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il manifesto 2013.01.05 - 10 CULTURA
 
DIASPORE CONTINENTALI
Le melodie vincenti dell'alterità
INTERVISTA - Margherita Bettoni

INTERVISTA - Margherita Bettoni
Ùn'intervista con la scrittrice turca Emine Sevgi Özdamar. Tradotta recentemente in Italia, è considerata una delle figure più rappresentative della letteratura dell'emigrazione in Germania, il paese d'adozione che nei suoi romanzi è narrato con il ritmo e la sonorità della sua lingua madre
Considerata una delle voci più significative della «letteratura della migrazione» in lingua tedesca, Emine Sevgi Özdamar non è ancora molto nota in Italia, malgrado il successo ottenuto dapprima in Germania e poi anche in Francia, in Gran Bretagna e in Usa, dove i suoi libri hanno ricevuto riconoscimenti importanti da riviste specializzate come il Publisher's Weekly e il Times Literary Supplement.
L'incontro con lei è avvenuto a Berlino al termine di una sua lettura pubblica presso il Berliner Büchertisch, graziosa libreria nel quartiere di Kreuzberg. È da sempre restia a concedere interviste; dice che non ama i colloqui a sorpresa e che preferisce preparare bene quello che dice. Forse rinfrancata dall'atmosfera rilassante tra gli scaffali pieni di libri, Özdamar accetta l'intervista che si è trasformata in una lunga conservazione.

Vorrei iniziare citando un breve dialogo tratto dal suo libro Mutterzunge, pubblicato in Italia con il titolo La lingua di mia madre: «Cosa fa Lei qui in Germania?, mi chiese la ragazza. Dissi: Sono una collezionista di parole». Cosa significa per lei essere «una collezionista di parole»?
La lingua di mia madre parla proprio di parole. È la storia di una donna turca che a Berlino ha perso la sua lingua madre e vuole ritrovarla. Non sempre quando si è all'estero si perde la propria lingua madre, tuttavia sono tanti gli aspetti della vecchia vita che mancano: non c'è la quotidianità, mancano le voci dei venditori di strada che urlano «simitçi, simitçi» - «banane, buone banane». Ma soprattutto mancano le persone. Tua madre, la fonte d'amore della tua lingua non c'è. Tutti i tuoi ricordi sono connessi alla lontananza. Ed ecco che ad un tratto parole non ti toccano più, non ti emozionano più.
È un grande pericolo. Non importa se succede con la tua lingua madre o con un'altra: se le parole smettono di emozionarti, è davvero pericoloso. La lingua di mia madre racconta di una donna che vuole ritrovare queste emozioni, e per questo decide di studiare la lingua di suo nonno, l'arabo, e di fare un viaggio nel passato per ritrovare le parole che ha perso. Si innamora del suo insegnante, che è un sufi - un amour impossible perché lei è marxista - ma grazie a lui si addentra nei segni, nei suoni, nella musica della lingua araba e riesce a ritrovare diciotto parole che risvegliano in lei emozioni dimenticate. Poi incontra una ragazza che sta piangendo perché il suo fidanzato si è ucciso, e si scopre di nuovo in grado di provare emozioni, di essere curiosa e sensibile alle storie e alle parole degli altri. A questo punto la ragazza le chiede che cosa stia facendo in Germania. Ed è qui che entra in gioco la «collezionista di parole», che è un collezionista di emozioni.

