29 Settembre 2001
 
 
  HOME PRIMA PAGINA
Sotto il velo del melting plot
Dopo le Twin Towers, dall'altra parte dell'America. In California, il laboratorio per eccellenza del multiculturalismo Usa, dove il richiamo identitario patriottico è smentito dalla realtà che ha già ampiamente sostituito l'antico dualismo fra bianchi e neri con l'arcobaleno di tutti i colori etnici e razziali possibili. Parla Jeffrey Schnapp, docente di italianistica e direttore del laboratorio di humanities a Stanford IDA DOMINIJANNI


C' è un punto che non entra nella testa né dei filoamericani di casa nostra che aspettano di arruolarsi sotto la bandiera a stella e strisce, né degli antiamericani che temono che tutti i cittadini statunitensi la brandiscano già come un'arma. Non è un punto di second'ordine, perché si tratta della composizione materiale della società americana. Dove il meticciato e il multiculturalismo sono non da oggi una realtà, radicata nel territorio e messa a fuoco nella coscienza collettiva. S'è visto a New York, nella stessa composizione etnica delle vittime delle Twin Towers. Sulla West Coast, il laboratorio per eccellenza del multiculturalismo americano, si vede ancora meglio. Qui, dove la comunità afghana californiana è numerosissima, è più difficile pensare di bombardare l'Afghanistan senza ritrovarsi con la miccia della guerra civile in casa. Qui, dove l'antico dualismo fra bianchi e neri è stato da decenni sostituito con l'arcobaleno delle etnie, è più arduo il ricorso alla retorica occidentalista. Qui, dove nei campus si spacca il capello in quattro non tanto sul cristianesimo e l'Islam quanto sulla costruzione della soggettività gay, lesbian e queer, è difficile che abbia presa il richiamo identitario patriottico. Di questo e d'altro discutiamo in questa intervista con Jeffrey Schnapp, docente di italianistica (due passioni principali, il Trecento e il Novecento) e comparativistica e direttore del laboratorio di Human Studies dell'Università di Stanford.Sessantatre etnie diverse fra le vittime delle Twin Towers: che cosa ti suggerisce?

Già questo dovrebbe dare il senso della dimensione globale dell'evento, su due fronti: chi ha voluto colpire l'America s'è sbagliato e ha colpito il mondo; ma chi vuole reagire facendo appello all'America, deve fare i conti col cosmopolitismo americano.

Da New York le cronache parlano di reazioni ambivalenti: solidarietà interetnica, ma anche qualche episodio di razzismo strisciante. E' la stessa cosa a San Francisco?

Direi che da noi prevale nettamente la solidarietà. Subito dopo l'attentato, la gente si è riversata nel più famoso ristorante afghano e attorno alla moschea: piccoli segnali di un istintiva difesa dei diritti civili che è scattata subito. Il laboratorio multietnico californiano non poteva che reagire così. Ma va anche detto che l'attentato alle Torri gemelle sorprende questo laboratorio in un momento molto particolare, in una stagione di transizione molto complessa da decifrare.

Puoi provare a descriverla, dall'osservatorio universitario?

