
quattro non tanto sul cristianesimo e l'Islam quanto sulla
costruzione della soggettività gay, lesbian e queer, è
difficile che abbia presa il richiamo identitario patriottico.
Di questo e d'altro discutiamo in questa intervista con
Jeffrey Schnapp, docente di italianistica (due passioni
principali, il Trecento e il Novecento) e comparativistica e
direttore del laboratorio di Human Studies dell'Università di
Stanford.Sessantatre etnie diverse fra le vittime delle
Twin Towers: che cosa ti suggerisce?
Già questo dovrebbe dare il senso della dimensione globale
dell'evento, su due fronti: chi ha voluto colpire l'America
s'è sbagliato e ha colpito il mondo; ma chi vuole reagire
facendo appello all'America, deve fare i conti col
cosmopolitismo americano.
Da New York le cronache parlano di reazioni ambivalenti:
solidarietà interetnica, ma anche qualche episodio di razzismo
strisciante. E' la stessa cosa a San Francisco?
Direi che da noi prevale nettamente la solidarietà. Subito
dopo l'attentato, la gente si è riversata nel più famoso
ristorante afghano e attorno alla moschea: piccoli segnali di
un istintiva difesa dei diritti civili che è scattata subito.
Il laboratorio multietnico californiano non poteva che reagire
così. Ma va anche detto che l'attentato alle Torri gemelle
sorprende questo laboratorio in un momento molto particolare,
in una stagione di transizione molto complessa da decifrare.
Puoi provare a descriverla, dall'osservatorio
universitario?
Tanto per darti due dati demografici: a Berkeley, più della
metà degli studenti sono asiatici, e se agli asiatici sommiamo
ispanici e afroamericani arriviamo a ben più della metà. A
Stanford la situazione non è molto diversa. Questa è la base
materiale su cui nei campus si è sviluppato, negli anni '80 e
'90, il dibattito sul multiculturalismo. Che ha avuto diverse
fasi. La critica del falso universalismo dell'identità
occidentale bianca ed eurocentrica ha portato in un primo
tempo alle cosiddette "lotte per il riconoscimento" delle
altre identità, e alla politica delle discriminazioni positive
a sostegno delle comunità diverse da quella bianca. Ma già
all'inizio degli anni '90, si è capito che questa impostazione
politically correct rischiava a sua volta di ingabbiare
il patto sociale invece di fluidificalo; di disciplinarlo in
un pluralismo garantito "per quote" ma senza comunicazione e
scambio fra le sue varie componenti. Negli anni più recenti ha
prevalso perciò una visione più avanzata, basata, oltre che
sul riconoscimento di ciascuna cultura, sulla loro
ibridazione. E sulla retorica neo-comunitarista ha prevalso
quella neo-individualista, basata però su una visione
post-moderna, transitiva, trans-culturale dell'individuo.
Naturalmente, questo passaggio ha una spiegazione sociologica:
non si trattava più di fare i conti con diverse comunità
sparse sul territrorio, ma con identità ibridate all'interno
di ciascuna comunità e di ciascuna persona. Non solo.
Nell'ultima generazione, questa visione transitiva e
frammentata dell'identità è stata incoraggiata dalla
rivoluzione tecnologica, che sembra dare a ciascuno la chance
di essere multiplo, nomade, trans e di scegliersi l'identità
che vuole senza dover subìre come un'etichetta quella di
nascita. Un modo di vivere tipico del laboratorio della
Silicon Valley, dove le comunità giovanili non si aggregano su
base etnica né, come quelle degli anni 70, su base politica,
ma sulla condivisione di un ambiente di vita in cui tutto -
lavoro, relazioni sociali, relazioni personali - ruota intorno
al sogno tecnologico.
Che a sua volta, però, con i primi segnali di crisi
dell'economia virtuale ha cominciato a traballare.
Esatto. Ragion per cui lo shock del crollo delle Twin
Towers si aggiunge adesso, per questa generazione, a questo
disincanto tecnologico, con un effetto di disorientamento
molto forte.
Puoi precisare in che rapporto stanno le due cose?
Sai, quando le immagini delle due Torri trapassate dagli
aerei ci sono piombate in casa dall'altra costa con un
martellamento televisivo senza precedenti, la battuta cinica e
difensiva che circolava nei nostri commenti era che esse
segnavano davvero il trionfo definitivo dell'immaginario sul
reale: sembravano prese da un videogioco. Subito dopo è calato
il velo del lutto e della malinconia, per il timore che si
tratti in realtà del contrario: quelle immagini possono
segnare la fine del sogno virtuale. Cioè l'inizio di una
stagione in cui saranno chiusi gli spazi di libertà connessi
alla rivoluzione tecnologica.
Quali, esattamente?
A fare le spese dell'attentato, già si vede, saranno le
libertà di circolazione e di comunicazione, in particolare
nello spazio virtuale della Rete. L'11 settembre ha
risollevato il coperchio delle polemiche sull'uso "troppo
libero" di Internet, che parevano risolte con la scelta di
Clinton di non interferire sul libero sviluppo della Rete e
del suo rapporto con la sfera pubblica tradizionale. Adesso
invece, con la "scoperta" delle basi telematiche di bin Laden,
il ministro della sicurezza Ashcroft ha gioco facile nel
sostenere che l'uso di Internet va disciplinato.
