il manifesto 03 Dicembre 2005 |
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ROMA
Il «lusso» di avere un tetto sopra la testa
Africani, est europei, asiatici. Ma ci sono anche italiani «di ritorno». Uniti dal diritto ad avere una casa
ELEONORA MARTINI
ROMA
Ci saranno anche loro oggi a Roma, perché se il problema abitativo è comune a molte famiglie italiane, l'approdo ad una piena cittadinanza per gli immigrati parte inevitabilmente da una casa dove vivere in sicurezza. Provati dall'emergenza abitativa cittadina ed esasperati dall'ondata di freddo e di piogge torrenziali che si è abbattuta su Roma, da una settimana 30 famiglie - italiane e immigrate: 78 persone di cui 7 bambini; 8 i nuclei con cittadinanza italiana - hanno occupato con l'aiuto del Comitato degli immigrati in Italia, uno stabile in via Giolitti 212, vicino a Porta Maggiore, di proprietà dello stato ma in disuso e abbandonato da circa cinque anni. Tre padiglioni su due piani, tipico edificio industriale d'inizio secolo, è stato la sede del Centro di formazione professionale della Regione Lazio. Il luogo sembra adeguato a risolvere il problema abitativo per queste famiglie provenienti soprattutto dall'Eritrea, dall'est Europa, dal sud America e dal sud est asiatico, ma anche per trovare una soluzione all'annoso problema di uno sportello informativo in lingua madre per gli stranieri, di un centro di accoglienza e di spazi associativi e di ritrovo per le comunità, come da tempo richiesto (e promesso dalla Provincia di Roma) dall'associazione Dhuumcatu che fa parte del Comitato degli immigrati. Le storie di queste famiglie sono tante e ognuna meriterebbe un racconto: la maggioranza ha perso la casa con sfratto esecutivo, spesso per morosità dovuta a mancanza di lavoro regolare e al carovita. Tutti hanno regolare permesso di soggiorno. I più giovani sono rifugiati politici, soprattutto eritrei: Johannis ha 32 anni e da due ha ottenuto l'asilo, parla bene l'italiano. «Sono arrivato per mare, da clandestino, come tutti - racconta - poi con lo status di rifugiato ho vissuto nel centro d'accoglienza di via Marliano (messo a disposizione, nell'agosto 2004, dal Campidoglio per 505 persone richiedenti asilo sgomberate dall'hotel Africa, un grande capannone occupato vicino la stazione Tiburtina, ndr). Non conoscevo la lingua, non avevo lavoro, ogni giorno alle nove di mattina dovevamo lasciare l'edificio per tornare la sera e non più tardi di mezzanotte. Ci avevano detto che saremmo rimasti lì fino a quando avremmo trovato una sistemazione, ma dopo solo 10 mesi il centro ha chiuso e siamo finiti tutti per strada». Asmara ha 19 anni e un viso bellissimo da «eritrea romana», vive a Roma da quando ne aveva 4, studia di sera per terminare il liceo turistico e di mattina lavora quando e dove può. E' stata sfrattata, con sua madre e sua zia, da un appartamento all'Alessandrino, nell'estrema periferia della capitale, non ce la facevano a pagare un affitto. Ma c'è anche chi, da ex benestante, a questa condizione di «occupante» proprio non si abitua. La signora J. è nata a Damasco ma è italiana. La sua famiglia, di Udine, si trasferì nel Ventennio a Tripoli, in Libia, e alla fine finirono in Siria dove hanno sempre vissuto con permessi di soggiorno non avendo mai rinunciato alla cittadinanza italiana. «Una serie di drammi familiari, sfortune economiche e la morte dei nostri mariti costrinsero me, mio fratello epilettico dalla nascita e mia sorella, che ha un figlio di 14 anni, a ritornare in Italia - racconta - Eravamo ricchi ma abbiamo perso tutto e oggi, a 57 anni, non trovo nessuno che mi offra un lavoro. Mio fratello è invalido totale, deve essere controllato a vista costantemente, ma con 240 euro di pensione non so cosa farci. Negli ultimi 5 anni abbiamo vissuto ospiti di amici ma ora dobbiamo trovare un'altra soluzione. Cosa possiamo fare?». Chissà se il ministro per gli italiani all'estero Mirko Tremaglia saprebbe risponderle?
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