Tanto per darti due dati demografici: a Berkeley, più della metà degli studenti sono asiatici, e se agli asiatici sommiamo ispanici e afroamericani arriviamo a ben più della metà. A Stanford la situazione non è molto diversa. Questa è la base materiale su cui nei campus si è sviluppato, negli anni '80 e '90, il dibattito sul multiculturalismo. Che ha avuto diverse fasi. La critica del falso universalismo dell'identità occidentale bianca ed eurocentrica ha portato in un primo tempo alle cosiddette "lotte per il riconoscimento" delle altre identità, e alla politica delle discriminazioni positive a sostegno delle comunità diverse da quella bianca. Ma già all'inizio degli anni '90, si è capito che questa impostazione politically correct rischiava a sua volta di ingabbiare il patto sociale invece di fluidificalo; di disciplinarlo in un pluralismo garantito "per quote" ma senza comunicazione e scambio fra le sue varie componenti. Negli anni più recenti ha prevalso perciò una visione più avanzata, basata, oltre che sul riconoscimento di ciascuna cultura, sulla loro ibridazione. E sulla retorica neo-comunitarista ha prevalso quella neo-individualista, basata però su una visione post-moderna, transitiva, trans-culturale dell'individuo. Naturalmente, questo passaggio ha una spiegazione sociologica: non si trattava più di fare i conti con diverse comunità sparse sul territrorio, ma con identità ibridate all'interno di ciascuna comunità e di ciascuna persona. Non solo. Nell'ultima generazione, questa visione transitiva e frammentata dell'identità è stata incoraggiata dalla rivoluzione tecnologica, che sembra dare a ciascuno la chance di essere multiplo, nomade, trans e di scegliersi l'identità che vuole senza dover subìre come un'etichetta quella di nascita. Un modo di vivere tipico del laboratorio della Silicon Valley, dove le comunità giovanili non si aggregano su base etnica né, come quelle degli anni 70, su base politica, ma sulla condivisione di un ambiente di vita in cui tutto - lavoro, relazioni sociali, relazioni personali - ruota intorno al sogno tecnologico.

Che a sua volta, però, con i primi segnali di crisi dell'economia virtuale ha cominciato a traballare.

Esatto. Ragion per cui lo shock del crollo delle Twin Towers si aggiunge adesso, per questa generazione, a questo disincanto tecnologico, con un effetto di disorientamento molto forte.

Puoi precisare in che rapporto stanno le due cose?

Sai, quando le immagini delle due Torri trapassate dagli aerei ci sono piombate in casa dall'altra costa con un martellamento televisivo senza precedenti, la battuta cinica e difensiva che circolava nei nostri commenti era che esse segnavano davvero il trionfo definitivo dell'immaginario sul reale: sembravano prese da un videogioco. Subito dopo è calato il velo del lutto e della malinconia, per il timore che si tratti in realtà del contrario: quelle immagini possono segnare la fine del sogno virtuale. Cioè l'inizio di una stagione in cui saranno chiusi gli spazi di libertà connessi alla rivoluzione tecnologica.

Quali, esattamente?

A fare le spese dell'attentato, già si vede, saranno le libertà di circolazione e di comunicazione, in particolare nello spazio virtuale della Rete. L'11 settembre ha risollevato il coperchio delle polemiche sull'uso "troppo libero" di Internet, che parevano risolte con la scelta di Clinton di non interferire sul libero sviluppo della Rete e del suo rapporto con la sfera pubblica tradizionale. Adesso invece, con la "scoperta" delle basi telematiche di bin Laden, il ministro della sicurezza Ashcroft ha gioco facile nel sostenere che l'uso di Internet va disciplinato.

E per le generazioni più mature, qual è stato lo shock del crollo delle Twin Towers?

La perdita dell'innocenza. La fine del mito, profondamente radicato in tutti gli Stati uniti e nella West Coast in particolare, per cui lo spazio interno americano era uno spazio protetto, inattaccabile dai conflitti che agitano il resto del mondo. Quel mito che ci consentiva di saltellare in aereo da una città all'altra senza nessun controllo...Adesso, questa sicurezza di essere diversi dal resto del mondo è davvero infranta. E la mobilitazione del patriottismo nazionale, la "bandierolatria" che si è scatenata come mai prima, serve precisamente a colmare questa ferita dell'immaginario collettivo.

Ma quanta presa può avere, questo mito sostitutivo della bandiera e dell'identità nazional-patriottica, in un paese tanto differenziato?

Anch'io penso che non ne avrà molta. L'America di oggi è un vero caleidoscopio di differenze, pieno di stratificazioni ma anche di tensioni nei processi di integrazione sociale. Il melting pot non funziona più, non a caso si parla invece di melting-plot, cioè del "complotto" di un certo immaginario che si ostina a vedere compattamento dove invece, da vent'anni a questa parte, c'è frammentazione e diversificazione. Contano molto, insisto, le fratture generazionali. Su chi ha vissuto la Seconda guerra mondiale e la guerra di Corea, il richiamo patriottico e identitario funziona. Sui giovani credo proprio di no.