La lingua di mia madre racconta la ricerca delle parole andate perse nella lontananza dalla proprio terra. Pensa di aver perso o riscoperto la sua lingua in Germania?
Entrambe le cose. Sono arrivata a Berlino grazie a Bertolt Brecht, questo grandioso poeta contadino che ha partorito le più geniali pièces teatrali e che mi ha regalato un'utopia nella Turchia fascista dei tempi. Negli anni Settanta gran parte della mia generazione, che aveva partecipato al Sessantotto, era in galera e io avevo paura per i miei amici. In quegli anni tutto andava a rotoli: dai matrimoni alla carriera. Ci impedivano persino di svolgere i nostri lavori. Io ad esempio ero attrice di teatro e avevo davanti a me un futuro brillante, ma, dopo che il nostro teatro è stato proibito dai militari, sono stata costretta a lavorare come assistente di ripresa.
Coltivavo il sogno di venire in Germania e di lavorare con gli studenti di Brecht. E ce l'ho fatta. Mi sono trasferita a Berlino Est e ho lavorato con Benno Besson, Heiner Müller e Matthias Langhoff. Tutti mi prendevano in giro e dicevano che ero l'unica turca ad essersi trasferita a Berlino Est anziché all'ovest. Sono stati due anni incredibili. Poi ho seguito Besson a Parigi ed ho lavorato nei teatri francesi. Infine ho ricevuto un ingaggio da Claus Peyman ed ho scritto la mia prima pièce teatrale, Karagöz in Alamania.
Quando ero in teatro non mi sentivo un'immigrata, perché il palcoscenico era come una casa. I pezzi teatrali mi emozionavano e mi promettevano sempre nuove utopie. Ma quando ero nel mondo esterno mi sentivo così sola con la città da essere inconsolabile. Ero a Berlino ed avevo paura. Mi mancavano la lingua turca, i suoi accenti, la sua musica - fino a perderne il ritmo; ho telefonato a mia madre in Turchia, e mi sembrava che la sua voce risuonasse come nel buio. Sono uscita, ho visto delle scritte in turco e ho avuto l'impressione che mi fossero estranee. Seguendo questo sentimento ho scritto La lingua di mia madre.
Quando ho finito il libro sono andata in Turchia e ne ho parlato con mia madre. Purtroppo non le ho detto quale sarebbe stato il titolo e ora lo trovo proprio un peccato, perché mia madre è morta due giorni dopo. È un po' come se lo avessi sentito. La lingua di mia madre infatti non è solo il linguaggio, ma anche fisicamente mia madre, quell'organo caldo nella sua bocca, la fonte d'amore della mia lingua. Spesso mi sono chiesta cosa simboleggiasse l'arabo, che è uno dei punti focali del mio libro. Credo di averlo capito solo dopo che mia madre se ne è andata: la scrittura araba è la morte.
Noi turchi parliamo in turco e utilizziamo l'alfabeto latino. L'arabo è la lingua del Corano. E cos'è il Corano? Paura, rabbia, morte, Inferno, Paradiso, angeli cattivi, angeli buoni. La morte insomma. E la morte si è travestita da scrittura araba ed è entrata nella mia storia per dirmi che mia madre mi avrebbe lasciata.

Noi europei sappiamo così poco di quello che è successo in quella fetta di storia della Turchia. Conosciamo ancora pochissimo lo sviluppo di questo paese, nonostante in Germania vivano ormai da decenni milioni di turchi.
Molto spesso, quando si parla di Turchia, spuntano espressioni come «problema curdo» o «paese antidemocratico». Si tratta di un processo quasi naturale: all'estero la tua storia viene rimpicciolita, deformata, ridotta a cliché. Si vedono alcune donne che portano il velo, si sente parlare di uomini che commettono vendette di sangue ed ecco che un intero paese viene ridotto a veli e vendette. Il problema è stato la mancanza di una cominità culturale.
La Germania non ha mai conosciuto la comunità intellettuale turca che hanno invece visto i parigini. Nella capitale francese vivevano tra gli altri il figlio di Nazim Hikmet, molti suoi amici in esilio, il caricaturista turco armeno Sinan e grandi urbanisti. Grazie a queste persone la visione della Turchia a Parigi è stata veicolata da una gruppo culturale, che è di fondamentale importanza nello sviluppo dell'immagine di un popolo e che a Berlino è proprio mancata.
In Germania sono arrivati immigrati poveri in cerca di lavoro negli anni del miracolo economico: italiani, greci, turchi, jugoslavi che non conoscevano il tedesco e lo hanno plasmato parlandolo con errori. I nostri errori erano la nostra identità: quando un italiano parlava lo faceva seguendo la logica della sua lingua madre, lo stesso valeva per un turco o per un greco. Anche i tedeschi hanno iniziato a parlare storpiando la loro stessa lingua. Dovevano dire «tu andare là, tu venire là». Inciampavano nel tedesco anche se la cosa non gli piaceva.

Nei suoi libri è arrivata a un mix perfetto delle due lingue....
Il ritmo del mio corpo era tedesco, la mia quotidianità era tedesca. Entri per esempio in panetteria e vedi la panettiera alla quale piaci molto che ti dice «Haloooo», quasi come volesse aprirti la porta con il suo seno prosperoso pur di salutarti. Questi ritmi ti pervadono. Poi magari ti metti a leggere Heinrich Heine al tavolo della colazione e ridi un sacco perché lo adori. Canti Bertolt Brecht, ascolti Ernst Busch o Kurt Weil e ti entrano dentro, diventano parte di te.
Se sapessi l'italiano scriverei in italiano perché adoro Pasolini, Pavese e Gramsci, ma dato che allora in Italia non serviva manodopera straniera sono andata a Berlino. La città all'epoca era proprio la tomba di Dracula ma l'arte era geniale: i teatri e la cultura erano vivi e erano capaci di critiche forti e sottili. Nella tomba di Dracula accadevano le cose più belle.
Gli stranieri che arrivavano in Germania erano in grado di cambiare la lingua ma anche l'architettura della città. Gli italiani ad esempio hanno aperto dei bar senza tende: prima del loro arrivo i caffè tedeschi erano la diretta continuazione di spazi piccolo-borghesi con tende alle finestre. Gli italiani hanno portato le loro energie, hanno aperto bar con splendidi quadri e molti brusii. I turchi hanno portato la frutta all'aperto: per strada comparivano piccoli stand di frutta e verdura. Gli stranieri che si sono stabiliti qui hanno modificato il quadro della città.

