12 Agosto 2001
 
 
  HOME PRIMA PAGINA
Accusa numero 1 Essere vivo e nero
"L'afrance", un senegalese a Parigi, in gara a Locarno
ANTONELLO CATACCHIO - LOCARNO

Un'ultima giornata intensa per l'edizione numero 54 del festival. Si comincia questa mattina con l'attesa presentazione dei "materiali genovesi" girati durante le giornate del G8. Non è il caso di aspettarsi rivelazioni clamorose, da tempo giornali e tv hanno vivisezionato molte immagini, ma quel che si può dare per certo è che verrà ricostruito il clima di quelle giornate, e questo sarà già sufficiente per riaprire il dibattito. Meglio, per proseguirlo, perché non passa giorno che sui giornali italiani e stranieri non venga ripreso o stigmatizzato questo o quell'episodio. In serata, nella piazza, prima della proiezione conclusiva, Moulin Rouge di Baz Luhrmann, si conosceranno i premiati.
Passiamo allora agli ultimi due film presentati ieri in competizione. Titoli che in modo e sotto cieli diversi affrontano entrambi la questione immigrazione. Cominciamo da L'afrance, esordio del senegalese Alain Gomis che, dopo averci dato sui titoli un'alternanza di immagini di Dakar e Parigi, punta l'obiettivo sulla capitale francese. Qui troviamo El Hadj, studente, senegalese, che sta preparando una tesi sul ruolo dei sindacati nel processo di decolonizzazione. Il protagonista se la passa relativamente bene, vuole completare gli studi e tornare in patria per contribuire con l'insegnamento della storia all'affrancamento culturale che ha reso da tempo subalterni al mondo occidentale i cittadini africani e non solo.
Cita Lumumba, gli scrittori del suo paese. E' un intellettuale. Poi succede qualcosa di imprevisto. Il suo permesso di soggiorno è scaduto da poco. Lui pensa che si tratti di una faccenda risolvibile, invece viene incarcerato per una decina di giorni. Non ci sono violenze particolari, se non quelle insite nella situazione umiliante che vede una persona che non ha commesso alcun reato finire in carcere. Quando esce è di fronte a un dilemma: o aspettare la convocazione dal giudice, il che significa essere rimpatriato, oppure divenire clandestino. Il giovane che sembrava controllare la propria vita è allo sbando. Crollano le certezze e affiorano le contraddizioni. Neppure lui sa più chi sia. Teme di essere uno straniero in Francia e uno sradicato in patria. Gomis non punta alla drammatizzazione estrema, forse si fa solo prendere la mano nel voler offrire troppe situazioni e citazioni al suo racconto, ma soprattutto emerge uno scarto tra la consapevolezza intellettuale del protagonista e il suo rimanere annichilito di fronte a qualcosa che certo non gli è così estraneo, per frequentazioni e consapevolezza. E' pur vero che conoscere le cose è ben diverso che viverle sulla propria pelle, ma in questo scarto sta il limite del film.
Ultimo film in concorso Miss Wonton di Meng Ong, originario di Singapore, residente a New York. Qui arriva Ah Na, una giovane cinese fuggita dal paese d'origine perché perseguitata. Nel corso del film viene infatti progressivamente svelato l'antefatto. Il suo ragazzo è morto di Aids, malattia contratta anche dalla sua migliore amica, per motivi evidenti. Anche lei è convinta di avere contratto il morbo. Non bastasse, gli abitanti del villaggio non solo le emarginano, ma decidono addirittura di ammazzarle di botte. Dopo essersi salvata, mentre l'amica è morta, Ah Na ha puntato verso gli States, paese sognato, meglio ancora il paese del sogno che diviene realtà. Eccola quindi entrare a fare parte della squadretta di clandestini che lavorano in un ristorante. Ma, saranno state le botte o l'ingenuità, la ragazza si inguaia di nuovo. Dopo una notte passata con un americano, non trova di meglio che trasferirsi a casa sua con mamma arrivata di fresco dal paesello. Inutile dire che l'uomo non prende la cosa benissimo, neppure la di lui moglie per la verità. I guai per la giovane, che oltretutto non parla l'inglese, prendono soltanto una forma diversa e l'avvenire non è proprio come quello di Madonna, che lei aveva invocato, come cantante, dopo aver letto che la diva era giunta giovanissima a New York senza un dollaro per poi diventare la miliardaria che conosciamo.
Fragilissimo nella struttura, un po' stralunato nella vicenda il film di Meng Ong si fa apprezzare più per la scelta dichiarata di evitare la New York da cartolina che per quanto mostra sullo schermo. Un dato comunque emerge dai due film, questo senso di estraneità, di speranza, ma anche di frustrazione e impotenza nei confronti di un mondo altro che, in ultima analisi, detta leggi e condizioni. E' un po' come se una parte d'umanità fosse in libertà vigilata, con regole particolari che si applicano solo a loro. Poco importa se non hanno commesso alcun reato. La loro colpa è di esistere, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. E questo basta per continuare con maggiore sottigliezza quell'operazione coloniale iniziata tempo fa e mai terminata nonostante le concessioni e le dichiarazioni di indipendenza.

PRECEDENTE INIZIO SUCCESSIVO HOME INDICE