E' lo stesso "complotto" che agita l'antiamericanismo, ma anche il filoamericanismo, in Europa.

Non è una novità. Dello zelo militarista non vale neanche la pena di parlare. Quanto all'antiamericanismo, di destra e di sinistra, si è sempre nutrito di un immaginario monolitico sull'America che non ha niente a che fare con l'America reale, e di un atteggiamento antimoderno. In fondo, i talebani non fanno che interpretare in modo peculiare, diciamo così, questo prodotto della cultura europea...

Comunque le differenze generazionali contano anche fuori dagli Usa, nell'atteggiamento verso gli Usa. A sinistra, la generazione della guerra fredda ha una diffidenza verso l'America che quella del '68 non ha, e che forse si riaffaccia nei giovani no-global...

Sì, perché c'è una certa confusione concettuale e politica fra "globalizzazione" e "dominio capitalistico-americano della globalizzazione". Ma ti assicuro che vista dalla West Coast, è una confusione comprensibile. Gli spazi urbani californiani sono talmente in transizione che materialmente e socialmente, prima che concettualmente, è difficile capire dove stiamo andando, in questo momento.

Le università californiane sono state anche le prime in cui s'è risvegliato il pacifismo. Cos'è, l'onda lunga del movimento sul Vietnam?

E' molto difficile da cogliere il nesso fra questo pacifismo e quello del passato. Come del resto è difficile, almeno per me, vedere un nesso fra la mobilitazione pacifista e il movimento no-global, che non ha il suo centro nelle università ma in una costellazione sociale metropolitana molto più ampia ed eterogenea.

E' vero che i giornali della West Coast sono fra le voci più aperte in questa crisi?

Sì, ne sono rimasto molto favorevolmente colpito. Il Los Angeles Times ha portato avanti un discorso critico sulla politica estera americana molto coraggioso. Più in generale, c'è stato un tentativo evidente di suggerire all'opinione pubblica americana una serie di fattori contestuali per valutare con ponderatezza l'evento: dalla storia dell'Islam a quella della famiglia bin Laden, con tutte le sfumature necessarie.

Gli Stati uniti sembrano compattamente stretti attorno alla Presidenza. Eppure, meno di un anno fa, eravamo tutti a discutere, di là e di qua dell'Oceano, della crisi della presidenza americana e della debole legittimazione di Bush. Questa crisi lo rafforza davvero tanto?

Al momento sì, è la sua salvezza, gli consente di colmare provvisoriamente con la retorica patriottica il divario fra le due Americhe, quella delle città e delle due coste e quella interna dei sobborghi, che si era drammaticamente espresso nelle presidenziali un anno fa. Va anche detto che con mia grande sorpresa Bush, evidentemente ben suggerito da Colin Powell, ha evitato di ricorrere alla consueta retorica di demonizzazione del nemico e ha evidentemente lavorato a smorzare i toni del rancore anti-islamico; si limita a enfatizzare la lotta del Bene contro il Male, usando quella retorica eticista che piace al suo elettorato, ma si tiene a distanza di sicurezza dai fondamentalisti made in Usa che interpretano l'11 settembre come il giusto castigo divino contro le femministe e i gay. Tuttavia io non credo che questa momentanea pace sociale patriottica reggerà a lungo: per ora si avvantaggia di alleanze larghe, compresa quella con quei settori pacifisti e femministi che non si sentono di opporsi a una reazione mirata contro il fondamentalismo misogino dei talebani. Ma è una pace molto fragile. Alle prime reazioni e controreazioni sullo scacchiere planetario, il caleidoscopio americano si disporrà in nuove figure. E sotto la crosta del patriottismo, non escludo che sarà il cosmopolitismo ad avere la meglio.

PRECEDENTE INIZIO SUCCESSIVO HOME INDICE