il manifesto
06 Maggio 2008
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CULTURA

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Produttori di identità in nome dell'unica Verità
La tela di ragno tessuta dai discorsi dell'esclusione in età medievale. Un saggio dello storico Giacomo Todeschini per Il Mulino
Francesco Migliorino

Identità e alterità sono legate l'una all'altra. L'identità, nel suo farsi, ha un irrevocabile bisogno dell'alterità e con essa è costretta, di continuo, a negoziare i confini della purezza e del pericolo. La formazione di entrambe implica due operazioni opposte e che tuttavia si richiamano vicendevolmente: una procedura di separazione (e di negazione), quando l'identità si muove verso gli strati più sottili della particolarità; un'azione di assimilazione quando essa si spinge verso i livelli superiori di generalità (e di universalità). Avviene così che l'altro venga espulso da sé o incluso in sé. Come spesso avviene, prevale il disconoscimento dell'altro. Ogni civiltà ha tessuto, attraverso il filo di questa radicale tensione, la propria auto-rappresentazione e il rapporto con coloro che, di volta in volta, le sono apparsi barbari, intrusi, ospiti perturbanti o temibili invasori.

Presi nella ragnatela
Un libro recente di Giacomo Todeschini (Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all'età moderna, Il Mulino, pp. 312, euro 18) propone un avvincente scandaglio dei discorsi dell'esclusione nell'età medievale. Una vera e propria tela di ragno in cui restano impigliate le vite maledette degli uomini infami, ma anche le luminose esistenze di quanti avevano il potere di dire la verità. Una ragnatela che - ieri come oggi - è tessuta con gli attrezzi del linguaggio, mette in bella mostra i suoi valori «universali», s'industria a nominare e denominare i comportamenti umani, instancabile com'è a quadrettare gli spazi della normalità e quelli delle devianze. Un mirabile congegno che, col volto protervo e l'amorevole sollecitudine dei potenti, alza barriere, segna bordi, traccia margini, per tenere a distanza riconoscendoli il magico, l'impuro, il sacro, l'irriducibile, il contumace.
Nonostante le sue disastrose conseguenze giuridiche, l'infamia legale non si arresta ai margini artificiali del diritto e della teologia, e si spinge fino a ricongiungersi con tutti gli altri discorsi nel «Testo» infinito dell'ordine dogmatico. In proposito, Todeschini dedica pagine dense e ricche di suggestioni allo straordinario investimento di sapere che si produce intorno ad una inedita «scienza della credibilità» stracolma di riflessioni e di esperienza. Sembra quasi di vederlo quel medievale torneo di intelligenze costantemente vigili «sull'identità pubblica, morale e politica di coloro che facevano parte della "città" cristiana». Per questa via, decidere dell'attendibilità dei testimoni nel processo contribuiva a ricondurre lo schema binario cittadini/malviventi, fedeli/infedeli, giusti/infami a un più radicale partage che scorreva già da qualche secolo lungo un crinale tagliente: da una parte la natura spirituale dell'uomo che sente spirare il soffio della salvezza, dall'altra la misera postura del corpo che rimane prigioniero della sua ferina carnalità. Si potrebbe aggiungere: l'infamia come spazio metaforico in cui si costituisce la Verità, quasi fosse un congegno che muove senza sosta la storia del vero e del falso, che scandisce i tempi della costituzione del soggetto.

Estranei alla città cristiana
Produzione della verità e costituzione del soggetto, dunque, delimitano il campo semantico entro cui interdizioni ed esclusioni servono a scongiurare i pericoli che da sempre si annidano nella produzione del discorso. Alla fine, nella scrittura appassionata di Todeschini, a primeggiare restano solo quelli (i pochi) che hanno il potere di dire ciò che deve essere detto. Gli altri (i più) se ne restano docili ad aspettare di sapere. Come fossero sospesi in uno spazio liminale e la loro scolorita identità fosse sul punto di separarli dalla civitas christiana prima di precipitare nei recinti dell'ignominia.
C'è sempre un misterioso e impenetrabile scarto tra la sicurezza con cui teologi e giuristi descrivono le varie cause d'infamia e la porosità di un'area semantica che è portata quasi naturalmente a lasciar tracimare le più rassicuranti distinzioni, fino al punto da ospitare con amorevole cura un numero sempre maggiore di uomini infami. Un catalogo aperto a tutti, un elenco vistoso che mette insieme ladri e sacrileghi, spergiuri e violatori di tombe, malfattori e rapitori, carcerieri e carcerati, incestuosi e sodomiti. Un nome (infamia) che si alimenta senza sosta delle situazioni che esso stesso ha contribuito a creare. Potenza del nominare, direbbe Nietzsche.
«Ma perché un nome possa cominciare il suo lavoro di creazione ha bisogno di autorità» - ha scritto Ian Hacking. Ha bisogno della parola di uomini consacrati che, nella loro «identità immacolata», sappiano mostrare la luce e la virtù del potere. Ancor più quando essi celebrano, davanti a una folla stipata di colpevoli, la presenza reale del Corpo di Cristo. Ed è proprio nella sfera della comunicazione simbolica del sacro che si consuma il decisivo accostamento tra le perversioni dell'anima e le storpiature dei corpi. Ancora una volta il grande motore è un nome: irregularitas. Per il nostro autore sono proprio le regole ecclesiastiche sugli impedimenti all'ordinazione sacerdotale a costruire, nel tempo, uno sgangherato esercito di irregolari: figli illegittimi e criminali, disonorati e minorati. Il difetto fisico diventava specchio dei vizi dell'anima e faceva meritare l'esclusione da una piena e onorata «appartenenza civica». Si capisce, allora, perché lo scandalo fosse la più temibile insidia all'armonia e all'ordine, ancor più del peccato. Come l'incestuoso di Corinto, anche il più umile dei chierici, per una condotta scandalosa, rischiava di scompaginare la rete sociale delle obbedienze e delle fiducie. Rischiava, soprattutto, di far vacillare l'autorità del pastore.

La macchina mitologica
Nell'età medievale l'osservazione reciproca rendeva l'altro familiare (heimlich), facendo sì che ciascuno fosse aperto allo sguardo di tutti gli altri. Interdizioni e divieti s'imprimevano nell'immaginario collettivo per la loro forza evocativa e rituale, per la loro capacità di tenere ai margini soggetti che, riconosciuti come diversi, andavano ancora considerati parte del tutto. Quando, invece, l'epifania dell'età moderna sgretola le tradizionali forme di controllo sociale, gli uomini si sentono soffocare da una generale condizione di angoscia che lascia presagire poteri sinistri e nemici invisibili.
Non c'è da temere. La macchina mitologica è ancora al lavoro. Lo stereotipo dell'eretico serve ormai da modello per un nuovo nemico: l'ebreo. Infido da sempre per la sua doppiezza, opaco nella sua visibilità, affamatore dei poveri, appena tollerato perché testimone vivente della Passione, egli si avvia ormai a diventare il più temibile nemico interno. Todeschini dedica in proposito pagine di grande efficacia, là dove fa rivivere il mito della profanazione dell'ostia.
La Verità non smette mai di prendersi cura dei suoi soggetti infantili.

 
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