Il suo stile è molto particolare e i suoi libri si occupano molto spesso della lingua. Crede che sia possibile tradurre con successo i suoi libri?
Il mio traduttore spagnolo, Miguel Sáenz, dice sempre: «Özdamar deve essere tradotta così com'è». Miguel è linguisticamente dotato, è una persona eccezionale ed è riuscito a tradurre i miei libri con successo. Sicuramente anche l'anima del traduttore ha un ruolo molto importante. Si tratta piuttosto di un coautore: io scrivo una musica, il traduttore la ascolta e musica di nuovo il pezzo. Miguel dice sempre che un libro è sempre un'opera non ancora terminata che diventa completa solo grazie alle traduzioni nelle diverse lingue. È verissimo: spesso leggo le mie traduzioni e penso che è proprio così.

Quando scrive si ispira ad altri autori?
Amo molti poeti: Turgut Uyar, Cemal Süreya, Ece Ayhan. Nazim Hikmet, Orhan Veli. Ci sono poeti grandiosi in Turchia. Poi amo James Joyce, Joseph Conrad, Vidiadhar Surajprasad Naipaul, Cesare Pavese, Miguel Cervantes. Quando leggo questi autori le loro parole entrano in me e si intrecciano. Lo stesso accade con i film. Mentre scrivo tutte queste persone scrivono assieme a me. Poi seguo un'emozione che ho provato nella mia infanzia o nella mia giovinezza.
Poi ci sono i morti che non ti abbandonano mai o che tu vuoi sempre ricordare. E poi quelle persone che hai amato così tanto come Pavese, Pasolini o Bunuel. La loro intelligenza, la loro chiarezza, la loro sincerità li rendono tuoi amici. Tutte queste persone lavorano alla tua opera e non sei più in grado di renderti conto del loro contributo.

Lo si nota anche nei suoi libri. Il ponte del corno d'oro racconta la storia di una giovane lavoratrice turca arrivata a Berlino negli anni Sessanta. L'impressione leggendo è che, nonostante la solitudine, la ragazza sia circondata di pensieri, idee e sentimenti....
In quegli anni ci si innamorava di personaggi grandiosi. Non importava se vivessero ancora o fossero morti perché i morti, a quei tempi, non lo erano più. Venivano riportati in vita dai libri, erano al centro di grandi discussioni, venivano mostrati come esempi nei cinema. Adesso è più difficile perché queste grandi personalità non vengono più vissute. Ma l'uomo è un essere sensibile che può ritirarsi in sé stesso e ritrovare questi amici morti. Li può ritrovare nei libri, nei pensieri o, semplicemente, nell'amore per altre persone.

È una donna politicamente impegnata. Come vive l'attuale e diffuso disinteresse per la politica che caratterizza la Germania, ma anche altri paesi europei?
Viviamo in tempi difficili. Il capitalismo si comporta come se avesse annullato del tutto il socialismo. Ci sono i cinici che riderebbero se tu citassi Marx, questo grande uomo che aveva intravisto la verità sul futuro. E noi stiamo proprio vivendo in quel futuro del quale Marx aveva parlato. Sono da sempre convinta che l'utopia è sempre di sinistra, mai di destra. E senza l'utopia non si può sopravvivere.
Internet non sarà mai un'utopia. È una terapia occupazionale della quale potremmo tranquillamente fare a meno. E' la vendetta degli impiegati di Kafka che volevano ricreare ovunque un'atmosfera da ufficio. Viviamo in una situazione kafkiana: ogni persona è seduta davanti ad un computer, in treno squillano i cellulari, le persone rispondono, parlano a voce alta e si ignorano l'un l'altra. Un mondo di pazzi.

Cosa significa per lei «comunismo»? Si tratta di una parola vuota?
No, per me non è una parola svuotata, non lo è per molti. Se penso al comunismo penso ai comunardi francesi o a un film come Roma città aperta. Bisogna tornare a credere ai morti che ci hanno insegnato qualcosa, che hanno fatto qualcosa. Se lo si fa il comunismo non sarà mai una parola vuota. Torniamo ai nostri morti che hanno creduto in qualcosa: loro ci daranno la risposta giusta.
Penso agli abitanti dei villaggi turchi degli anni Sessanta, persone che pensavano con intelligenza, che volevano cambiare qualcosa. Penso agli operai che provavano a leggere Marx e ne discutevano assieme. Ho un grande rispetto per queste persone.
 
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