il manifesto - 16 Ottobre 2003
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Bossi costretto alla resa, ma il vero sconfitto è Berlusconi
ANDREA COLOMBO
Dopo otto lunghissimi giorni, sull'orlo del baratro e della crisi di governo, Berlusconi si è deciso a rompere il silenzio. Con le sue parole ha siglato la prima vera vittoria di Gianfranco Fini dal 13 maggio 2001, ha incrinato, sia pure di malavoglia, il legame che lo vincola a Umberto Bossi ma soprattutto ha platealmente ammesso di non essere più il padrone della Casa delle libertà. Certo, il premier ha cercato di indorare la pillola amarissima somministrata al senatur. Ha tentato di controbilanciare la condanna mettendo le riforme istituzionali al primo posto nell'agenda del governo ed esaltando in particolare la sola che interessi il capo del Carroccio, quella federalista. Ma a conti fatti il suo pronunciamento, invocato proprio dalla Lega a voce sempre più alta, è stato inequivocabile, e diametralmente opposto a quel che si aspettavano i leghisti. In una partita come questa, a valenza fortemente se non esclusivamente simbolica, ammettere che sul voto agli immigrati non esiste vincolo di maggioranza significa sposare senza ambiguità la posizione del capo di An e sconfessare quella del leader leghista.

Non era certo questa la linea del premier all'inizio della vicenda. Il suo punto di vista, subito dopo il primo annuncio di Fini, coincideva al contrario con quello di Bossi, era caratterizzato da una franca irritazione nei confronti del vicepremier e dei centristi che lo spalleggiavano. E' probabile che ieri Berlusconi abbia davvero imposto al senatur la resa, ma prima ancora lui stesso era stato costretto ad accettare il diktat del suo alleato principale, e sino a questo momento più mansueto. Un esito diventato inevitabile nel momento stresso in cui il cavaliere ha capito che il capo di An sarebbe andato avanti anche a costo di affrontare la crisi di governo e le elezioni anticipate.

E' possibile e forse probabile che Fini, solitamente prudente, si sia deciso a tenere un comportamento tanto determinato e per lui inusuale dopo le affermazioni di Bossi sulla paura delle elezioni anticipate. Commentando le reazioni comprensibilmente esasperate alla sua ennesima sparata contro i nazional-alleati di Roma ladrona e contro gli ex Dc da fucilare, Bossi aveva sentenziato che in politica il potere è di chi non teme le elezioni. Dunque, nel centrodestra, della Lega e del premier, per nulla spaventati dall'ipotesi di un ricorso anticipato alle urne, a differenza dei pavidi alleati. Il sostegno del premier, immediatamente offerto al leader nordico anche in quella occasione, deve aver convinto Fini dell'impossibilità di uscire dall'angolo in cui era stretto sin dalla nascita del governo senza prima andare a vedere il bluff di Bossi. La scelta del terreno di scontro, quello più indigeribile per il Carroccio, è stata evidentemente dettata proprio dalla necessità di costringere la Lega a minacciare la crisi, obbligandola così a scoprire le carte e a confessare la propria paura della crisi e delle urne.

La minaccia di Bossi non è stata affatto un elemento secondario nel determinare sinora gli equilibri nel governo e nella maggioranza. Il rapporto privilegiato che il premier ha sempre mantenuto con i leghisti era fondato, se non esclusivamente almeno in larga misura, proprio sulla convinzione che Bossi, il barbaro, fosse l'unico tra gli inquilini della Casa delle libertà a poter denunciare l'alleanza, come già nel `94, anche a costo di rischiare la crisi. Minare l'onnipotenza di Bossi senza prima svelare il suo bluff sarebbe stato per i centristi e per An impossibile.

Ma il ricatto della crisi è stata anche l'arma adoperata da Berlusconi per imporre il suo dominio assoluto nel centrodestra, un dominio prima saldissimo, poi, dopo le ultime amministrative, sempre più traballante. La minaccia di un ricorso al voto anticipato e di una campagna elettorale tutta improntata all'appello plebiscitario del leader contro i suoi stessi riottosi alleati è stata uno dei pilastri del potere imperiale del cavaliere sui leader subordinati. La retromarcia di ieri rivela che quell'arma di ricatto, già spuntata dopo la batosta alle amministrative, è ormai inesistente. Si è anzi capovolta nel contrario: oggi nessuno teme la crisi e il voto più del capo di Forza Italia. Ed è difficile credere che nei calcoli di Fini (ma anche di Casini, Follini e Buttiglione) non fosse previsto un simile esito, il colpo durissimo inflitto al primato del cavaliere.

Il capo della destra italiana potrebbe comunque consolarsi se la resa mettesse almeno fine al braccio di ferro che dilania da mesi la sua coalizione. Non è così. L'armistizio firmato ieri è di quelli che pongono le basi per nuovi e più acerrimi scontri su tutti i fronti. E alla fine non è difficile prevedere che un simile equilibrio del terrore, tutto basato sulla minaccia di una crisi che tutti agitano e tutti temono, finirà per sfuggire di mano e portare davvero alle urne ben prima che nel 2006.