Accusa numero 1
Essere vivo e nero
"L'afrance", un senegalese a Parigi, in gara a Locarno
ANTONELLO CATACCHIO -
LOCARNO
Un'ultima giornata intensa per l'edizione numero 54 del
festival. Si comincia questa mattina con l'attesa presentazione
dei "materiali genovesi" girati durante le giornate del G8. Non è
il caso di aspettarsi rivelazioni clamorose, da tempo giornali e
tv hanno vivisezionato molte immagini, ma quel che si può dare
per certo è che verrà ricostruito il clima di quelle giornate, e
questo sarà già sufficiente per riaprire il dibattito. Meglio,
per proseguirlo, perché non passa giorno che sui giornali
italiani e stranieri non venga ripreso o stigmatizzato questo o
quell'episodio. In serata, nella piazza, prima della proiezione
conclusiva, Moulin Rouge di Baz Luhrmann, si conosceranno
i premiati.
Passiamo allora agli ultimi due film presentati ieri in
competizione. Titoli che in modo e sotto cieli diversi affrontano
entrambi la questione immigrazione. Cominciamo da
L'afrance, esordio del senegalese Alain Gomis che, dopo
averci dato sui titoli un'alternanza di immagini di Dakar e
Parigi, punta l'obiettivo sulla capitale francese. Qui troviamo
El Hadj, studente, senegalese, che sta preparando una tesi sul
ruolo dei sindacati nel processo di decolonizzazione. Il
protagonista se la passa relativamente bene, vuole completare gli
studi e tornare in patria per contribuire con l'insegnamento
della storia all'affrancamento culturale che ha reso da tempo
subalterni al mondo occidentale i cittadini africani e non solo.
Cita Lumumba, gli scrittori del suo paese. E' un intellettuale.
Poi succede qualcosa di imprevisto. Il suo permesso di soggiorno
è scaduto da poco. Lui pensa che si tratti di una faccenda
risolvibile, invece viene incarcerato per una decina di giorni.
Non ci sono violenze particolari, se non quelle insite nella
situazione umiliante che vede una persona che non ha commesso
alcun reato finire in carcere. Quando esce è di fronte a un
dilemma: o aspettare la convocazione dal giudice, il che
significa essere rimpatriato, oppure divenire clandestino. Il
giovane che sembrava controllare la propria vita è allo sbando.
Crollano le certezze e affiorano le contraddizioni. Neppure lui
sa più chi sia. Teme di essere uno straniero in Francia e uno
sradicato in patria. Gomis non punta alla drammatizzazione
estrema, forse si fa solo prendere la mano nel voler offrire
troppe situazioni e citazioni al suo racconto, ma soprattutto
emerge uno scarto tra la consapevolezza intellettuale del
protagonista e il suo rimanere annichilito di fronte a qualcosa
che certo non gli è così estraneo, per frequentazioni e
consapevolezza. E' pur vero che conoscere le cose è ben diverso
che viverle sulla propria pelle, ma in questo scarto sta il
limite del film.
Ultimo film in concorso Miss Wonton di Meng Ong,
originario di Singapore, residente a New York. Qui arriva Ah Na,
una giovane cinese fuggita dal paese d'origine perché
perseguitata. Nel corso del film viene infatti progressivamente
svelato l'antefatto. Il suo ragazzo è morto di Aids, malattia
contratta anche dalla sua migliore amica, per motivi evidenti.
Anche lei è convinta di avere contratto il morbo. Non bastasse,
gli abitanti del villaggio non solo le emarginano, ma decidono
addirittura di ammazzarle di botte. Dopo essersi salvata, mentre
l'amica è morta, Ah Na ha puntato verso gli States, paese
sognato, meglio ancora il paese del sogno che diviene realtà.
Eccola quindi entrare a fare parte della squadretta di
clandestini che lavorano in un ristorante. Ma, saranno state le
botte o l'ingenuità, la ragazza si inguaia di nuovo. Dopo una
notte passata con un americano, non trova di meglio che
trasferirsi a casa sua con mamma arrivata di fresco dal paesello.
Inutile dire che l'uomo non prende la cosa benissimo, neppure la
di lui moglie per la verità. I guai per la giovane, che
oltretutto non parla l'inglese, prendono soltanto una forma
diversa e l'avvenire non è proprio come quello di Madonna, che
lei aveva invocato, come cantante, dopo aver letto che la diva
era giunta giovanissima a New York senza un dollaro per poi
diventare la miliardaria che conosciamo.
Fragilissimo nella struttura, un po' stralunato nella vicenda il
film di Meng Ong si fa apprezzare più per la scelta dichiarata di
evitare la New York da cartolina che per quanto mostra sullo
schermo. Un dato comunque emerge dai due film, questo senso di
estraneità, di speranza, ma anche di frustrazione e impotenza nei
confronti di un mondo altro che, in ultima analisi, detta leggi e
condizioni. E' un po' come se una parte d'umanità fosse in
libertà vigilata, con regole particolari che si applicano solo a
loro. Poco importa se non hanno commesso alcun reato. La loro
colpa è di esistere, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.
E questo basta per continuare con maggiore sottigliezza
quell'operazione coloniale iniziata tempo fa e mai terminata
nonostante le concessioni e le dichiarazioni di indipendenza.
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