E per le generazioni più mature, qual è stato lo shock del
crollo delle Twin Towers?
La perdita dell'innocenza. La fine del mito, profondamente
radicato in tutti gli Stati uniti e nella West Coast in
particolare, per cui lo spazio interno americano era uno
spazio protetto, inattaccabile dai conflitti che agitano il
resto del mondo. Quel mito che ci consentiva di saltellare in
aereo da una città all'altra senza nessun controllo...Adesso,
questa sicurezza di essere diversi dal resto del mondo è
davvero infranta. E la mobilitazione del patriottismo
nazionale, la "bandierolatria" che si è scatenata come mai
prima, serve precisamente a colmare questa ferita
dell'immaginario collettivo.
Ma quanta presa può avere, questo mito sostitutivo della
bandiera e dell'identità nazional-patriottica, in un paese
tanto differenziato?
Anch'io penso che non ne avrà molta. L'America di oggi è un
vero caleidoscopio di differenze, pieno di stratificazioni ma
anche di tensioni nei processi di integrazione sociale. Il
melting pot non funziona più, non a caso si parla
invece di melting-plot, cioè del "complotto" di un
certo immaginario che si ostina a vedere compattamento dove
invece, da vent'anni a questa parte, c'è frammentazione e
diversificazione. Contano molto, insisto, le fratture
generazionali. Su chi ha vissuto la Seconda guerra mondiale e
la guerra di Corea, il richiamo patriottico e identitario
funziona. Sui giovani credo proprio di no.
E' lo stesso "complotto" che agita l'antiamericanismo, ma
anche il filoamericanismo, in Europa.
Non è una novità. Dello zelo militarista non vale neanche
la pena di parlare. Quanto all'antiamericanismo, di destra e
di sinistra, si è sempre nutrito di un immaginario monolitico
sull'America che non ha niente a che fare con l'America reale,
e di un atteggiamento antimoderno. In fondo, i talebani non
fanno che interpretare in modo peculiare, diciamo così, questo
prodotto della cultura europea...
Comunque le differenze generazionali contano anche fuori
dagli Usa, nell'atteggiamento verso gli Usa. A sinistra, la
generazione della guerra fredda ha una diffidenza verso
l'America che quella del '68 non ha, e che forse si riaffaccia
nei giovani no-global...
Sì, perché c'è una certa confusione concettuale e politica
fra "globalizzazione" e "dominio capitalistico-americano della
globalizzazione". Ma ti assicuro che vista dalla West Coast, è
una confusione comprensibile. Gli spazi urbani californiani
sono talmente in transizione che materialmente e socialmente,
prima che concettualmente, è difficile capire dove stiamo
andando, in questo momento.
Le università californiane sono state anche le prime in cui
s'è risvegliato il pacifismo. Cos'è, l'onda lunga del
movimento sul Vietnam?
E' molto difficile da cogliere il nesso fra questo
pacifismo e quello del passato. Come del resto è difficile,
almeno per me, vedere un nesso fra la mobilitazione pacifista
e il movimento no-global, che non ha il suo centro nelle
università ma in una costellazione sociale metropolitana molto
più ampia ed eterogenea.
E' vero che i giornali della West Coast sono fra le voci
più aperte in questa crisi?
Sì, ne sono rimasto molto favorevolmente colpito. Il Los
Angeles Times ha portato avanti un discorso critico sulla
politica estera americana molto coraggioso. Più in generale,
c'è stato un tentativo evidente di suggerire all'opinione
pubblica americana una serie di fattori contestuali per
valutare con ponderatezza l'evento: dalla storia dell'Islam a
quella della famiglia bin Laden, con tutte le sfumature
necessarie.
Gli Stati uniti sembrano compattamente stretti attorno alla
Presidenza. Eppure, meno di un anno fa, eravamo tutti a
discutere, di là e di qua dell'Oceano, della crisi della
presidenza americana e della debole legittimazione di Bush.
Questa crisi lo rafforza davvero tanto?
Al momento sì, è la sua salvezza, gli consente di colmare
provvisoriamente con la retorica patriottica il divario fra le
due Americhe, quella delle città e delle due coste e quella
interna dei sobborghi, che si era drammaticamente espresso
nelle presidenziali un anno fa. Va anche detto che con mia
grande sorpresa Bush, evidentemente ben suggerito da Colin
Powell, ha evitato di ricorrere alla consueta retorica di
demonizzazione del nemico e ha evidentemente lavorato a
smorzare i toni del rancore anti-islamico; si limita a
enfatizzare la lotta del Bene contro il Male, usando quella
retorica eticista che piace al suo elettorato, ma si tiene a
distanza di sicurezza dai fondamentalisti made in Usa che
interpretano l'11 settembre come il giusto castigo divino
contro le femministe e i gay. Tuttavia io non credo che questa
momentanea pace sociale patriottica reggerà a lungo: per ora
si avvantaggia di alleanze larghe, compresa quella con quei
settori pacifisti e femministi che non si sentono di opporsi a
una reazione mirata contro il fondamentalismo misogino dei
talebani. Ma è una pace molto fragile. Alle prime reazioni e
controreazioni sullo scacchiere planetario, il caleidoscopio
americano si disporrà in nuove figure. E sotto la crosta del
patriottismo, non escludo che sarà il cosmopolitismo ad avere
la meglio.