il manifesto - 15 Ottobre 2003
Gianfraco Fini alla prova del leader
Il capo di An sfida Bossi: «Sulla legge per il voto agli immigrati non arretro di un millimetro, ma non voglio cacciare la Lega né far cadere il governo.Quella del Carroccio è un'aggressione politica». E ai dissidenti del suo partito: «Io vado avanti lo stesso»
ANDREA COLOMBO
ROMA
Sfodera la grinta, ma la accompagna con una pacata ragionevolezza. Nel salotto di Bruno Vespa Gianfranco Fini si è seduto tante volte, ma questa è un'occasione particolare e nessuno se ne rende conto meglio di lui. Il leader di An deve convincere gli italiani che hanno votato per la destra delle sue buone ragioni. Deve tenere duro sulla sua proposta di far votare anche gli immigrati, ma allo stesso tempo è tassativo far capire che questo non significa affatto mirare alla crisi di governo. Perché se qualcuno deve far saltare il banco quello non può certo essere il «moderato» che guida An. Deve essere Umberto Bossi, il barbaro. Sulla intenzione di non arretrare «neppure di un millimetro», il vicepremier non lascia dubbi. «C'è la possibilità - conferma - di una vasta maggioranza in parlamento, anche con la sinistra. Se la Lega non vota, la maggioranza per approvare la legge ci sarà lo stesso». Però, aggiunge, «non accetto che si dica che ciò significa che io voglia far cadere il governo».

E' un messaggio rivolto non solo al Carroccio e, per interposto Bossi, a Silvio Berlusconi. Destinatari sono anche i tanti nazional-alleati che stentano a frenare il mal di pancia, e ce ne sono da tutte le parti, tra gli oppositori della destra sociale, come Storace, e tra gli yes-men berlusconiani come Gasparri, che ancora ieri ha dichiarato secco: «Se condivido la legge la voto, se non la condivido voterò contro». Ma il partito, profetizza Fini, «comprenderà». E se qualcuno non capisce «io vado avanti come ho fatto a Fiuggi: un leader politico non resta fermo perché qualcuno dice 'Non lo fare'».

Dopo essersi irrigidito sul merito della sua proposta, Fini assicura di non nutirire alcunsecondo fine. E sul tema, Fini comprensibilmente si dilunga. Complotti per sostituire Berlusconi? «Tutte fantasie». Un «castello di dietrologie» da escludersi «nel modo più assoluto». Dietro la proposta «c'è solo la convinzione circa la bontà di quel che dico». A scatenare il putiferio è stato casomai il Carroccio con «una aggressione politica di cui non comprendo il motivo».

Figirarsi se lui, l'onesto Gianfranco, l'uomo che ha «sempre contrastato ribaltoni e ribaltini», può mirare a un cambio di maggioranza. Al contrario: «Non voglio che la Lega se ne vada. Non voglio che se ne vada nessuno». E probabilmente è proprio così. Quel che Fini vuole non è cacciare Bossi, ma ridimensionarlo, stringerlo all'angolo, e usare poi la vittoria per porre sotto scacco l'egemonia assoluta di Berlusconi, imporsi da subito come suo unico possibile successore, accreditarsi presso quei poteri e quelle aree sociali che vogliono al potere una destra ragionevole e perbene, depurata dalle pulsioni plebiscitarie del cavaliere e dal movimentismo incontrollabile dei nordici.

Per raggiungere questi obiettivi, Fini non può permettersi il sospetto di mirare al ribaltone. Nella performance offerta ieri sera a Porta a Porta, il passaggio più eloquente è arrivato quando Vespa ha letto al capo di An le parole di fuoco appena pronunciate dal suo rivale, da Bossi. Serafico, Fini finge di approvarle entusiasta: «Sono positive e responsabili. Bossi non dice che farà la crisi di governo, ma che si opporrà in parlamento alla legge sul voto agli immigrati. Dunque se la Lega non si convincerà deciderà il parlamento». Tanta tranquillità è quasi un invito. Fini fa sapere al senatur che le concioni non basteranno a fermarlo. Tra le righe lo sfida a mettere sul piatto della bilancia la crisi di governo, convinto che il capo leghista non oserà tanto e che, se pure lo facesse, Berlusconi non potrebbe a quel punto che schierarsi con chi non si è mai spinto sino a mettere in forse la sopravvivenza dell'esecutivo. E accettare di mettere il Carroccio alla porta. Per questo Fini fa il possibile per mostrarsi sereno, sicuro: «Stiamo ai fatti. Questa maggioranza ha tutte le possibilità di arrivare alla fine della legislatura».

E per lo stesso motivo Fini arretra su un altro fronte, quello del rimpasto. Nega di mirare al ministero degli esteri. Nega addirittura di mirare ad alcuna delega. Il posto di vicepremier, giura, gli «basta e avanza». Frattini dorma pure sonni tranquilli. Certo, ci vuole «un maggiore equilibrio nella coalizione». La squadra, insomma, in gennaio dovrà essere modificata. Ma senza che il valzer delle poltrone lo coinvolga: «Non ho intenzione di chiedere per me».

Sino a poche settimnane fa il rimpasto sarebbe bastato. Ora non più. Ora Fini si è imbarcato in una partita più importante e più difficile, quella che ha per posta non solo la messa ai margini della Lega e di Giulio Tremonti, ma la stessa leadership della destra italiana nei prossimi anni.