il manifesto
20 Agosto 2008
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CULTURA & VISIONI

taglio medio
REPORTAGE
Sulle rotte dei migranti al disperato assalto della Fortezza Europa
Giuliano Battiston

STEFANO LIBERTI, A SUD DI LAMPEDUSA. CINQUE ANNI DI VIAGGI SULLE ROTTE DEI MIGRANTI, MINIMUM FAX, PP. 198, EURO 14

Sorretto da uno sguardo appassionato e dai chilometri macinati per raccogliere le voci degli exodants che decidono di raggiungere la «Fortezza Europa» nonostante la militarizzazione delle frontiere, il libro di Stefano Liberti, A sud di Lampedusa si è già meritato critiche più che positive: Goffredo Fofi su Internazionale ha scritto che «ha ridato dignità a un mestiere ormai marcio, con la capacità di rendere vera e grande la vita delle vittime, che è la sola e vera epica del nostro tempo»; mentre Filippo La Porta ha detto sul Corriere della Sera che Liberti è riuscito, spinto da «un'autentica passione conoscitiva», a «reinventare un'epopea». E, in effetti, leggendo il racconto del suo lungo viaggio - dal Senegal al Niger, dalla Mauritania all'Algeria, dal Marocco alla Turchia per finire a Lampedusa - viene da dire che siamo di fronte a un libro necessario, per almeno due ragioni. La prima, più propriamente «politica», è che in un momento in cui il controllo della mobilità costituisce, ancor più di prima, lo strumento attraverso il quale operare e governare la stratificazione sociale, il fenomeno delle migrazioni transnazionali non soltanto investe le relazioni interstatali e intrastatali, ma diviene la cartina di tornasole su cui misurare l'esercizio del potere e le strategie con le quali sottrarsi ad esso per costruire luoghi di autonomia sociale e politica (esemplari le pagine dedicate alla «repubblica autogestita» di Maghnia, in Algeria). L'altra ragione è di carattere «morale» e insieme «estetico»: alieno dalla tendenza apodittica che costituisce la cifra più evidente di certo giornalismo d'inchiesta, Stefano Liberti non presume di possedere uno sguardo trasparente, capace di restituire in via definitiva le storie che racconta, e si chiede invece con quale legittimità possa avanzare la pretesa di raccontare per conto di terzi; con quale criterio possa scegliere una storia piuttosto che l'altra; quale sia il giusto confine tra il coinvolgimento personale e il rigoroso esercizio giornalistico che richiederebbe di sottrarsi all'immedesimazione.
In breve, alla presunta innocenza del suo giudizio e delle sue parole Liberti non crede mai, ma neanche crede che basti un semplice esercizio di autoriflessione critica per venire a capo del problema. Ed è proprio qui, oltre che nell'autenticità e nell'esemplarità delle voci raccolte, che sta la forza del libro: nella consapevolezza di praticare una professione pericolosamente «sospesa tra l'illusione di una denuncia civile e la realtà di un voyeurismo cinico». Ma cinica, la voce dell'autore di questa intensa esplorazione della geografia del transito tra Sahel e Maghreb non lo è mai. Anzi, è una voce che sembrerebbe echeggiare quella di Ryszard Kapuscinski, quando sosteneva che il cinico non è adatto al mestiere di giornalista.

 
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