il manifesto
19 Giugno 2008
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CULTURA & VISIONI

taglio medio
SAGGI
Precarietà allo specchio dei ghetti metropolitani
«La città fragile» di Beppe Rosso e Filippo Taricco
Giovanna Boursier

In ogni città, di giorno, ci sono strade dove si incontrano mendicanti e, di notte, ci sono viali che si popolano di prostitute e clienti. E, nelle stesse città, normalmente in periferia, vicino a una discarica, o sul greto di un fiume, ci sono i rom, costretti a vivere nei giganteschi ghetti che si chiamano campi, monumenti postmoderni all'esclusione. Ovunque, quindi, ci sono spazi urbani inesplorati, «inconfessabili», dove chi si crede cittadino più di altri dice di non mettere piede e definisce chi vi abita soprattutto per differenza ed estraneità. Accade raramente, infatti, che chi oggi si incarica di compiti securitari in nome della tolleranza zero, conosca, se non per eccesso, quello che in questi luoghi si vive davvero. Se ne scrive poco, se non per emergenza.
Per questo vale ancora di più leggere il libro di Beppe Rosso e Filippo Taricco La città fragile (Bollati Boringhieri, pp. 96, 12 euro). Che di puttane, zingari e barboni parla: tre racconti (più una postfazione di Marco Revelli), tutti nati da precedenti lavori teatrali messi in scena dagli autori negli ultimi anni per il Teatro Stabile di Torino. Come se da scrittura scaturisse scrittura, in una lunga ricerca sul campo che diventa un viaggio e ci porta in quei luoghi sommersi delle metropoli, per restituircene storie.
Nella prima, Seppellitemi in piedi, ispirata a un fatto accaduto dieci anni fa alle porte di Torino (di cui aveva scritto Revelli nel suo Fuori luogo), ci sono i rom scappati dall'incendio del loro villaggio in Romania e accampati su un piazzale al confine tra due città, dove chiedono asilo politico e invece saranno di nuovo cacciati, con un foglio su cui c'è scritto deportation order. Il titolo si ispira alla frase che dice il vecchio Carfin in punto di morte in una delle roulottes sul piazzale: «Ho passato la vita in ginocchio, quando morirò seppellitemi in piedi». E prima aveva detto di gente piegata, spinta sempre fuori, ai bordi, costretta a spostarsi e rendersi invisibile in spazi che gli altri trascurano o immaginano vuoti. Come succede anche alle prostitute del secondo racconto, La fortezza di Rozafat, in cui la protagonista è una delle tante ragazze rapite in Albania e schiavizzate sui marciapiedi a fare marchette. E come succede anche ai senza tetto, i poveri - protagonisti della terza storia, Senza - che oggi aumentano in tutte le metropoli e muoiono di freddo nell'indifferenza di molti.
La narrazione è rapida, stempera la durezza con ironia, ha il ritmo che deve avere il teatro e, tra l'altro, dice di gente che a teatro non ci va mai. Vive e lavora sulla strada (e il merito di questo lavoro è anche di farti pensare che la scena, oggi, è soprattutto lì) e quando ci avvicina lo fa spesso per chiedere: carità, soldi in cambio di sesso, aiuto. Noi, se diamo, lo facciamo perché ci sentiamo protetti ma anche colpevoli, nella certezza di casette a schiera con giardino, tv satellitare e poco altro. Per questo, come in un paradosso, e come scrive Revelli, La città fragile parla soprattutto di noi (e del fallimento della politica): lo fanno i rom sgomberati che dicono del nostro sradicamento, i barboni in coda per la mensa che dicono della nostra precarietà, le prostitute di fronte alla fila di auto dei loro clienti, che dicono delle nostre solitudini. Tutti insieme ci parlano dell'incertezza diventata sistema, della possibilità sempre più attuale di essere messi da parte, di come è diventato facile varcare il confine tra chi è dentro e chi è fuori. E scivolare fino a cadere. In «periferia», appunto. Diventa evidente, insomma, che la distanza che ci separa da quelli che chiamiamo «stranieri» e cerchiamo di allontanare, è la stessa che ci separa da noi, facendoci credere a illusioni pericolose, senza considerare che le responsabilità non sono tanto verso di loro ma soprattutto verso noi stessi. Perché la violenza dell'esclusione permette di credere di sopravvivere. Trovando capri espiatori alle inquietudini e all'insicurezza. Primi tra tutti sempre i rom, che non riusciamo nemmeno a definire oltre i pregiudizi: da figli del vento a ladri, fino a crederli non italiani o nomadi, cosa che non sono più da decenni.
Attraverso questo libro, quindi, gli autori svelano paure e verità. Soprattutto perché modificano il punto di vista. Il loro, prima di tutto, quando si accorgono, per esempio, che il problema più grande di un barbone non è tanto la fame quanto il dover usare la strada come bagno, o che appena «passi il confine, negli occhi della gente il centro diventa periferia». Mano a mano capisci che è un libro sulle nostre città, e sposti lo sguardo dove, comunque, resistono culture preziose. Non ci sono giudizi, solo distanze che si colmano: i vuoti urbani si riempiono, diventando un palcoscenico nel quale, in fondo, tutti recitiamo. Un po' spaventati, forse, ma con l'idea che sulla strada sarebbe meglio starci insieme. Tanto più oggi, che la geografia dell'emarginazione è diffusa e pericolosa, perché le menti si abituano al rifiuto che si trasforma in una norma sociale.

 
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